RADIO BABELE - Daniele Zanghi - Un racconto breve di Ângela Calou
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| Daniele Zanghi |
Ângela Calou si è addottorata nel 2024 presso la Universidade Federal da Bahia, in Brasile. Attualmente svolge il lavoro di professoressa all’Instituto Federal do Rio Grande do Norte. I suoi ambiti di interesse sono: la filosofia moderna e la letteratura russa del XIX secolo; i concetti di modernità, razionalità e emancipazione, di esperienza e di nichilismo. Gli autori sui quali si è maggiormente concentrata sono Schopenhauer, Dostoiévski e Walter Benjamin. Il racconto breve che proponiamo in traduzione è tratto dal suo libro del 2011 Eu Tenho Medo de Górki e Outros Contos, edizioni Gráfica Lcr.
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Viale del Castello, n. 1824
Solido limitato da poligoni piani – diceva la definizione dei dizionari. Nel frattempo non succedeva niente. L'orologio relativizzava i passi, i piani e le intenzioni, che quasi sempre apparivano avventati, deformi, distratti, quando gli occhi volgevano al vento che, proveniente dall'altra parte della città, stanco del suo solito girare su pelli bisognose di refrigerio, si fermava lì per sbaglio, alla ricerca di un’altra mente su cui distendersi lentamente.
Si alzò. Fece rumore appoggiando sul tavolo il vecchio bicchiere di alluminio che aveva cercato di ammaccare sui lati, e che aveva trovato in quel luogo come un resto vivente di un mosaico estinto costruito su piccoli pezzi di memoria e muffa: una nonna lontana; uno zio pazzo, morto a cinquantatré anni; una tata nera che si prendeva cura di figli che non erano i suoi.
Si vestì. Non era solito indossare stivali. Ma non era nemmeno usuale che piovesse. E tutte quelle cose e persone, e immagini di cose e persone, e immagini di immagini che non esistevano più. Sarebbe stato meglio se non ci avesse mai più messo piede. Ma, testardo com'era, meglio un ago avvelenato che tormentasse il petto anestetizzato dal triste bottino degli anni che dimostrare un atteggiamento positivo di fronte a qualsiasi raccomandazione.
«E se vedessi un'anima? E se vedessi un vertiginoso corpo morto che cammina? Un corpo morto nel suo vortice spettrale, vestito con gli abiti bianchi dei morti e che cammina da una parete all'altra per essere notato, poiché si nutre del terrore altrui?» Rise da solo dell'assurdità di quella sciocchezza. «I fantasmi non esistono, Izabel! Non esistono! Togliti dalla testa quel lenzuolo bianco con i fori per gli occhi, perché non è lo spavento che mi porti, ma solo la tua ridicolaggine!» – Si ricordò di quel giorno di San Camillo, quando era stato con sua cugina in un posto simile a quello, se non forse proprio quello.
Il fatto è che Izabel era morta ora, e se le fosse apparsa nascosta sotto il telo bianco, non le avrebbe chiesto di strapparglielo dalla testa come quella volta, perché avrebbe avuto paura di posare lo sguardo sulla cugina morta: i globi secchi, le pupille sfocate, lontane dal loro colore nero originario, l'odore dei fiori del funerale, il viola marcio dei cimiteri, il sapore salato insinuato sulla sua lingua, sapore delle lacrime che non erano uscite dagli occhi quando l'aveva vista senza che lei potesse guardarlo e percepire la sua disperazione nascosta, in un unico e medesimo istante.
Aveva detto «il fiume mai, Izabel, mai». Ma Izabel, impavida, tentò di attraversare il fiume e non resistette alle urla di follia dei pericolosi torrenti di quel gennaio. Lui non poté far nulla: perché bagnare i vestiti asciutti se forse si trattava solo di un'altra marachella di Izabel? La cugina più grande, con le sue scatole da scarpe per catturare le farfalle, nelle sue corse sfrenate alla caccia di lucertole, nel bacio affettuoso sulla guancia del nonno, che la preferiva a tutti e non si vergognava di dirlo, o nel vagare delle dita tra i riccioli del suo amato Céu - cosa che in lui, uomo dai modi contenuti, provocava ancora una fitta di dolore dove, senza cercare troppo, si vedeva subito il sangue segreto di una ferita mal ricucita.
Di spalle, non voleva più notare nulla, né evocare ricordi, così solo e senza forze per riuscire a portarli fino in fondo. Calciò dei sassi, impolverando gli stivali indossati appositamente per l'occasione. Controllò le chiavi nelle tasche, ignorò il bicchiere di alluminio rovesciato dal vento (o da un lenzuolo fluttuante?) ai suoi piedi. Infine, fece ritorno, pensando che, nel giro di poche ore, avrebbe dovuto esaminare un edificio con la tipica pazienza di un ingegnere alla vigilia del pensionamento. Infine, accelerò il passo, ricadendo di nuovo, con il pensiero, nei poliedri molto complessi definiti, come è noto, dai dizionari tecnici.


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