POESIA E ALTRE FORME - Massimo Maggiore - POESIA E (O) FILOSOFIA?

 

Massimo Maggiore

Quest’anno, alla mia non più giovane età, ho deciso di iscrivermi a Filosofia. Sono di nuovo una matricola, il che quando mi ritrovo nelle aule universitarie con le altre matricole, mi provoca il disagio di non essere preso sul serio: loro, i ragazzi, sono lì, giustamente presissimi dalla lezione, prendono appunti o sottolineano il libro, fanno domande e trafelati tra di loro si danno dritte su come superare l’esame. Io sono lì, invisibile a loro, non prendo appunti, mi godo il momento. Studiare per il gusto di farlo, senza prospettive, se non coltivare la mente come hobby.

Questa mia rubrica si chiama “poesie e altre forme”, intese come altre forme “artistiche”. La Filosofia non è una forma artistica, ma il luogo del logos come strumento razionalità. Eppure un filo unisce poesia e filosofia. 

Se mi sono iscritto a Filosofia è anche a causa della mia passione per le domande (molto meno per le risposte). In fondo credo che anche cimentarmi con la poesia abbia a che fare con il domandare. La poesia è per me una forma eminentemente interrogativa, mai assertiva. Apre prospettive sulla lingua e sulla percezione del mondo, che tuttavia non si impongono, ma al massimo (av)vincono. La poesia che mi interessa non è quindi quasi mai quella eroica o politica, ma esistenziale e dubitativa. 

La filosofia, come dicevo, è razionalità. Ma analizzandone l'etimo, essa è solo un’aspirazione alla sapienza (filo-sofia) non alla sua realizzazione. La sapienza è infatti degli Dei, mentre gli esseri umani possono anelare alla sapienza, non a possederla. Non a caso il fulcro della speculazione filosofica (uno dei fulcri) sta in quell’iscrizione sul tempio di Apollo a Delfi γνῶθι σαυτόν, ovvero conosci te stesso. È l’esortazione alla ricerca della conoscenza, di sé in primis, che poi in Socrate diventa disciplina filosofica guidata dalla coscienza di non sapere. Il sapere è un orizzonte sempre per definizione irraggiungibile. Il sapere è nella sua ricerca, nelle domande e non nelle risposte. Il metodo socratico parte sempre dalla domanda “Cos’è?” e, mi verrebbe da dire, cosa altro è un testo poetico, se non la domanda “cos’è?” rivolta dal poeta all’oggetto del suo canto?

Di recente sono andato a un convegno sulla filosofa Maria Zambrano tenuto da Lorena Grigoletto, filosofa a sua volta. Maria Zambrano è stata tra i filosofi che più si sono concentrati sul rapporto tra filosofia e poesia. Il suo saggio dal medesimo titolo “Filosofia e Poesia” del 1939 è tra i suoi titoli più famosi, forse quello che l’ha resa celebre.

La bravissima Lorena Grigoletto ha studiato Zambrano e ne ha fatto oggetto della sua tesi di dottorato, poi pubblicata nel 2022 in un libro, di cui riporto di seguito la copertina. 





Alcuni stralci tratti da questo libro sono, a mio parere, illuminanti sul rapporto tra i due domini della filosofia e della poesia, che non sono a mio parere domini contesi, ma due forme o metodi di conoscenza (ovvero di ricerca della conoscenza). Li propongo di seguito:

«Zambrano individua nell’identificazione tra pensiero ed essere la hybris della filosofia; l’essere immobile, identico, eterno, non è che il sogno della Ragione. Al contrario, l’essere “si dice in molti modi” e precisamente perché coincide con la vita nella sua accezione più radicale, nel suo emergere e fluire, nel suo farsi e disfarsi, nascere e morire. Essere come viscere, tempo che palpita perché* è vita, “eternità della vita che si mostra nel suo primo apparire, come se essere e vita fossero congenitamente uniti. La vita è irriducibile al pensiero..»

Quest’ultimo riferimento, alla irriducibilità della vita al pensiero, è in sé una espressione poetica. Ci porta nel regno del non intellegibile, ossia di ciò che platonicamente non appartiene alla sfera del sovrasensibile, al regno delle idee, che possono essere apprese solo con l’intelletto. Qui si intravvede un primo potenziale confine tra poesia e filosofia, il margine valicato il quale l’una stinge nell’altra.

Ancora dal libro di Grigoletto, leggiamo passaggi mirabili sul metodo e sul linguaggio poetico e sulla sua funzione:

«…il linguaggio genuinamente poetico conduce a un tipo di conoscenza che “va haciéndose” attraverso l’atto di creazione stesso e mediante l’elaborazione del significante. La conoscenza poetica non si dà né prima né dopo il processo di creazione, bensì durante; emerge in quanto tale nello spazio di creazione stesso».

Parlando di un altro libro di Zambrano, Chiari del Bosco, Grigoletto ci porta per mano all’approdo della poesia come forma espressiva tutt’altro che assertiva, di cui scrivo all’inizio di questo mio pezzo. Grigoletto dice in proposito:

«…dire non significa esprimere, precisa Zambrano..; l’esprimere tende all’azione, all’esercizio e alla danza, mentre il dire si configura come aspirazione, cammino verso il logos o la parola, per questo non presuppone un qualcosa ma semplicemente un qualcuno che stia in ascolto…».

E su queste ultime parole tratte dal saggio di Grigoletto potrei anche fermarmi, perché dicono tutto del dire poetico e lo dicono in maniera mirabile, sulla scorta di un’elaborazione filosofica, quella di Zambrano, che sembra a volte atteggiarsi come filosofia del linguaggio o meglio dei linguaggi. 

La parola è un evento che secondo Zambrano, come riportata da Grigoletto «…nel suo darsi originario, precede ontologicamente il linguaggio, anzi ne è sprovvista, libera come è dalle circostanze e si dà nell’uomo come gesto vocale, poesia, o primordiale nominare gli dèi che lascia apparire il mondo, costitutivo e fondativo rapporto tra uomo e divino». 

La poiesis è quindi possibile «solo nello stato di passività del soggetto, ovvero quando l’intenzionalità è disattivata. Solo allora si hanno “parole non destinate […] al sacrificio della comunicazione, attraverso vuoti e soglie, frontiere e, parole senza il peso di comunicare o notificare alcunché. Parole di comunione”». 

L’ultima citazione è tratta direttamente da Zambrano, L’uomo e il divino, e se posso chiudere con una provocazione, spiegano benissimo perché la poesia sia o possa essere ostica: essa, per essere tale, deve porsi oltre “il sacrificio della comunicazione”, deve sfidare il vuoto, oltrepassare le soglie, sollecitando così la meraviglia di una “parola nuova”, non in quanto mai udita in sé, ma in quanto affrancata dal vincolo della funzione, fino a travalicare il significato ed essere ammirata come puro significante che ricrea poi il suo significato. 


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