FRAGMENTA - Deborah Prestileo - «Mio Cristo piange diamanti»: una lauda medievale del XXI secolo

 

a cura di Deborah Prestileo


Nel panorama musicale contemporaneo è raro imbattersi in un brano che dialoga apertamente con una tradizione letteraria tanto remota quanto viva: quella della lauda medievale e della mistica religiosa. Mio Cristo piange diamanti, uno dei pezzi più discussi di LUX, l’album di Rosalía del 2025, compie proprio questo gesto: affonda le radici in un immaginario spirituale antico e lo rielabora attraverso un’estetica contemporanea e una sensibilità pop. Non sorprende, dunque, che molti critici abbiano letto questa canzone come una lauda medievale del XXI secolo.

L’effetto nasce dalla struttura testuale e dall’immaginario evocato. L’intero brano è costruito attorno a una ripetizione anaforica che colpisce immediatamente: «Mio Cristo». È un possessivo forte, affettivo, quasi sponsale, che richiama da vicino il modo in cui Francesco e Chiara, i due santi di Assisi, si rivolgevano a Cristo: non come a un’entità distante, ma come a un Tu intimo, da custodire e amare. Nelle fonti francescane, ricorrono espressioni come «mio Signore», «mio dolce Cristo»: è una spiritualità, questa, che abbassa il divino, trasfigurandolo

nelle lacrime e nella carne. E non è un caso che Rosalía abbia dichiarato di essersi ispirata proprio alla figura di santa Chiara, tra le voci più liriche e affettive della mistica medievale.

L’esito è evidente nell’immagine chiave del testo:

Mio Cristo piange diamanti

ti porto sempre

Il Cristo di Rosalía non è quello dei dogmi: è incarnato, vulnerabile, portato addosso. Una figura che ricalca il Cristo povero e sofferente amatissimo dai francescani, ma che al tempo stesso si presta a una lettura aconfessionale. Difatti, sono molti i commentatori che hanno parlato di preghiera laica. Peraltro, il brano dialoga apertamente anche con la voce di Jacopone da Todi, il più corporeo e drammatico tra i poeti mistici italiani. Jacopone utilizza un volgare vibrante, concreto, talvolta feroce, per dare forma all’esperienza spirituale. Rosalía compie un’operazione analoga, intrecciando immagini cosmiche ed elementali

         Sei l’uragano più bello

fai tremare la terra

con una tenerezza quasi domestica

Quanti pugni ti hanno dato

che avrebbero dovuto essere abbracci?

Come nelle laudi della Passione, lo sguardo si posa sulle ferite, sulle ingiustizie, sulla fragilità dell’amato. Ma qui il Cristo è figura bifronte: rimanda al Cristo evangelico, ma anche all’amico, all’amante, al compagno ferito. È questo spazio ambiguo tra umano e divino a costituire il territorio privilegiato della poesia jacoponica. 

Ma l’influenza medievale non si ferma alle laudi. C’è un altro grande padre a cui il brano di Rosalía sembra fare eco: Dante. L’amato viene trasfigurato in fenomeno cosmico, con lo stesso processo con cui Dante trasfigura Beatrice da donna a stella, da presenza umana a logica celeste. Il cosmo diventa metafora dell’esperienza emotiva e spirituale.

Accanto a questa dimensione devozionale, il testo sviluppa anche un secondo asse cruciale: quello dell’imperfezione condivisa e dell’inconoscibilità dell’altro. Versi come

Mio astro imprudente preferito

quando piangi

raccogli le tue lacrime

e bagna la tua fronte

qualunque sia il crimine

presentano una figura che, pur mantenendo una statura cosmica (astro), è segnata dall’errore (imprudente) e dalla colpa (crimine). L’ossimoro è strutturale: ciò che orienta e illumina è anche ciò che si rompe. Dal punto di vista tecnico, Rosalía lavora su una frizione semantica tipica della lirica medievale, in cui il divino non coincide mai con la perfezione astratta, ma è attraversato dalla ferita. Il gesto di “raccogliere le lacrime” e “bagnare la fronte” richiama pratiche di unzione e di cura, svuotate però di ogni funzione rituale: non c’è assoluzione, solo prossimità.

Lo scarto decisivo avviene poco dopo:

La verità è che

entrambi abbiamo macchia

e nessuno dei due può sfuggire all’altro

Qui viene meno ogni asimmetria devozionale. La “macchia” non è più solo dell’altro, ma condivisa. L’enunciazione è secca, quasi dottrinale: una formulazione che riecheggia il linguaggio delle laudi penitenziali, ma senza la promessa di redenzione. Perché l’amore non salva, ma implica.

Il tema dell’opacità dell’altro emerge con forza nei versi finali:

C’è sempre qualcosa di te che ancora non so

come il lato nascosto della luna

una volta svelato so che non lo dimenticherò

La metafora lunare prosegue la cosmologia affettiva del brano e introduce una riflessione sul limite della conoscenza amorosa. Come in Dante, ciò che è celeste non è mai completamente visibile: la rivelazione non coincide con il possesso. Anche sul piano formale, il ritmo rallenta, la sintassi si distende, producendo una sospensione che rispecchia l’impossibilità di una comprensione totale.

Un ulteriore snodo fondamentale del testo è rappresentato dai versi:

Mio caro amico

l’amore che non si sceglie

e non si lascia cadere

mio caro amico

Qui il registro cambia nuovamente: dall’invocazione cristologica si passa a una formula di prossimità affettiva estrema. L’espressione «mio caro amico», ripetuta due volte, introduce un’allitterazione dolce e circolare (m–c–a), che abbassa ulteriormente la distanza tra sacro e profano. Cristo non è solo oggetto di devozione, ma presenza relazionale, interlocutore intimo.  Dal punto di vista retorico, la ripetizione funziona come un refrain orante, ma privo di solennità liturgica: la dimensione è confidenziale.

I versi «l’amore che non si sceglie / e non si lascia cadere» formulano una definizione dell’amore come necessità, quasi sul modello dell’Amor mi mosse dantesco: un amore che precede la volontà individuale. Tecnicamente, l’assenza di soggetto esplicito universalizza l’enunciato, trasformandolo in una sorta di assioma emotivo.

Il passaggio più denso, tuttavia, è quello conclusivo:

Con te la gravità è graziosa

e la grazia è grave

Qui Rosalía costruisce una figura retorica complessa, che combina allitterazione, antitesi, paronomasia e chiasmo semantico. Gravità e grazia si scambiano le qualità che normalmente le definiscono: ciò che pesa diventa leggero, ciò che è dono si fa carico. È un rovesciamento che richiama la retorica medievale del contrarium, usata per dire l’indicibile, e che trova precedenti tanto nella poesia mistica quanto nella teologia della croce. Dal punto di vista tecnico, la disposizione incrociata dei termini (gravità → graziosa / grazia → grave) produce un effetto di equilibrio instabile: nessuna delle due categorie prevale sull’altra. Spiritualmente ed emotivamente, questo significa che l’amore — umano o divino — non libera dal peso, ma lo rende abitabile. Ancora una volta, siamo lontani da ogni idea di redenzione consolatoria: la grazia non salva dalla gravità, semplicemente coesiste con essa.

In questo senso, Mio Cristo piange diamanti non utilizza il Medioevo come repertorio decorativo, ma ne riattiva il nucleo più profondo, dimostrando come la tradizione non sia un deposito di reliquie, ma un organismo vivo, capace di mutare forma senza perdere la propria sostanza. Rosalía, otto secoli dopo, continua quel canto: quando ripete «Mio Cristo», mostra che quel registro affettivo è ancora praticabile, che il bisogno di un Tu — umano o divino* — resta inscritto nel nostro codice genetico. Peraltro, il diamante nasce solo sotto pressione estrema e nel fuoco: è la materia più dura e resistente, e tuttavia la più trasparente, capace non soltanto di riflettere la luce, ma di scomporla e di moltiplicarla. È una pietra corruttibile e incorruttibile – come l’amore, se lo vedi: corruttibile nella sua esperienza, incorruttibile nella sua funzione.

* da leggersi anche come: umano e divino, umano è divino

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