CRONACHE A MANAGUA - Davide Toffoli su Silvia Rosa, L’ombra dell’infanzia, peQuod

 

Silvia Rosa, L’ombradell’infanzia, peQuod 2025



Con L’OMBRA DELL’INFANZIA Silvia Rosa ci regala una prova letteraria di assoluto livello, dedicandosi alla tematica scottante dell’abuso peggiore, quello consumato e subìto all’interno delle mura domestiche. Tenendo ben presente che l’Io-poetico trascende sempre l’Io-personale, la poetessa torinese sceglie di farsi voce collettiva e cerca di trasporre in versi e dialogare a distanza con lo splendido e premiatissimo “Triste tigre” della francese Neige Sinno, confezionando un libro corposo, composto da ben sette sezioni, che può essere definito un vero e proprio “saggio lirico”.

La dedica “Alle sopravvissute” è già un’apertura evidente a quel Noi che trova voce e corpo in queste pagine, introdotte da un testo che già non lascia scampo e che parla di “Un’ape allucinata che sbatte contro i vetri”, evoca “i mali / rappresi in segni violacei sul rosa / delle albe d’infanzia” o “lo strappo delle ali che buca la schiena”, e precipita infine in “una fossa di silenzio”.

Ed è proprio a questo silenzio, fatto di omertà e solitudine, che cerca di reagire questa coraggiosa testimonianza poetica, entrando nei diversi linguaggi comunicativi come la fiaba, la religione, la psicoanalisi, i mass media. La critica ha già focalizzato molti aspetti di questo libro: Franca Alaimo, autrice della Postfazione, ha sottolineato l’assenza colpevole di una controparte adulta degna di essere definita tale; Antonio Spagnuolo si è concentrato sulla posizione del maschio aggressore ipocrita e maligno; Anna Maria Curci ne ha evidenziato i colori, sognati e segnati, usati come chiaro strumento di resistenza; Isabella Bignozzi si è presa cura del legame col sacro, parlando di un poema della sopravvivenza che evolve in elegia corale, che piange l’assenza di Dio provocando una contraddizione teofanica, in cui il male cede all’evidenza della grandiosità del cuore umano come dimora di rinascita cristica, seppure involontaria. Noi cercheremo di seguirla, passo dopo passo.

Si parte dal C’ERA UNA VOLTA del titolo della prima sezione, che determina un suggestivo capovolgimento semantico di quella formula d’apertura che, nella fiaba, ha la funzione specifica di sospendere il tempo in un altrove lontano e indeterminato, mentre qua è un grido che ci ricorda che quel fatto si ripete anche oggi, in questo vivo presente. Il Mostro, l’Orco, si annida negli affetti più stretti, a violare l’esistenza proprio laddove, presumibilmente, dovrebbe stare più al sicuro. “Il padre tiene in braccio la bambina / in una foto anni Settanta” … “un padre che scompare / in un soffio”; un patrigno che si rivela un lupo nero. “L’orlo ruggente dei tuoi cinque anni benedetti / cinque ninnoli d’argento in una cattedrale d’abbandoni” e una sfilza inesorabile di domande: “Tu dov’eri / prima di perderti”, “tu dov’eri l’istante prima di contare / cinque primavere e poi risorgere Regina delle Nevi / dietro la ringhiera dei tuoi giorni?”. Ma chi è l’Orco, il Mostro? “Un padre / finto, posticcio, impostore, un fantoccio / dalla voce imponente, un niente che spegne / il tintinnio lieto degli anni verdissimi”. È così che anche il semplice crescere diventa “un gioco a morte”.

La seconda sezione è quella che fornisce il titolo all’intero libro, L’OMBRA DELL’INFANZIA, ed è una vera e propria discesa agli inferi; anche quando “A Natale i padri fioccano come regali inaspettati, / padri di cioccolata caduti nella cenere dei camini”; “padri che a ogni rinascita seminano / il destino di piccole morti, non ti portano doni, / solo l’ennesima desolata certezza che sfatto / il nodo di seta sarai scartata fino all’osso”. Un viaggio nella memoria di “lacrime acide corrosive”, tra timore, paura e angoscia dove la bambina “nella periferia dello sguardo / di Lui era solo qualcosa da sbucciare, neranerissima / bambina selvatica che non si lascia domare”. Un grumo di resistenza che rifiuta, riuscendo a dominarlo, anche l’istinto umanissimo di uccidere l’Orco, in quegli istanti in cui era possibile farlo. La voce interiore che ferma la bambina è un evidente esempio di speranza: “Non farlo. Cadrai giù / con lui, senza più riparo dal male”, le dice proprio mentre vorrebbe spingerlo nella scarpata; “Non farlo. Brucerai / anche tu nello sfrigolio lavico della colpa”, le sussurra mentre fantastica di gettargli nella vasca il phon acceso. La resistenza eroica di quel NO ripetuto ogni volta “alla domanda / sibilata nell’orecchio – ti piace?”. O di quelle risposte date a quel Ma perché non hai detto nulla, bambina?  Perché “Non avevo più lingua, la bocca / era un calco svuotato”; perché “le parole che tenevo in tasca non bastavano, / erano pezze sfilacciate da buttare”; perché “Sentivo una stretta all’altezza dello stomaco”; perché “Credevo / a quel che mi diceva l’Orco, che non mi avrebbero / creduta”; perché “Pensavo fosse colpa mia, che quel rituale / sconsacrato mi toccasse in sorte perché mio / padre vero m’aveva abbandonata”. A chiudere, l’immagine onirica e persistente di un uccellino smagrito, con le ali spezzate.

La terza sezione è TUTTA TENEBRE ed è segnata dall’ennesimo atto di sopravvivenza della bambina, “estranea al mondo” e priva di voce, “quintessenza della solitudine” che, quando si guarda allo specchio, vede “un simulacro calpestato, dominato da una / forza oscura che lo ha reso oggetto” e che le ha tolto “il diritto naturale a esistere se non / per farsi preda”. A quel punto la bambina decide di giocare con il peso, sceglie di “rendere il suo corpo il luogo / del dolore”, sporco e ripugnante, sospeso tra l’indifferenza di tutti. Anche se “Al cospetto delle loro ombre, / la bambina impugna la sua bici e pedala / lontano, precaria, verso un lembo di piazza / spopolata, asfalto di rifiuti, dopo il mercato / rionale”; mette in pausa le ore scardinate dell’abuso con “la tregua al sapore di Big Babol panna e / fragola che si mischia alla saliva amara”.

Segue IL DIO DEI BAMBINI ROTTI, quarta sezione aperta da “Occhi neri a precipizio”. Un dio “sordo / alle invocazioni”, “un dente che duole” da ignorare. Mentre “Le madri sono oggetti contundenti / la mano armata del dio”. Tra le immagini evocate, anche qui troviamo qua e là animaletti (pettirossi, libellule, coniglietti, lucertole), sempre in pericolo, ammalati o mozzati di qualcosa.

La sezione successiva è poi un piccolo capolavoro di potenza, un prezioso DECALOGO DI SOPRAVVIVENZA PER BAMBINE SOTTO SCACCO: “Impara a contare da zero all’infinito, e poi al rovescio / e in ordine sparso, aggrappati ai numeri come ancore / nel mare di melma in cui sguazzi, conta con attenzione, / anzi con dedizione, nessun supplizio pare sia eterno”; “Cercati un amico che sia irrimediabilmente muto: / un pino sradicato dal suo bosco e messo in castigo / nel giardinetto condominiale, oppure un sasso lucido”; “Menti sempre…”; “Trovati uno spazio irraggiungibile, un lembo di mente, / un anfratto segretissimo”; “Costruisci mattoncino dopo mattoncino la tua corazza / di salvezza”; “Tieni un diario segreto, di quelli col lucchetto”; “Se ti chiedono di disegnare la tua famiglia, / per non sbagliare disegna quella che vorresti, non quella reale”; “Moltiplicati, diventa una serie completa di figurine / della tua eroina preferita, da mettere in scena all’occorrenza”; “Quando sei al cospetto dell’Orco non ti ribellare, / è inutile, dilaterai il tempo dei suoi giochi fino / al tuo vomito”; “Coltiva la tua verità, mettila in un vasetto al sole, / annaffiala con costanza, non lasciarti distrarre da chi vorrebbe calpestarla, mantienila nascosta / e viva e vitale e non pensare mai che valga meno / solo perché non hai parole esatte per pronunciarla”. 

È un decalogo di laica sacralità che indica la strada a quella “sorellanza” che sarà protagonista assoluta della seguente sezione, CIÒ CHE HANNO FATTO DI NOI, che prova ancora a rispondere alla delicata domanda: “Dove vanno le bambine fatte a brani / - le sopravvissute –”? Il Noi diventa una coscienza collettiva e l’urgenza di una concreta testimonianza, dopo aver assaporato l’abisso, perché “ciò che hanno / fatto di noi è il residuo di una guerra / da cui non sono usciti illesi, tranne noi”. L’agognato lieto fine è rappresentato già dal fatto di essere sopravvissute al lupo, al drago, alla tigre, e il passo successivo è trovare le parole, mentre “camminano cantando segreti all’orecchio”, non potendo fidarsi di nessuno e “circondate dagli abissi” e ricordando a ogni fioritura, certo, quel che è perso, ma anche quel che sono diventate. La loro voce è più di una semplice speranza; è una vera e concreta rivoluzione non violenta: “non scordiamo il verbo della resistenza, / coniugato nel presente, né il contrarsi / dello sguardo attento a non cadere, / a non passare il segno, sappiamo il male / che non si esaurisce al fondo della fiaba, / e per questo, deposto il vessillo delle vittime, / abbiamo scelto di non essere carnefici”.

L’ultima sezione, IL GIOCO DELLE NUVOLE, incarna l’esempio tangibile della moltiplicazione del punto di vista come strumento privilegiato per raccontare il luogo oscuro della ferita e per non rimanere soli di fronte alla catastrofe, pur in un continuo divenire. Ecco il senso di quello sguardo a “quel cielo ricamato, una placenta / in cui crescevano elefanti, fragole, / gelati, cavalieri che si trasformavano / in fretta portati via dal vento”. L’abisso, ormai, assume la forma di una piccola tartaruga, di un “Vecchio prete di periferia, grasso omuncolo” insensibile e incapace di conforto, di una Madonnina “cieca sorda e muta”, di un bambino “conosciuto una domenica su un pianoro” col quale ci si è promessi memoria, di “un dio che bussa insistente” alla porta, di un bimbo occhialuto dal sapore di borotalco, del gattino Felix e di tutti gli amati “animali dal mantello nero”, come la “bambina oscura, con un perenne broncio”, enigmatica eroina che guerreggia “con un’arma d’inchiostro contro / i mostri fulvi e cinerei che spiccano / tra gli anfratti del giorno”.

Perché in questo libro, dalla metafisica costruita ad arte in una splendida narrazione in continuo divenire, ora in terza persona, ora in prima, ora da bambina selvatica e ribelle, ora da adulta che abbraccia tutte le sue sorelle di sventura, la testimonianza collettiva si apre a una densità visionaria e a una poesia che si fa voce di resistenza e di speranza. E in questa trasformazione quasi alchemica dell’Io, per sopravvivere, dapprima si conta, ma alla fine, da sopravvissute, si canta.   







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