CARO BABBO NATALE... - Stefania Giammillaro

 


Caro Babbo Natale,

eccomi qui anche quest’anno, in prossimità della tua festa a pensare cosa scriverti, a trovare parole giuste per esprimere desideri lasciati forse per troppo tempo a macinare sul fondo,  per intercettare, qualora ci fosse, un’escatologia dei bilanci, che riserviamo solitamente alla fine di qualcosa, una volta conclusa qualcosa e in procinto di iniziare un ignoto-altro. Bilanci che, non a caso, slittiamo a settembre o a dicembre, quando tramonta l’estate o spira il tempo di un altro anno di vita e ci si trova sulla soglia del vuoto.

“Bilancio” deriva dal latino tardo bilanciare, che a sua volta viene da bilancia, composto da bi- ("due") e lanx (piatto della bilancia), indicando l'azione di pesare o mettere in equilibrio due piatti. Ebbene, cosa ha “pesato” o “ci” ha pesato quest’anno? Cosa abbiamo aggiunto o rimosso per trovare la quadra, l’equilibrio?

Personalmente potrei dire che quest’anno è stato l’anno che probabilmente più di tutti gli altri ha racchiuso tanti anni in sé, tante vite in sé percorse lungo la colonnina di mercurio del termometro più terribile e magnanimo insieme: il tempo.

E lungo questo cammino ho preso le misure per navigare il mondo, attraversarlo con il peso dell’esistenza. Ecco, l’esistenza ha pesato tanto, o, meglio, si è impegnata a far percepire il suo peso, la sua consistenza, determinando l’interrogativo: quanto conta vivere sopravvivendo a se stessi?

Nel rispondere, ho conosciuto la dinamica del dolore. Il dolore è un eccellente maestro, ma occorre filtrare i  suoi dettami, prendere appunti da elaborare con le proprie parole, che se si segue pedissequamente il rischio è di farsi completamente assorbire, affogare, non da ultimo, morire.

Sì, si può morire di dolore, come si può morire di silenzio. I due, d’altronde, camminano di pari passo, l’uno di fianco all’altro, l’uno a prestare il fianco all’altro.

Eppure, tra le lezioni di dinamica del dolore, quella che in assoluto mi ha catturata è stata senz’altro quella sulla differenza tra “lo stare in silenzio” ed “ascoltare il silenzio”.

Se ci si pensa si impazzisce. Infatti occorre direttamente eseguire, spegnere, “spegnersi” nei turbinii, negli arrovellamenti, nelle auto-distruzioni, spegnersi per tendere l’orecchio al vuoto, al buio e conoscere il vuoto e il buio, scoprirli, amarli, reinventarli ed ingoiarli come parte di sé.

Beh, sì, siamo anche fatti di buio e di vuoto, siamo belli e anche brutti, eccellenti e miserabili al contempo. La difficoltà maggiore risiede proprio nel raccordo tra la nostra più intima “tesi” e la sua feroce “antitesi” che Hegel ravvisava nella “sintesi”, paragonata al terzo step del sillogismo aristotelico, e che in questa sede potremmo, invece, provare a costruire come linguaggio della compassione: la tua sottrazione la comprendo perché è vicina alla mia sottrazione. Attenzione. Non si comprendono perché sono “uguali”, ma perché sono “vicine”.

Siamo abituati o educati a difenderci (a doverci difendere) immediatamente dalle accuse (o percepite tali) come reazione automatica, istinto animale che permette di aggrapparci sul ciglio della montagna per non precipitare senza renderci conto che siamo scivolati da soli su quel burrone, per non esserci fermati l’attimo prima ad ascoltare il silenzio ed individuare, non già le risposte esatte, ma le domande giuste da porre e da porci.

Così la compassione diventa partecipare-con, senza immedesimazione, rispettando le personalità di ciascuno, le peculiarità di ciascuno. La compassione si trasforma nel ponte che consente di legare distanze mantenendo le rispettive identità.

Hobbes parlava delle passioni come Idola da cui l’uomo era chiamato a sbarazzarsi per raggiungere l’atarassia e, quindi, liberarsi dal caos interiore assimilato alla guerra. Ebbene, la meccanica della strenua difesa potrebbe annoverarsi tra gli Idola di hobbesiana memoria.

Altro enigma rivolto dalla Sfinge - esistenza si è concentrato sulla sfera del “sapere” solleticando il noto binomio tra sein und sollen ( essere e dover essere) che Kant ascriveva alla morale: "Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me", concludendo così la sua Critica della ragion pratica.

Vi racconto, insomma, dello iato tra il “non saper fare” ed “il non aver mai fatto” qualcosa, spesso pari-ordinati, spesso associati, eguagliati, pur appartenendo rispettivamente ad un “dopo” ed un “prima”.

Non puoi dire di non saper fare qualcosa se non l’hai mai fatta, se non ci hai mai provato, puoi se mai dirlo “dopo” aver tentato, così come non puoi dire che qualcosa non ti piace se prima non l’hai assaggiata.

Ma vi è di più: i gusti cambiano come cambia la capacità di riuscire in un qualcosa prima irrisolto.

Sono stati più o meno questi gli appunti presi dal maestro Dolore, accompagnato dal fidato assistente Silenzio durante questo anno scolastico che, come detto, ha racchiuso e rappresentato almeno cinque anni di liceo per giungere ad una nuova maturità.

Ho vissuto il tempo del futuro breve e del passato intenso.

Ho vissuto il tempo del cambiamento nella sua Verticalità.

Gli anni delle superiori sono quelli dei più incisivi cambiamenti per lo sviluppo fisico-emotivo-psicologico di un soggetto, il punto è che non finiscono compiuti 18 anni, ma possono ripetersi successivamente, riproporsi in veste diversa, possono addirittura iniziare successivamente.

Sono anni verticali che conducono ad un risultato che non è un traguardo, ma un punto di partenza.

E la vita è una serie continua di punti partenza. Ho saggiato la verticalità in tutta la sua amarezza, nelle sue contraddizioni, malumori, dissapori. Non è stato facile essere pronti alla verticalità.

Essere pronti alla Verticalità significa tante cose: significa spogliarsi, denudarsi dal profondo fino a rimuovere la pelle stessa, senza snaturarsi, per lasciare andare le scorie del passato.

Non puoi pensare di progredire se resti fermo, se resti ancorato alla catena del passato. Anche se quella catena la conosci già, sai già quanto fa male quando stringe la gola, quando ti soffoca. Quindi diventa un male amico perché ne hai saggiato le conseguenze e lo preferisci perché sai già cosa ti aspetta anche se non cambia: sempre male è.

La Verticalità implica la scelta di gettare via il resto per non gettare via te stesso. Te lo impone: se non ti sganci non avanzi, non cresci, non consegui la maturità.

Si sente il peso della Verticalità perché, è vero che devi distaccarti per procedere, errare nella duplice sublime accezione di “sbagliare” e “camminare”, ma a volte capita, come in una sorta di compromesso, che la catena ti resti attaccata alla caviglia e ti tiri indietro.

Resti crisalide, da bruco, in quel limbo che inspessisce il bozzolo.

Ecco, forse ho trovato il mio desiderio da esprimere caro Babbo Natale. Forse, ho trovato le parole giuste tra quelle imparate quest’anno: Dolore, Silenzio, Compassione, Distacco, Verticalità, per sapere cosa chiederti.

Perché se sai cosa chiedere, sai cosa vuoi, no?

Allora, per questo Natale ti chiedo di farmi conoscere la strada del coraggio che serve a spezzare ogni catena, al fine di rendermi cuscino, rifugio, casa dove accogliere la madre che da piccola avrei voluto essere per mia madre.


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