CONTRIBUTI ESTERNI - Giovanna Albi - Novembre è il mese freddo dei morti, anche di Dostoevskij

Casa di Dostoevskij a Firenze, Piazza Pitti
(ph. da Italia.It)

 

Novembre è il mese freddo dei morti, anche di Dostoevskij.

L’estate di San Martino sta dietro di noi, il gemmea l’aria di Pascoli ha lasciato il passo a questo freddo umido che penetra nelle mie ossa, viandante indomita e sognatrice a metà.

Mi sto guadagnando sul campo martoriato di croci la fama di visionaria. Benché tutto mi si squaderni chiaro in mente, il mio creare non ex nihilo, ma ex rebus qualche mia paginetta di varia letteratura e umanità, pare stia interessando qualche alto critico per la coerenza di pensiero e i voluti e cercati voli.

Credo che pochi sappiano come sia inappropriata l’attribuzione di voli pindarici al re della lirica corale greca.

La coesione e l'intima connessione delle tre parti in cui si struttura ogni suo epinicio, con la gnome a chiusa, lo sfolgorio dell’Olimpo in terra, le gesta eroiche del campione, la verticalità del Tempo cui ci eleva il Poeta, e la ridiscesa nel fango da cui è nato l’Uomo, rivelano un percorso di pensiero di inusitata Bellezza e di rigore logico. Il sogno è contenuto da una struttura coerente che ne fa non un poeta, ma Il Poeta.

Dei vostri idoli, Sinner e affini, rimarrà qualche video o stralci di giornali, ma degli olimpici di Tebe c’è il canto del Poeta.

Nel mio ricordo mai dismesso, la voce stentorea di uno dei massimi filologi ancora viventi, il prof. Aurelio Privitera, siciliano, che mi diceva: - Lei non racconta i testi, li canta! -  Sì, mi sto spostando sempre più verso l’Antico, pur imperfetto, lì dove è nata la misoginia turpe, la donna come malanno, il catalogo delle donne di Simonide, il vaso di Pandora, Elena cagna, causa della guerra di Troia, ma anche le donne guardiane della Repubblica di Platone. Mi sento un ambiguo malanno, né ricca né povera, madre imperfetta e sempre figlia, il mese di Novembre è quello di mia Madre, del mio pericolare verso la morte esattamente cinque anni fa, della mia liberazione dal ruolo di docente, ma soprattutto è il mese di Dostoevskij.

Lui non ha certo la coerenza interna di Pindaro né l’ordine maniacale di Manzoni. Lui è terra di confine, tra la vita e la morte, lui non affacciato sull’abisso umano, ma in questo sprofondato. Per me da sempre un Mistero eleusino, un silenzio tormentoso e responsabilizzante del Cristo nella leggenda del Grande Inquisitore, a cui fa da contrappunto Il discorso della Montagna di Tolstoj. I due giganti si scontrano per tutta la vita, si leggono reciprocamente, si stimano ma non si amano. Si interrogano sul Cristo. Pare si siano incontrati una sola volta di persona: Tolstoj gli rimprovera l’eccesso di profondità, il rimescolare nel torbido, l’altro la semplificazione di una fede pietosa e compassionevole e lo stile come quello di un dissodatore di campi.

Alla semplicità evangelica dei personaggi di Tolstoj dopo la conversione e la posizione eretica, preferisco il tormento di Anna Karenina, il suicidio per il disprezzo che le cadde addosso, il rischio di una passione vissuta con lo struggimento di Aiace o di Achille. Di Elena, di lei cagna causa della guerra, lei travolta da Eros, nolente. Se amore è pazzia, ben venga! Lo preferisco al conforto di un amore tiepido, seppur conservativo.

Alla spiritualità evangelica e anarchica di Tolstoj, alla sua grande utopia socialista del ritorno alla semplicità rurale di una Russia colta nella decadenza zarista, a lui che crede nelle Tavole della Legge sul monte Sinai, oppongo il silenzio del Cristo di Dostoevskij, non Salvatore, ma Uomo compassionevole abbandonato dal Padre, uomo rivoluzionario sotto l’Inquisizione del Seicento. Dostoevskij condanna la Chiesa ortodossa restandoci dentro, opera nella Storia corrosa e corrosiva, ma rinvia al soggetto la responsabilità della scelta. Nel fondo della depravazione dei Fratelli Karamazov lavora la redenzione operosa di qualcuno, contro il nichilismo che sarà di Nietzsche, lodatore di Dostoevskij. Quattro fratelli, dal santo all’infame, tutti coinvolti in una stirpe dannata dalla colpa del padre. Tutti Labdacidi, discendenti della zoppia di Labdaco, come Fedor con quel disastro di padre. Ammiro di Tolstoj l’ultima scelta, che lo spinse lontano dalla casa travagliata ma calda, verso la stazione di Astapovo, dove si spense cercando il Cristo Salvatore e pietoso.

Ma vuoi mettere il coraggio di chi resta a ballare sotto la pioggia, a combattere qui tra Bene e Male, nell’eterno dilemma tragico che fu di Sofocle? Chi è l’Uomo? E Dio?

La dissoluzione e l’ascesa di Fedor, il silenzio del suo Cristo, la speranza nel cambiamento è azione dentro la Storia, non illusione leopardiana. Un reazionario che rinnova il pensiero nella crisi del XIX secolo sospeso tra dogma e nichilismo.

Il giorno della sua nascita, 11 novembre, è quello in cui sono stata come lui vicino al morire.

Da lì la rivoluzione del suo stile, Le memorie del sottosuolo, le impennate volute, i silenzi abissali, la trivella del pensiero. In tutti i fratelli Karamazov c’è lui con i suoi dubbi. Unica risposta: restare con il sì alla vita. Visionario come il sì di Nietzsche. Io, sogno a metà tra una foglia che cade e lo strappo della foto.

Commenti

Post più popolari