ALLONTANARSI DALLA LINEA GIALLA - Stefania Giammillaro - Lo sguardo innamorato sull'uomo
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| Allontanarsi dalla linea gialla - Stefania Giammillaro |
Dopo Poesia all’Opera e Muddichi, eccomi giunta alla terza
rubrica perché non c’è due senza tre e poi…poi perché mi piaceva l’idea di dare
pregnanza letteraria ad un nuovo capitolo della mia vita che mi vede in veste
di pendolare, quasi a voler corroborare l’assioma che la poesia permea il
quotidiano più di quanto si possa immaginare.
Così Allontanarsi dalla linea
gialla, dapprima pensata come progetto per una silloge, approda sul
Lit-blog “Finestre”, allorché è diventato compagno di viaggio quell’avvertimento
costante: “Attenzione, allontanarsi dalla
linea gialla”, atteggiandosi qui a cronistoria semi poetica - semi diaristica
e semi seria di quello che è il possibile sguardo sull’uomo di cui si nutre,
peraltro, il fascino che in me sortisce la poesia. Non tanto (o non ancora la
natura), non tanto (o non ancora il paesaggio urbano) o la dimensione
spirituale, quanto “l’uomo” in tutta la sua variopinta essenza polisemica, polivalente,
astratta, concreta: l’idillio ogni volta che in me innesca il percepire accanto
uno scrigno di un tutto caleidoscopico di umori, sentimenti, pensieri, malanni,
afflati, gioie rispetto al quale ciò che vedo è solo la copertina, una carta
regalo, la custodia, il soprabito, la maschera che cela quello pneuma filtrato dagli occhi e che
conferma “sei in vita”.
Come se ognuno di noi fosse un pasticcino o cioccolatino in esposizione sulla
vetrina di un negozio, che finché non lo assaggi – e quindi non lo conosci -
non sai cosa contiene. D’altronde lo stesso Forrest Gump dice che: “La vita è come una scatola di cioccolatini.
Non sai mai quello che ti capita”. E
ogni essere umano è un cioccolatino che ne fa parte.
Allora osservo o forse viviseziono e, molto probabilmente, non attiro
molte simpatie, anche se sono abbastanza sicura che nessuno si accorge di
quella presenza serpentina che circumnaviga volti, espressioni, gesti e registra
parole, entusiasmi e turbamenti.
Siamo spesso automi in movimento grazie ad una forza centrifuga che ci
spinge in avanti. L’ultima volta di ritorno da lavoro, vicino alla giostra che
domina Piazza della Repubblica a Pisa, ho incrociato un bambino che giocava con
un burattino di legno raffigurante un Pinocchio dipinto a mano. Il burattino
era bellissimo, di pregiato artigianato toscano, eppure quei fili su cui era
appeso sembrava mi soffocassero, anche se erano proprio quelli che
permettevano al bimbo di far disegnare a Pinocchio ellittiche giravolte a
tagliare aria e cielo.
Oppure quell’uomo dagli occhi vitrei, quasi trasparenti, che spippolava
un Motorola di vecchia generazione, di quelli che si aprivano a portafoglio e,
pensate, servivano solo per l’unica funzione per cui il telefono è stato
ideato: telefonare.
Era elegantissimo, dai modi altrettanto raffinati, la sua voce era pastosa
e delicata ad un tempo e quando ha riattaccato, ho subito notato le sue grandi
orecchie. Anche mio nonno Vittorio aveva le orecchie grandi – ho pensato – che quasi
sembrava poggiasse su quelle più che sulla sua testa, la coppola che indossava
ogni giorno per andare a mare e che da piccola mi divertivo a strappargli via, posizionata
alle sue spalle con la complicità di mia madre che mi teneva in braccio.
Poi lessi un articolo che diceva proprio che con l’età le orecchie si
ingrandiscono, e credo anche le mani, invece le labbra si ritirano e la vista
si appanna. In un certo senso è come se la saggezza che suggerisce di ascoltare
di più e parlare meno, derivi proprio dall’evoluzione del nostro corpo che
dovremmo forse più assecondare che contrastare o, addirittura, demonizzare.
Venerdì sera, invece, sul tram ho incrociato un ragazzo che
somigliava tanto alla mia prima cotta da preadolescente. Avevo io 11 lui 13
anni, io ero appena uscita dall’età bambina, lui si affacciava alla vera
adolescenza. Ancora ricordo che il primo anno di scuola media, avessimo tutti
difficoltà a dare del lei alle
insegnanti e la prof. di educazione fisica una volta ci ammonì con un simpatico
ricatto: “se voi continuate a darmi del tu
io vi chiamo bimbi belli” e da lì nessuno si azzardò più a sbagliare (ne andava
della nostra reputazione d’altronde). Si chiamava Alessandro ed era il
prototipo siciliano di discendenza normanna: alto, castano chiaro e occhi
azzurri. Credo di averci scambiato si e no un saluto una volta ad un compleanno
di un'amichetta in comune. L’emozione fu così forte che posso sentire ancora la
sensazione di bruciore sul petto, troppo giovane per addebitarla ad una
gastrite da stress.
Fu senz'altro la prima
esperienza in cui il sentimento amoroso era vissuto tra me e me in modo platonicamente
avulso dalla realtà, e non volevo assolutamente che lui lo sapesse, non tanto
per vergogna quanto - attenzione arriva il paradosso - per il desiderio di non
far sfumare tutta quella idealizzazione sognante e sospirata che quasi
gelosamente custodivo per me.
Pensate, mentre fiorivano in
me le prime gote arrossate, i trasalimenti, mani sudate, balbuzie da training autogeno e occhi che
fantasticavano persi nei meandri dei pensieri di una ragazzina; lui continuava
la sua vita completamente ignaro di tutto.
Pensate a tutte quelle volte
in cui senza che noi ce ne accorgiamo, si innesca nell’altro quel seme che fa
crescere pian piano la piantina dell’attrazione, della quale non abbiamo
contezza fino a quando non ce la mostra e decidiamo di volerla o meno coltivare
insieme. Vi rendete conto di quale fascino magnetico produce ciascuno di noi? Potremmo
essere teche di cristallo che custodiscono la rosa de “La Bella e La Bestia” o intere serre dove curare piantagioni
infinite e tagliarne i rami secchi, potare, travasare, e di nuovo innaffiare e
aver cura della luce che genera vita senza bruciare.
Se solo potessimo preservare
questa cura, questo sguardo sull’uomo e registrare il sapore che si crea come
un etto di prosciutto cotto appena tagliato ed adagiato dentro una rosetta sfornata
da poco. Che fragranza! Già ne sento le varianti di gusto. Vi vorrei condurre
in questo viaggio cari e care perché forse insieme possiamo giungere a quella
fiducia che scarseggia, a quel gancio che spesso manca per distoglierci dalla
solitudine che impera e sovrasta e che ci rende isole in moltitudine quando
vorrei che tornassimo un’umanità di moltitudini con le nostre peculiari
contraddizioni. Non a caso Walt Whitman
al riguardo sentenziava: “Mi contraddico?/Benissimo, mi contraddico./(Sono
largo, contengo moltitudini.)” – da Canto
di me stesso, 51 (versione
del 1892), in Foglie d’erba, vv. 1043-1148.
Allora, per chi volesse
intraprendere questo viaggio, raccomando di munirsi di biglietto e di
obliterarlo prima di salire a bordo a meno che non siate dotati di abbonamento
che dura di più, ma è per ognuno diverso perché “nominativo”.
Un
biglietto prego
per
un dove senza nome
il
quando è nascosto
dietro
un giorno come un altro
ad
un orario preciso, però
che
poi lo perdi...
lo
smarrimento, intendo
quello
appena sopra
un'altalena
troppo alta
per
sondare il ritorno
coi
piedini a penzoloni
Un
biglietto per favore
e
il cellulare sottovoce
l'email
scandita
dalle
sue complicazioni
il
cognome poi,
ripetuto
per non sbagliare
l'associazione
al tuo valore.
Il
posto non l'ho scelto
capiterà
a salve
il
guaio di un incontro
senza
errore


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