FRAGMENTA - Deborah Prestileo - Lettere da Sant’Anna. L’epopea di un’inquietudine

 

Deborah Prestileo

Ci sono autori che diventano il simbolo della loro epoca e altri che ne svelano ogni fessura e ogni crepa, con la perizia di chi cerca qualcosa senza mai trovarla. E Torquato Tasso appartiene a questi, ai secondi. È l’uomo che ha vissuto dall’interno il tramonto del Rinascimento, che ha sentito rompersi l’equilibrio tra fede e ragione – su cui per un secolo si era fondata la fiducia del cristianissimo Occidente. Perché se Ariosto cantava la leggerezza del sogno e l’armonia del mondo, Tasso non può farlo più: assiste al mutamento di un mondo in cui la parola non è più lo spazio della libertà, ma il luogo del controllo. In questo clima, la sua sensibilità esasperata e inquieta trova sempre meno spazio. E così la poesia diventa un campo di battaglia: la Gerusalemme Liberata ne è il frutto più alto e tormentato. La poesia cinquecentesca non può più credere ingenuamente alla propria grandezza e quando la tensione tra queste forze si fa insostenibile, Tasso implode: nel 1575, comincia a sospettare di essere spiato, denunciato all’Inquisizione, perseguitato; confessa colpe che non ha, chiede perdono per peccati che non esistono. Nel 1579, viene spedito nell’Ospedale di Sant’Anna, a Ferrara, e vi resta per sette anni.

Proprio lì, dove tutto sembra negato, Tasso trasforma il delirio in forma. Sì, perché l’epistolario di Sant’Anna non è solo la testimonianza di un delirio, che pure è lucidissimo, ma è anche un atto di scrittura assoluto. Nelle lettere che Tasso scrive e invia dal manicomio, l’autore non ha più la libertà, non ha più la corte che lo ascolta, non ha più la speranza del riscatto: ha solo la lingua. E in quella lingua concentra tutto ciò che gli rimane:

Lettera al medico Girolamo Mercuriale, 28 giugno 1583

«Qualunque sia la cagione del mio male, gli eletti sono questi: [...] tintinnii negli orecchi e ne la testa, alcuna volta sì forti che mi pare di averci un di questi orioli da corda: imaginazione continua di varie cose, e tutte spiacevoli; la qual mi perturba in modo che, ch’io non posso applicar la mente a gli studi per un sestodecimo d’ora; [...] sono distratto da varie imaginazioni, e qualche volta da sdegni grandissimi, i quali si muovono in me secondo le varie fantasie che mi nascono.

C’è un rigore quasi ascetico nel modo in cui descrive le dinamiche della propria mente: questa è la confessione di un uomo che sente franare l’ordine interiore, ma che continua a ordinarlo sulla pagina attraverso la misura e la lucidità della sintassi. La prosa diventa per lui una forma di equilibrio, una preghiera laica scritta per restare in un mondo che non sente più suo, ma verso cui prova ancora uno slancio vitale.

Tasso non è mai semplice cronista di sé: quando scrive del “folletto” che gli ruba i denari, che apre le casse e gli mette i libri sottosopra, o del “ladroncello” che lo perseguita, non registra soltanto un’allucinazione ma inventa un linguaggio che dà forma all’ossessione, che traduce la follia in immagine. È la prosa che salva l’esperienza, che la trasforma in racconto. Il tono è insieme domestico e tragico, ironico e disperato, come in certi momenti del teatro shakespeariano. Ogni periodo è cesellato come un verso e questo trasforma la prosa in materia viva, vibrante, capace di tenere insieme analisi ed emozione, precisione e abbandono, controllo e deriva. È un Tasso diverso da quello epico: meno eroico, più umano; meno solenne, più necessario. C’è una ragione che mi commuove, ogni volta che leggo queste lettere: non c’è nessuna spontaneità al dolore raccontato, come se la mente si disgregasse e la parola ricomponesse. Questo è “sacro”.

Eppure, quando Tasso lascia Sant’Anna, non è più lo stesso uomo che vi era entrato. Dopo la reclusione, vaga di corte in corte e non trova pace né protezione stabile, ma continua a scrivere. La Gerusalemme Conquistata, che pure molti giudicarono inferiore alla Liberata, è molto di più del rifacimento “ortodosso” del poema precedente: se nella Liberata prevaleva ancora il conflitto, nella Conquistata domina la stanchezza. La poesia si piega sotto il peso della colpa e l’epica diventa una forma di penitenza, come se Tasso scrivesse per espiarsi. Tuttavia, anche qui si avverte la stessa tensione verso l’assoluto che anima le lettere di Sant’Anna: la ricerca di una forma che possa redimere dal disordine. Di una forma che non sia guscio, ma gesto d’amore: dare alla confusione una casa, al delirio una sintassi. Nel ronzio dell’“oriolo” dentro la testa, il tempo martella, eppure solo il tempo offerto alla pagina si salva dall’evanescenza, perché trattiene la materia viva.
Dare forma, allora – a un secolo che si incrina, a una mente che deraglia, a una frase che trema ma sta in piedi – è amare. Riconoscere nell’altro – lettore, giudice, nemico – la possibilità di un interlocutore è amare. Non sottrarsi e accettare la pagina che chiede la resa è amare.  Scrivere come se la salvezza dipendesse da una sillaba in più o in meno è amare.

(perduto è tutto il tempo che in amar non si spende)


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