FLUSSI E VISIONI - Zeudi Zacconi - "Un apparir della voce"

 

Zeudi Zacconi

Poesia è la voce, il testo è la sua eco.



C’è sempre una voce / che parla che resta / che dice non dice / il nulla che siamo nel nulla  che esiste / si insinua e attecchisce / in un teatro di farse / dove ogni parola significa tutto / non significa niente.


*** 


Ogni parola scritta ha attraversato il corpo. E ogni singola parola che s’aggrappa alla gola è stata prima inghiottita, e a forza. La risalita è sublimazione e canto. È capolavoro e scomparsa. È dettato di inizio e sigillo di fine, è verso che si compone nelle corde vocali e le brucia. Non rinunciare all’incendio, non rinunciare.

E così esiste una dimensione intrinseca e antecedente al corpo testuale: il corpo vocale. E così la voce precede il testo. E così la poesia è prima di tutto esperienza sonora. 

La voce insorge – dal limite della norma che restringe il potenziale creativo del corpo – e diventa suono, vibrazione, ritmo. Battito e respiro. E diventa necessità, diventa urgenza di pronunciarsi prima di precipitare. Urgenza di darsi forma nel vuoto. Di dare forma al vuoto. Ma per un istante, l’istante in cui la parola viene pronunciata. Poi per sempre l’oblio.

La forma è la voce che siamo, prima di disperderci. Prima di essere abbandono. 

E allora poesia è sparizione. Il nulla che si dice e che solo si può dire. La disappartenenza, quando crediamo di essere noi a dire invece siamo detti. Invece siamo posseduti dal linguaggio. Parola evanescenza. Come vortice insensato contro il tutto disciplinare che ci indisciplina e ci rende fuori-tema, ci rende estraneazione: è così che l’essere è il nulla

Un’estinzione necessaria – l’Io che dice se stesso – una forma sospesa dove il senso è in quel lampo di luce destinato a morire. In quel giorno che, come direbbe Beckett, “splende un istante, poi è di nuovo la notte.” 

Una dimensione poetica altra, quella esplorata da Carmelo Bene, che mostra come l’immateriale diventa corpo e il corpo diventa un “fatto sonoro”. In cui la voce è divenire, e slacciata dal bisogno di comunicare e significare. Un orizzonte di senso completamente ribaltato rispetto al concetto comune di poesia, dove si conduce una ricerca sulle possibilità vocali che spingono oltre i limiti del possibile. E dunque – non più corpo, non più voce – ma il corpo stesso della voce, in cui il suono diventa l’unico protagonista, al culmine di quel depensamento che solo lascia spazio allo smarrimento estatico, alla perdita di qualsiasi identità.  


A parlare è soltanto la voce inumana, la voce di dentro.


La poesia esiste solo quando diventa suono.


***


[…] Poesia è distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, delirio, suono, urgenza, vita, sofferenza. È flusso dell’insofferenza dell’esserci. È scontento anche nei casi più felici. È risuonar del dire oltre il concetto. È musicale d’altezza, lirico, in che si dice detta la delusione di quell’altro intervallo tra il pensato e il suo riporto sulla pagina. È l’abisso che scinde orale e scritto. 

Consistere nella mancanza, eccedere nell’essere senza fondamento, in quel “teatro conflittuale dell’Io e delle sue rappresaglie”, in quel “Sahara della memoria” – la voce è filo conduttore del non-esserci – del disapparire. Parola visita e possesso. Parola equivoco e scomparsa. 

Siamo, quel che ci manca, da per sempre. Lo so, mi sa, che il nostro delirare in voce è un differire la morte, che noi si muore appena abbiamo smesso di parlare, appena abbiamo smesso l’illusione d’essere nel discorso.


Ma la vita che conta non è appunto proprio quanto ci manca? La voce è voce dell’assenza.


***


[…] ‹‹ Non è che si possa scrivere quel che ho sentito. Né cosa, precisamente, lui faccia con la sua voce e quelle parole non sue. Dire che legge è ridicolo. Lui diventa quelle parole, e quelle non sono più parole, ma voce, e la voce non è più voce ma è suono che accade, e quel suono che accade diventa Ciò-che-accade, e dunque tutto, e il resto non è più niente. Chiaro come il regolamento del pallone elastico. Riproviamo. Quando sono uscito non avrei saputo dire cosa quei testi dicevano. Il fatto è che nell'istante in cui Carmelo Bene pronuncia una parola, in quell'istante, tu sai cosa vuol dire: un istante dopo non lo sai più. Così il significato del testo è una cosa che percepisci, sì, ma nella forma aerea di una sparizione. Senti il frullare delle ali, ma l'uccello non lo vedi: volato via. Così, di continuo, ossessivamente, ad ogni parola. E allora non so gli altri, ma io ho capito quel che non avevo mai capito, e cioè che il senso, nella poesia, è un'apparizione che scompare, e che se alla fine tu sai volgere in prosa una poesia allora hai sbagliato tutto, e, a dirla tutta, la poesia esiste solo quando la pronunci a voce alta, perché se la leggi solo con gli occhi non è nulla, è prosa un po’ vaga che va a capo prima della fine della riga ed è scritta bene, ma poesia non è, è un'altra cosa. Diceva Valéry che il verso poetico è un'esitazione tra suono e senso: ma era un modo di restare a metà del guado. Se senti Carmelo Bene capisci che il suono non è un'altra cosa dal senso, ma la sua stagione estrema, il suo ultimo pezzo, la sua necessaria eclisse. Ho sempre odiato, istintivamente, le poesie in cui non si capisce niente, neanche di cosa si parla. Adesso so che c'è qualcosa di sensato in quel rifiuto: rifiuta una falsa soluzione. Quel che bisognerebbe saper scrivere sono parole che hanno un senso percepibile fino all'istante in cui le pronunci, e allora diventano suono, e allora, solo allora, il senso sparisce. Edifici abbastanza solidi da stare in piedi, e sufficientemente leggeri da volare via al primo colpo di vento.

È meraviglioso come tutto questo non abbia niente a che fare con l'idea che si ha normalmente della poesia: un poeta soffre, esprime il suo dolore in belle parole, io leggo le parole, incontro il suo dolore, lo intreccio al mio, ci godo. Palle: per anime belle. Tu senti Carmelo Bene e il poeta sparisce, non esprime e comunica niente, l'attore sparisce, non esprime e comunica niente: sono sponde di un biliardo in cui va la biglia del linguaggio a tracciare traiettorie che disegnano figure sonore: e quelle figure, sono icone dell'umano. Le poesie non sono delle telefonate: non le si fanno per comunicare. Le poesie dovrebbero essere pietre: il mare e il vento che le hanno disegnate, sono poco più che un'ipotesi.
Non spiega quasi nulla, Carmelo Bene, durante lo spettacolo. Solo un paio di volte annota qualcosa. E quando lo fa lascia il segno. Dice: leggere è un modo di dimenticare. Testualmente, nel suo linguaggio avvitato sul gusto del paradosso: leggere è una non-forma dell'oblio. Non so gli altri: ma a me m'ha frantumato. L'avevo anche già sentita: ma è lì, che l'ho capita. Scrivere e leggere stretti in un unico gesto di sparizione, di commiato. Allora ho pensato che poi uno nella vita scrive tante cose, e molte sono normali; cioè raccontano o spiegano, e va bene così, è comunque una cosa bella, scrivere. Però sarebbe meraviglioso una volta, almeno una volta, riuscire a scrivere qualcosa, anche una pagina soltanto, che poi qualcuno prende in mano, e a voce alta la pronuncia, e nell'istante in cui la pronuncia, parola per parola, sparisce, parola per parola, sparisce per sempre, sparisce anche l'inchiostro sulla pagina, tutto, e quando quello arriva all'ultima parola sparisce anche quella, e alla fine ti restituisce il foglio e il foglio è bianco, neanche tu ti ricordi bene cosa c'avevi scritto, solo ti rimane come una vaga impressione, un'ombra di ricordo, qualcosa come la sensazione che tu, una volta, ce l'avevi fatta, e avevi scritto una poesia. ››  [*]



“V'era (v'è) dunque, un apparir della voce.”


Ascolta >>>> La voce dell'Assenza


Riferimenti


- Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna, Mondadori 1984

- Carmelo Bene - Quattro momenti su tutto il nulla 1° Il Linguaggio

[*] - Alessandro Baricco, Barnum. Cronache dal Grande Show, Feltrinelli 2023 (estratto su Carmelo Bene)






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