RUGIADE - Silvia Longo - Intorno a "Chamotte", Bertone Editore, aprile 2025
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Daniela De Micheli, CHAMOTTE, Bertone Editore, 2025 |
Eterno pane
Ricordo
come
condurre la neve
era superbo
e straordinario
nel gran
vivaio dell’inverno.
Ricordo
l’avanzare bianco,
l’affondo
dell’orma profondo,
le bacche
sgocciolate dalle spine,
coaguli
lucidi nel candido flusso.
Ricordo
adesso
tutto lo
sfacelo della vita
esibirsi
senza promessa.
Sul ramo
stecchito
la foglia
morta persiste,
di riccio e
frutto il marciume.
Poi sotto il
passo fragrante
la terra
morbida nera
che accoglie
lievita impasta.
Digerisce e
rinnova
questo
eterno pane.
“Chamotte” è il titolo della silloge poetica di Daniela
De Micheli, uscita lo scorso aprile per Bertone Editore, e della quale ho avuto il piacere e l’onore di
scrivere la prefazione. Un esordio intenso, un fulgido segnale di vitalità nel
contesto letterario contemporaneo.
La chamotte, detta anche argilla refrattaria e sabbia
incendiaria, è una materia prima ceramica. Si ottiene dalla cottura ad alta
temperatura e dalla frantumazione di vari materiali. Bisogna poi passarla al
setaccio sino a ottenere una polvere finissima, che si adopera per rafforzare e
rendere più temprati i nuovi impasti. Per produrre manufatti strutturati e
capaci di resistere al fuoco.
Per creare
la chamotte vien buono tutto. Cocci di vasi rotti, piastrelle spaiate, tegole
malconce, vecchi piatti sbeccati, souvenir di vite trascorse che non amiamo più
vederci attorno; ogni oggetto nato dalla terra che per noi ha perso significato
o importanza.
Si
raccolgono le cose scelte e con le mani, con i piedi, con una mazzetta da
muratore, si prende a spaccare tutto. Tutto si frantuma secondo diversi gradi
di disperazione, o di speranza, fino ad ottenere una nuova materia prima da
impastare con l’argilla per realizzare una ceramica più temprata.
Proprio così
nasce Chamotte, una raccolta di frammenti di vita cui viene data una seconda
possibilità, mescolandosi col ricordo e col presente, per farsi poesia.
(Daniela De Micheli, a
proposito di “Chamotte”)
Credo che chiunque si accosti a questo libro possa ben comprendere quanto la De Micheli affermi, nelle righe che ho qui sopra riportato, poiché i suoi versi raccontano proprio di un continuo fare, disfare e ricomporre. Di una incessante opera di destrutturazione e ri-creazione. Del non lasciare che alcun fatto della vita e delle esperienze – dalle più sfolgoranti di gioia alle più disperate – vada perduto, resti inutilizzato. Ma che si trasformi in altro, l’esatto opposto di ciò che l’aggettivo inerte darebbe a intendere, in relazione a materiale di scarto.
La pietra
scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo, si legge nel Salmo 117, e lo stesso Cristo
cita questi versi (Vangeli di Matteo e Luca). E se la testata d’angolo è la
pietra delle fondamenta, i detriti delle tante vite che viviamo, nel nostro
percorso umano, vanno a depositarsi in fondo allo scavo. A partire da lì, da
una rielaborazione quanto meno razionale, si prosegue a edificare. Meglio
ancora se il processo dell’attribuzione di significato avviene attraverso un
percorso creativo.
Così la poesia di Daniela De Micheli attinge a
piene mani al quotidiano, alle contingenze, alle incombenze e alle rare e
preziose occasioni di fuga. Al dipanarsi dei suoi giorni e delle stagioni, alle
variazioni atmosferiche, agli elementi naturali. Al vivere in connessione con
gli ambienti domestici e con quelli di puro transito, in viaggio. E ancora la poesia della De Micheli è poesia di
donna, di madre, di essere senziente. Poesia di attenzione, poiché nulla resti
inevaso, e tutto nella poesia trovi spazio e compimento espressivo. I volti
dei figli, le loro istanze più intime e i turbamenti, il viaggio a tappe che
essi conducono, da bambini a giovani abitanti del mondo. La presenza dei gatti,
nella dimora, testimoni e compagni di quanto accade tra le mura e nel perimetro
delle emozioni personali. E il proprio divenire, appunto, il mai facile
mestiere di creatura baciata dalla Grazia feroce di una sensibilità che esonda
sotto forma di passione, che si tratti di amore incarnato o di dedizione alla
parola scritta. Alla quale ci si consegna, dalla quale ci si fa bruciare. Con
la quale esortare anche gli altri – e qui l’autrice diviene universale – alla
veglia operosa della consapevolezza, umana e letteraria:
SIATE LA MANO
Siate la
mano larga / che si dischiude e rende / luce alla luce, fuoco / al fuoco.
Parola / all’arco teso / di un mezzo cuore / che s’è già speso. / E pure siate
ancora / la mano sicura / che si serra su un dolore, / sul mosaico rotto
dell’amore, / e paziente lo cura. / Brillanti. In ascolto. / Cavità ospitali /
inesauribili fiamme / rare mani. In preghiera, operose, / a coppa, in coppia. /
Bruciate e vegliate.
Il linguaggio e il registro scelti da questa
autrice sono volutamente fruibili e contemporanei, sebbene la De Micheli non si
accontenti di un lessico basico né di una forma che non sia strutturata
consapevolmente. Pur prendendo distanza dalla grandiosità, reale o data a
intendere, di altre penne contemporanee, e sebbene si spogli da eccessi
retorici di maniera, Daniela De Micheli non pare aver sposato il minimalismo,
ma piuttosto la ricerca
dell’autenticità. La sua è una poesia di esposizione completa, di resa al
verso, di fiducia nel potersi dire.
Mi sono ancora trovata a riflettere, leggendo Chamotte, su quanto l’esperienza della gioia e del dolore condizioni il nostro modo di stare al mondo. Chi è transitato nella gioia, anela a tornare in quella condizione, trattenendone sapore e ricordo, consapevolizzandone le cause per poterle ricreare. Si usa dire, di chi nelle avversità ha sviluppato una specifica forza interiore, che è stato temprato dal dolore, così come si temperano i vetri per renderli resistenti. E la tempra del vetro è un processo che consta di uno sbalzo termico – scaldare e raffreddare velocemente, così che si crei un equilibrio di tensioni. Quanto a noi, è pur sempre arte questa del resistere a forze contrapposte, facendone virtù come di arco, scaricando il peso e ricavandone spinta, a render stabile l’architettura. Persistere nei propri intendimenti, accompagnandosi ai ritmi naturali che, degli opposti, si nutrono e rigenerano, di stagione in stagione, di notte in giorno, di continuo ricambio cellulare.
Una goccia
sul parabrezza / schiaffeggiata dal controvento / trema la sua faticosa trama.
Ho smesso, o almeno, lo spero, di ritenere che
il dolore sia lo strumento più utile alla crescita interiore delle persone. A
volte, ho potuto osservare, il dolore cerca l’anestetico che sedi, perdendo
così anche l’effetto propulsivo che mette le ali alla mente, affinché trovi il
mezzo più rapido per evadere. Ancora, il dolore ci assottiglia la pelle,
esponendoci al rischio di altre ferite, e ci rende fragili, esposti al timore
che esso si ripresenti, e soprattutto in quelle manifestazioni che ci hanno già
spezzati. Poiché il dolore – quanto se non più della gioia – si declina in
cicli e circostanze, si localizza in una o più parti del corpo e dell’anima, a
volte cronicizza e ramifica. Quali, dunque, i fiori del dolore e del
disincanto, e come farne bellezza, se non con una mai quieta accettazione di
essi, e con l’atto coraggioso di una risemina nella terra in cui si è morte,
mille volte, e poi rinate?
Noi vaporosi
riverberi di cometa / che balenano al colmo / d’un vivere quieto e disperato. /
Tradite / dalla sovrumana infanzia / che coltiva mondi intatti. / Come tutto
ciò che è reso, / il divenire va accolto, / non compreso. / Per ingannare la
notte / al cielo levano gli occhi, / ancora ci chiamano stelle.
Cara Silvia, ti sono profondamente grata per questa lettura intima e acuta della mia poesia. Dall'incontro con l'altro ancora una volta è nata bellezza.
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