POESIA ALL’OPERA – Stefania Giammillaro – “E lucevan le stelle…" - Il “come” del “tardi”
![]() |
Stefania Giammillaro |
"E lucevan le stelle,
e olezzava la terra,
stridea l'uscio dell'orto
e un passo sfiorava la rena.
Entrava ella, fragrante,
mi cadea fra le braccia.
Oh! Dolci baci, o languide carezze,
mentr'io fremente
le belle forme disciogliea dai veli!
Svanì per sempre il sogno mio d'amore...
l'ora è fuggita,
e muoio disperato,
e muoio disperato!
E non ho amato mai tanto la vita!
tanto la vita".
Con l’aria
“E lucevan le stelle” si avvia alla
conclusione la Tosca, opera tra le
più famose di Giacomo Puccini, composta
tra la primavera del 1896 e l'ottobre del 1899, su libretto di Giuseppe Giacosa
e Luigi Illica, nella quale si ravvisa un più equo bilanciamento tra la potenza
del ruolo rivestito dalla protagonista femminile, Floria Tosca, appunto, e il “suo” Mario Cavaradossi, non a caso, rispettivamente soprano e tenore,
quasi a suffragare, anche in spartito, una siffatta pariordinazione, che si mantiene
intatta lungo i tre atti fino a consumarsi nella tragedia finale, o meglio,
nella tragica disperazione finale.
Mario,
condannato a morte dal barone Scarpia, capo della polizia papalina, è stato nel
frattempo condotto all’interno dei bastioni di Castel Sant’Angelo. Lì, Mario, imprigionato
in una solitudine forzata, trova spazio per riflettere
(nell’accezione etimologica del latino reflectĕre/piegarsi su sé stesso) e si pente di non aver creduto a Tosca, di
aver rifiutato il suo abbraccio e, mentre decide di scriverle un’ultima lettera
d’amore, viene sopraffatto dai ricordi, dai rimpianti e dai rimorsi fino alla
consapevolezza estrema che giunge alla stregua di fulmine a ciel sereno, una
vera e propria rivelazione: in punto di morte si accorge di non aver “amato mai
tanto la vita!”
Appare
quasi automatico rinvenire un’affinità con la condizione antropologico - esistenzialista
de Lo Straniero (L'Étranger),
romanzo dello scrittore e filosofo francese Albert Camus, pubblicato nel 1942
per Gallimard, dove il protagonista Meursault è un piccolo impiegato di Algeri
il quale, un giorno, quasi per caso, uccide un arabo. Arrestato, non tenta
neppure di giustificarsi, di difendersi: viene processato e condannato a morte.
"All'inizio della detenzione, in realtà, la
cosa più dura era che avessi pensieri da uomo libero. Mi veniva voglia, per
esempio, di essere su una spiaggia e di scendere verso il mare. Immaginando il
rumore delle prime onde sotto la pianta dei piedi, il corpo che entrava in
acqua ed il sollievo che provavo, sentivo di colpo quanto fossero stretti i
muri della prigione. Ma è durato pochi mesi. Poi ho avuto solo pensieri da
prigioniero. Aspettavo la passeggiata quotidiana che facevo nel cortile o la
visita del mio avvocato. Per il resto del tempo me la cavavo benone. Allora mi
sono trovato spesso a pensare che se mi avessero fatto vivere dentro un tronco
d'albero morto, senza poter fare altro che guardare il fiore del cielo sopra la
mia testa, a poco a poco mi sarei abituato. Avrei aspettato passaggi di uccelli
o incontri di nuvole, così come lì aspettavo le strambe cravatte del mio
avvocato e come, in un altro mondo, pazientavo fino al sabato per abbracciare
il corpo di Marie. Ma, a pensarci bene, non ero dentro un albero morto. C'era
gente più infelice di me. Tra l'altro era un'idea di mamma, e lo ripeteva
spesso, che alla fine ci si abitua a tutto." (A. Camus - Lo straniero – Bompiani 2018,
prefazione di Roberto Saviano, traduzione di Sergio Claudio Perroni).
De Lo straniero di Camus abbiamo già
parlato in un precedente appuntamento di Poesia
All’Opera ( POESIA ALL’OPERA – Stefania Giammillaro - “Questo è il fin di chi fa mal”. La morte come appartenenza), ma se lì l’intento era quello di sublimare, fino ad
esasperarlo, l’ “imperterrito senso di appartenenza alla morte” quale “ineluttabile
forma di auto-condanna” correlandolo al suicidio, adesso si tenta di rispondere
ad altri interrogativi che caratterizzano la precarietà umana: perché bisogna
arrivare alla morte per amare la vita? Perché occorre perdere qualcosa o
qualcuno per riconoscerne il valore?
A
quest’ultimo proposito mi sia concessa una indebita, quanto brevissima
ingerenza dell’altra Rubrica “Muddichi”,
rispetto alla quale si potrebbe rievocare il noto proverbio siciliano: “T’annu l’amicu lu ricanuscirai, quannu lu
pirdirai” (L’amico lo riconoscerai, quando lo perderai).
Perché,
dunque, “accorgersi quando ormai è troppo
tardi” è diventata cancrena assodata, consuetudine cicatrizzata, tale da assurgere
tra i motti cardine della saggezza popolare?
Perché
deve essere l’ “assenza” a dare voce, a misurare il peso della “presenza”?
Emblematico,
al riguardo, è il distico iniziale di Assenza
di Attilio Bertolucci (San Prospero Parmense, 18 novembre 1911 – Roma, 14
giugno 2000), contenuta nella silloge giovanile (aveva appena diciotto anni) “Sirio”
(1929).
![]() |
Attilio Bertolucci |
Assenza,
più
acuta presenza.
Vago pensiero di te
vaghi ricordi
turbano l’ora calma
e il dolce sole.
Dolente il petto
ti porta,
come una pietra
leggera.
O
ancora il cileno Pablo Neruda, pseudonimo di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes
Basoalto, (Parral, 12 luglio 1904 – Santiago del Cile, 23 settembre 1973) descrive
l’assenza come una grande casa e recupera il senso del “lutto” associato anche
alla perdita di una persona in vita.
![]() |
Pablo Neruda |
Se muoio sopravvivimi con tanta forza
pura
se tu risvegli la furia del pallido e
del freddo,
da sud a sud alza i tuoi occhi
indelebili,
da sole a sole suoni la tua bocca di
chitarra.
Non voglio che vacillino il tuo riso né
i tuoi passi,
non voglio che muoia la tua eredità di
gioia,
non bussare al mio petto, sono assente.
Vivi nella mia assenza come in una casa.
È
una casa sì grande l'assenza
che
entrerai in essa attraverso i muri
e
appenderai i quadri nell'aria.
È una casa sì trasparente l'assenza
che senza vita io ti vedrò vivere
e se soffri, amor mio, morirò
nuovamente.
(da La
magia in azione, di Antonio Skármeta, Pablo Neruda traduzione di Roberta
Bovaia; Guanda, Milano 2006).
Tuttavia,
l’assenza, il dolore della perdita in Cavaradossi non trova conforto nella
malinconia come in Bertolucci e Neruda, in quell’addio romantico che strugge e
al contempo riscatta, portato nel petto “come
pietra leggera”. Non c’è scampo, via di fuga, né alternativa risolutoria, Subito Occorre Soccorso, ma nessun
aiuto, per quanto richiesto, è ben accetto.
Ma proprio ora tu cerchi
i corpi concretissimi sparsi nelle strade
di questa terra, li cerchi nelle strade
di questa terra, li cerchi disperatamente
e ora tornano tutti qui, bussano alle
persiane
e alla quiete mortale di questo albergo
dove brillano quaranta pastiglie, alla
quiete
estrema prima dell’uragano:
tre punti tre linee tre punti, occorre
fare presto, Subito
Occorre Soccorso, tre punti
tre linee, tre punti.
(Milo
De Angelis, da Linea Intera Linea
Spezzata, Lo Specchio – Mondadori, 2021)
![]() |
Linea Intera Linea Spezzata, Lo Specchio Mondadori, 2021 |
La quiete estrema, che prepara all’uragano perché già tormenta, dilania fin
dentro le viscere, senza spargere ceneri come la noia, ma senza neanche bastare a sé stessa come la gioia.
Che aspetto io qui girandomi per casa,
che s’alzi un qualche vento
di novità a muovermi la penna
e m’apra a una speranza?
Nasce invece una pena senza pianto
né oggetto, che una luce
per sé di verità da sé presume
- e appena è un bianco giorno e mite di
fine inverno.
Che spero io più smarrito tra le cose.
Troppe ceneri sparge attorno a sé la
noia,
la gioia quando c’è basta a sé sola.
(Ceneri, Vittorio Sereni, da Gli strumenti Umani - Vittorio Sereni Poesie e Prose a cura di
Giulia Raboni, Mondadori, 2020).
![]() |
Vittorio Sereni. Poesie e Prose, Mondadori, 2020 |
Che
fare allora se la solitudine acceca anche la più flebile luce di speranza?
Quando la mancanza è più potente e prepotente della presenza e ci ammalia fino
a condurci nella sinuosa trappola del delirio e della resa?
Sarebbe
semplice, a questo punto, ammonirci e farci monito per i più giovani, ricordare a
noi stessi e a loro quanto sia importante non tanto “vivere”, quanto “accorgersi”
del presente, rendersi conto, percepire il nostro essere “pneuma" al di là del
corpo, a prescindere dal corpo e dal mondo, per godere della giusta distanza,
dell’essenziale distacco che ci permetta di notare persino l’aria che ci circonda
ed accede al respiro. Rendersi conto del respiro.
Ma
non basterebbe.
Non
basta, perché occorre anche accogliere. Accorgersi e accogliere, senza dover necessariamente
“volgere in bene” o “trarre il meglio” da ciò che (ci) accade, ma accade ed è
dono, spaventosamente dono, nel bene e nel male.
[…] “certe volte si sente dire: «Tu volgi proprio
tutto in bene». Trovo che è un’espressione così priva di coraggio. Le cose sono
dappertutto completamente buone – e, al tempo stesso, completamente cattive.
Così si bilanciano, dappertutto e sempre. Io non ho mai la sensazione che devo
volgere qualcosa in bene, tutto è sempre e completamente un bene così com’è.
Ogni situazione, per quanto penosa, è qualcosa di assoluto, e contiene in sé il
bene come il male. Volevo solo dire questo. l’espressione «volgere qualcosa in
bene» in fondo mi disgusta, e così pure l’espressione «tirare fuori il meglio
da ogni situazione», mi piacerebbe poterti spiegare bene perché. Se tu sapessi
che sonno ho!” (Etty Hillesum, Diario 1941-1943, a cura di J.G. Gaarlandt,
Traduzione di Chiara Passanti, Gli Adelphi, 1985).
Etty
crede di non esser riuscita a spiegarci il perché,
aveva troppo sonno. Io credo invece di aver solo dormito prima di aver letto che “Ogni situazione, per quanto penosa, è
qualcosa di assoluto, e contiene in sé il bene come il male”: ha ridestato
il mio stare al mondo.
Cogliamolo, dunque, l’assoluto, l’irripetibile! Lì sta la definizione del nostro esserci finito. Forse allora saremo pronti
ad accogliere la mancanza, abbracciarla,
così come esattamente è, senza doverla preferire alla presenza. Anzi, scegliendo quest’ultima nel suo fluire tra vita e
morte. D’altronde, non si può essere eterni nel dolore.
Veramente potente questo librarsi tra la poesia, la filosofia e l’opera . Il canto della vita e dell’arte in tutta la loro infinitezza , brava Giammi !! Nadia Chiaverini
RispondiElimina