LA LUCE SUGLI SPIGOLI - Rosalba De Filippis - Un Francesco senza i panni del ricco

 

Rosalba De Filippis

Sono figlia, da generazioni, di una cultura laica ma sensibile a ogni forma di spiritualità. Mio padre, Vincenzo, insegnante e filosofo, negli anni Quaranta fu tra i fondatori del PCI nel Molise: terra di migrazione, abbandonata e tuttora misconosciuta. 

Un giorno, in un momento per la nostra famiglia di profonda difficoltà, egli vide apparire, per pura casualità sulla soglia di casa, un sacerdote, Don Nello, con il suo cappello saturnino dalle ampie falde circolari, come un segno, come qualcosa a cui appigliarsi. Ne nacque una profonda amicizia. 

Dunque, pur non cedendo di un passo nelle sue convinzioni politiche, mio padre per un certo periodo abbracciò la fede. Sto parlando della fine degli anni Sessanta. Me lo ricordo, nella cattedrale di Isernia, durante le sue conferenze in presenza del vescovo. Ero piccola e poco potevo comprendere; ciò che mi colpiva era il movimento ritmico della gamba destra di papà che accompagnava i suoi ragionamenti. Abitudine che credo di aver ereditato. 

Ricordo anche che fui battezzata, comunicata e cresimata, lo stesso giorno; avevo un paio di scarpe rosse, con una sottile cinghia alla caviglia e un vestitino blu con il colletto coordinato alle scarpe. Avrò avuto otto anni. 

Prima di questo evento, io che frequentavo la chiesa, con il suo oratorio pieno di ragazzini schiamazzanti, unico luogo di aggregazione della piccola cittadina in cui eravamo andati a vivere, spiegai al padre cappuccino il mio segreto, come una colpa: non ero battezzata, non avrei potuto studiare il catechismo, di cui, nella sua ripetitività formulare avevo provato a imparare qualcosa, tuttavia con risultati rovinosi. A me piaceva il cinema dell’oratorio, i film di Terence Hill e Bud Spencer, durante la cui proiezione c’era sempre un monello ad appiccicarmi la cingomma ai capelli. E poi fuggivo con le amiche, rincorsa da ciurme di ragazzetti cui le iniziali tempeste ormonali dettavano il desiderio di predarci, perché no, insultarci. Uno di questi maschiacci ci gridò una volta alle spalle: «troie» e io nella mia ingenuità gli risposi «achei!»

Eppure i Comandamenti nella nostra famiglia li mettevamo in pratica, per gran parte; la nostra casa signorile, quella del paese di origine, era stata aperta a tutti; inizialmente, solo pane e siero di latte per i più poveri, che per sfamarsi coglievano erba di campo, non altro; più avanti, con mio padre e mia madre, tavolate ogni sera. Ogni sera.

I miei genitori, entrambi insegnanti, misero al centro la necessità di dare istruzione alla gente del luogo. Oserei dire con un amore senza riserve. Molte furono le manifestazioni organizzate per riparare alle ingiustizie: per la Cassa Mutua, per una nuova strada, per portare l’acqua nelle contrade. Per finalmente tenersi il cappello ben calcato sulla testa al passaggio di un notabile locale. 

Ma io non c’ero ancora. Tutto questo mi è stato raccontato di recente dalle persone che avevano frequentato i miei genitori. Non senza commozione.

Da bambina, seguivo il profumo del pane nelle stradine di questo paese, sulle scalinate di pietra, nella piazza centrale in cui campeggiava (e campeggia ancora) un grande platano. E bussavo, a cercare le pezze di stoffa da Cuncettella, la sarta del paese.  

Poi la fuga. Una chiusura drastica con il passato. Per mille ragioni, ci trasferimmo, sconfitti, a Firenze, luogo in cui mio padre, molti anni prima, aveva avuto modo di frequentare l’ambiente intellettuale delle Giubbe Rosse, tra cui i suoi amici più cari: Tommaso Landolfi, Oreste Macrì; conosceva Leone Traverso, Alfonso Gatto, il pittore Ottone Rosai.  

Quattordicenne, ascoltavo papà leggermi le poesie di Campana, Dante, Ungaretti; era il timbro della sua voce che mi incantava a tal punto, da correre via non senza imbarazzo pur di nascondere la mia emozione profonda. 

Erano gli anni delle contestazioni. Tuttavia il ritorno a Firenze fu deludente, specie per mio padre, mentre io mi struggevo di una nostalgia inestirpabile per i miei luoghi, che non mi abbandona neanche adesso. Fummo molto soli. «La casa del platano», di Macchiagodena, il nostro comunello di montagna, andò perduta. E anche la fede (specie quella politica) negli anni. Mio padre morì qualche anno dopo. 

Non ricordo nella mia famiglia, un pranzo, una ricorrenza che avesse in sé una patina di «normalità», come se il nostro benessere fosse rimandato a una data imprecisa e non avesse senso se distaccato dalla necessità di cambiare il mondo. «Dopo» quando tutte le ingiustizie se le fosse portate via un socialismo buono, un San Francesco senza più i panni del ricco, ecco forse allora avremmo finalmente apparecchiato e mangiato come «dio comanda». (1)

Forse, papa Francesco, che da qualche ora se n’è andato nella costernazione di credenti e non credenti, ci avrebbe compreso. Così, almeno, mi piace pensare.


1)  Brano in corsivo tratto da Rosalba de Filippis, La casa del Platano, Storia di un professore e del suo paese, CartaCanta editore 2018.

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