IL DIARIO DI DAFNE - Ester Guglielmino - Eppure piove, anche se è aprile

 

Ester Guglielmino

«Quaeris» inquit «quid profecerim?

Amicus esse mihi coepi.»

 

[Mi chiedi qual è stato il mio progresso?

Ho cominciato a essere amico di me stesso.]

Seneca, Epistula ad Lucilium VI, 7

 

Oggi non c’è scuola, oggi si va leggeri, oggi ci s’incontra in piazza per una giornata alternativa. Pioggerella un po’ e tira un forte vento quando arrivo, gli alunni della seconda che accompagno sono ancora in pochi, parlottano tra loro, poi mi salutano con un gran sorriso. La collega che ha curato l’organizzazione s’avvicina, si presenta, chiede ai rappresentanti di raccogliere le rituali quote di adesione. Penne, liste e monetine si mettono subito in moto, alla fine gli interessati battibeccano un poco: non sono riusciti a fare bene i conti, uno resta col broncio qualche istante, ma - almeno qui - il sereno torna presto, in barba a questo uggioso inizio d’attesa primavera. Ci accomodiamo in sala, l’Auditorium che ci accoglie è una bella struttura ricavata da un palazzo antico, una volta ospitava uno dei pochi cinema della città, si chiamava “Moderno” e la cosa mi fa sorridere mentre guardo i mascheroni primo-Novecento che s’accampano minacciosi sopra la facciata (che la modernità incuta da più d’un secolo paura?).

I ragazzi si siedono, le poltroncine sono nuove, comode e spaziose. Però sono rimaste solo le prime file (è questo il pegno da pagare all’iniziale discussione...), sono titubanti ma alla fine non ci restano granché male, anzi apprezzano l’agio del quasi-proscenio appena inizia lo spettacolo teatrale. Gli attori sono giovani, ma s’atteggiano ad adolescenti, ne mettono in scena i vizi, le manie, i più o meno insormontabili problemi. Poi la situazione di colpo precipita sulla scena, allora l’argomento arriva chiaro e dichiarato: bullismo e cyberbullismo, sarà questo il focus della nostra giornata di scuola alternativa.

Nella compagnia sono solo in tre: uno fa il bullo bello e dannato, una la vittima timida e sfigata, il terzo - suo malgrado - s’ingegna nei panni di docenti vari. Situazioni grottesche ed esasperate si alternano ad altre che parlano una lingua viva, drammatica e vicina. Dal mio occhio adulto scorgo cose che mi vanno strette: la caricatura dei prof - ad esempio - mi disturba un po’ (mentirei se dicessi il contrario) e non tanto per le marcature stravaganti di alcune caratterizzazioni, quanto per l’idea che striscia sotto i piedi: quella dell’assenza, dell’incapacità d’accorgersi e capire. Mi chiedo se sia davvero così o se questa banalizzazione degli insegnanti sia anch’essa, in fondo, frutto d’uno stereotipo recente; l’individuazione semplicistica e ordinaria del capro espiatorio più scontato. Mi chiedo pure quanto il problema sia ben più grave, fino a che punto coinvolga famiglie disfunzionali, approcci educativi improvvisati, tentativi disperati di compensare vuoti sociali che non si riesce più ad arginare. Forse oggi è solo più difficile essere adolescenti, mi dico, e pure essere genitori.

I ragazzi guardano lo spettacolo di gusto, piacciono le musiche e perfino i balletti improvvisati, la colonna sonora certo non è stata scelta a caso. Anche l’idea di base - che tanto il bullo quanto il bullizzato chiedano solo uno spazio per esistere così per come sono - risulta, pur non originale, abbastanza convincente e motivata; gli attori hanno fatto un buon lavoro. Me lo ripeto a mente e intanto mi ritrovo a considerare quale contraccolpo possa avere sui più giovani questo scollamento tutto attuale tra l’essere e l’apparire; quanto sia tanto più gravoso - oggi - soddisfare le proprie e altrui aspettative; quanta incrollabile fiducia nelle proprie potenzialità ci voglia per essere così belli, godibili, ‘selfiezzabili’ in ogni momento della nostra vita, idoli più o meno in erba da invidiare sempre e in ogni luogo; macchine perfette o perfettibili, capaci d’essere nel posto giusto, col mood giusto, in armoniosa linea col contesto proprio come una tappezzeria: nella festa in, nel posto in, nella vacanza in, con l’abbigliamento in, con gli amici in. Non sono una nostalgica (giuro!) ma per un attimo il pensiero vola ai miei anni da liceale, ai pomeriggi di completo isolamento tra le pareti della mia camera, alle mie passeggiate solitarie e necessarie, alla voglia di non esserci (talora neanche per me stessa). Cerco di valutare quanta violenza possa celarsi dietro a questa invadenza nella complessa geografia di ognuno e quanto, di converso, sia importante mantenersi attorno una bolla ventilata e fresca di sopravvivenza. D’altronde ‘violenza’ non deriva forse da vis (forza, assalto) latino e, più indietro, dal proto-indoeuropeo *wéyh che significa perseguitare?

Intanto lo spettacolo è finito, gli applausi esauriti, la parola passa al vero ospite della giornata: un docente universitario di sociologia, esperto di comunicazione avanzata, di meta-verso e di intelligenza artificiale. Il professore - nonostante l’alone di riverenza creato dalla sua presentazione - è simpatico e alla mano, si vede che è abituato ad avere a che fare coi ragazzi di questa età. La lezione, certamente di rito, prevede altrettante interazioni rituali: «hai lo smartphone? quante ore al giorno lo usi? monitori il tuo tempo con app specifiche? hai istagram? hai tik-tok?», di facebook a quest’età non si chiede già più. Anche le risposte sono rituali, e ovviamente tutte affermative. Il professore ha il sorriso di chi la sa lunga e infatti, dopo qualche iniziale rassicurazione, parte subito con la pars destruens della sua esemplificazione: tutti veniamo regolarmente monitorati, ci dice; il microfono dei nostri smartphone resta sempre acceso, pronto a captare le info più invitanti e attrattive; le parole chiave funzionano come lampadine per algoritmi a esse perennemente collegati; i nostri dati rappresentano il nuovo ‘oro’ perché, per chi ci ascolta, si trasformano - già nell’etere - in denaro; insomma, il prof conclude esortando a una circospetta rassegnazione, perché ci sono dinamiche da cui non si può più sfuggire, se non gettando in acqua lo smartphone e mollando per sempre questo mondo pseudo-civilizzato. I ragazzi annuiscono, ma non mi sembrano molto preoccupati: in fondo sono cose che si sanno, no? E poi se qualcuno riesce a leggerti nel pensiero, a momenti, potrebbe pure sembrare un dono del cielo. E infatti - aggiunge il prof con un sorriso sospeso tra l’ironico e l’onirico - in qualche chiesa è già stata avviata la sperimentazione di un Cristo digitale, assoluto e performante come un’intelligenza artificiale, pronto ad accogliere in silenzio ogni nostra più recondita confessione (anzi, ci fa sapere, molti fedeli affermano di preferirlo al prete, perché meno suggestionabile, più intimo e pure - udite, udite! - più discreto…).

Da almeno un quarto d’ora penso ad altro, senza poterne fare a meno, al segugio meccanico di Fahrenheit 451 e alla sua capacità di braccarti in ogni dove, ma anche all’Oceania di 1984, al suo Ministero della Verità, al suo grande occhio puntato sulla vita di ciascuno; al silenzio di Dio su La strada desolata di McCarthy; penso all’amore surrogato dell’amore e ai sogni divorati dai topi assieme alle nostre più orride paure. All’improvviso mi ritrovo a chiedermi quand’è successo tutto questo, come lo abbiamo permesso, quando la situazione ci è sfuggita di mano, senza destare scandalo alcuno.

Guardo i miei alunni, le loro facce pulite, i loro ricci giovani e scompigliati e guardo i brufoli che non riusciranno a nascondere a nessuno, i loro occhi vispi che avranno sempre un filtro incorporato nel guardarsi e nel guardare. Sorridono, si scambiano battute, considerazioni leggere e provvisorie; no, davvero, non mi sembrano preoccupati. Io, invece, penso che la letteratura distopica classica è ormai diventata inattuale, superata da una iperrealtà che l’ha resa di colpo fuori moda. Bisognerà che trovi altro, rimugino, per scatenare le coscienze: scenari più apocalittici, video più inverosimili, idee ancora più inconciliabili con quella libertà che forse ha smesso di suscitare ogni interesse. Mi chiedo perché questi ragazzi non potranno più fare una passeggiata senza essere seguiti da un ricettore gps, perché non potranno più avere un desiderio senza essere monitorati dal magnate di turno, mi chiedo perché non potranno più amare senza che un algoritmo spii nelle loro conversazioni, mi chiedo chi ruberà assieme ai loro progetti anche i loro nomi. Mi chiedo perché non scendano tutti in piazza domattina, perché non minaccino un ammutinamento collettivo del mondo del futuro, mi chiedo perché domattina noi non saremo in piazza, lì assieme a loro.

Intanto nell’Auditorium il fermento continua, la discussione è diventata più partecipata, ora si parla di teatro, di simulazione sul palco della vita. I ragazzi sono carini, qualcuno dalla platea sale pure sul lato in cui stanziano gli attori, è emozionato, prova a dire cosa pensa, prova a raccontare la sua esperienza. Forse - mi persuado - oggi il teatro è diventato più veritiero della vita, riduce ad un passo plausibile la sfasatura che nelle nostre esistenze si consuma tra ciò che davvero siamo e le certezze che ostentiamo. Lo spettacolo, in effetti, s’intitolava Io esisto e forse il prezzo più alto di questa discrasia dell’esistere sta proprio dietro a questi sorrisi incerti ed emozionati, sereni, troppo sereni per aver realmente capito che è il loro futuro quello che non siamo riusciti a preservare.

Domani l’attività didattica riprenderà in modo regolare, torneremo a parlare di latino, di Diocleziano, di verifiche da completare, di compiti di italiano da programmare con una diligenza quasi militare. Ma io tornerò a chiedermi cosa fare. Magari porterò qualche libro di poesia o qualche romanzo dall’incipit folgorante per le ultime ore di afasia. Mi ritrovo a valutare a cosa serva la scuola, se serva ancora, in che modo potrà proteggere questi ragazzi dal mondo inverosimile che li circonda. Mi chiedo se davvero saremo in grado di insegnare loro che la vita si vive in carne e sangue, di salvarli da quella fragilità che penetra sempre di più anche le nostre ossa, se riusciremo a fare capire che l’uomo può ancora avere qualche carta buona dalla sua, che può essere bravo a scrivere un verso o una pagina con una lungimiranza maggiore dell’intelligenza artificiale col suo nome che seduce. Mi chiedo se davvero la scuola sia rimasta troppo indietro, con questa smania inesorabile di proiettarsi fin troppo in un futuro digitale che esiste comunque, suo malgrado. Poi penso a tutte le volte in cui una poesia fa breccia nel cuore di qualcuno, allo sguardo che scintilla quando incontra una bellezza ancora sconosciuta, penso a chi mi scrive di aver trovato un interesse vero nella vita, penso a una mia alunna che stenta in italiano eppure ha imparato da sola a scrivere poesie in turco, penso ai ragazzi che s’illuminano talora davanti al racconto di cose antiche e favolose. Sì, forse la scuola serve ancora, se scava dentro i cuori e chiede a chi ascolta di coltivare nuovi e umanissimi amori.                                                                                                    


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