POESIA ALL’OPERA – Stefania Giammillaro – “Ma il mio mistero è chiuso in me”: l’amore senza nome
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Stefania Giammillaro |
“Nessun dorma” è senza
dubbio una delle romanze più conosciute della altrettanto celeberrima Turandot, ultima opera lirica composta
da Giacomo Puccini, ultima e
lasciata incompleta dallo stesso, che spirò prima di terminarla a Bruxelles per
un tumore alla gola che lo vinse all’età di 65 anni.
Ed io credo non sia un caso
che la Turandot sia stata interrotta
proprio all’indomani di quell’alba dove Calaf avrebbe vinto l’amore e
sull’amore appena conquistato. Calaf, il
protagonista principe ignoto, l’unico in grado di risolvere il rito dei tre enigmi orchestrato dalla
bella principessa Turandot, figlia
dell'imperatore Altoum, per
vendicare ed onorare la morte di una sua antenata, uccisa e violentata per mano
dei Tartari che tempo prima avevano
invaso il suo Regno. Turandot promette
dunque a se stessa che non si sarebbe fatta mai possedere da un uomo,
assurgendo a Sfinge dalla soluzione impossibile; ma Calaf, sciogliendo un
enigma dietro l’altro, la trascina in un vortice di incredulità e disperazione. Da qui, il patto/sfida: Calaf
sarebbe stato disposto a scioglierla dal giuramento che la vorrebbe sua sposa,
avendo lui risolto tutti gli enigmi (e scampando, per l’effetto, alla morte
certa per decapitazione) se Turandot
avesse a sua volta indovinato all’alba il suo nome. Quale amore, senza nome?
Esistiamo anche se non siamo chiamati per nome? Se qualcosa esiste solo se pronunciata ha già costituito motivo di riflessione, in occasione della recensione da me curata su Prove per Atto Unico (Macabor, 2023) della meravigliosa Maria Benedetta Cerro che potete trovare al link di seguito: "Ché la pace è cosa da nulla se tu vivi in pace” - Stefania Giammillaro su “Prove per Atto Unico” di Maria Benedetta Cerro Da quello spunto ci si muove
adesso verso una nuova direzione dal sapore esistenzialista, che mutua dall’IperUranio delle idee per tentare un
diverso approdo poetico. Invero, già nel Cratilo di Platone (che, non a caso, reca
come suo secondo titolo Sulla correttezza
dei nomi) si mette in scena un dialogo filosofico tra gli illustri Socrate, Ermogene e Cratilo stesso, dove assume rilievo la posizione
di Socrate, che si oppone
all’unificazione tra piano ontologico e piano logico, ossia tra “l'essere e ciò che si dice sull'essere”,
sostenuta da Cratilo.
Secondo Socrate, non vi è identità tra la cosa e il nome cui la cosa si
riferisce, ma solo somiglianza, in
ossequio al carattere “simbolico” che riveste il linguaggio; tale per cui, in
base all’esperimento mentale proposto dallo stesso Socrate, “se un dio creasse
un'immagine di Cratilo senza
limitarsi a riprodurne solo la forma e i colori, come un pittore che dipinge un
ritratto, bensì facendone una copia esatta in tutte le sue parti - il suo
corpo, ma anche il movimento, l'anima e la ragionevolezza” si otterrebbe un
secondo Cratilo, non la copia fedele
dello stesso. Ma la non identità tra nome
e cosa esistente o esistita, è sufficiente a svincolare il riconoscere un amore
dal nome dell'amato/a? Se Turandot non indovinasse (e non lo sapremo mai) il nome di Calaf,
restando, dunque, votata al suo giuramento, il principe ignoto potrebbe dirsi
comunque vittorioso dell’amore così conquistato, o meglio, “indovinato” e che
non saprà mai il “nome” cui indirizzare quel sentimento? Quale vittoria, in un amore
che non ti riconosce, che non pronuncia il tuo nome? E’ finzione forse? Forse è
maschera che si cristallizza, muovendo dal flusso vitale magmatico che ci
fossilizza nel quotidiano di un amore che non (ci) crede. Concezione questa che
dalle maschere pirandelliane palleggia in epoca quasi del tutto contemporanea
con l’idea di amore racchiusa in The Map
of Love dell’immenso Dylan Thomas (Swansea, 27 ottobre
1914 – New York, 9 novembre 1953).
O fammi una maschera e un
muro per celare alle spie dei tuoi occhi aguzzi e
smaltati, dei tuoi artigli occhialuti, lo stupro e la rivolta negli
asili del mio volto, un bavaglio d’albero
ammutito per sbarrare ai nemici scoperti la lingua-baionetta di
questo inerme oggetto da preghiera – la presente bocca – e la
tromba delle bugie soavemente suonata; dammi un contegno da stolto
foggiato in vecchia armatura e quercia per proteggere il cervello
brillante e ammansire gli ispettori, e un lutto vedovile rigato
di lacrime che cala dai cigli per velare la belladonna e
mostrare agli occhi secchi come altri tradiscano le
lagnose bugie delle loro perdite dalla piega della nuda bocca
o da un sorriso dietro la manica. (O make me a
Mask and a Wall – da The Map of Love
– Dylan
Thomas, La mappa dell'amore. Poesie e Prose, a cura di Federico Mazzocchi, Passigli, 2024 ) “La vita deve uscire dal centro; - sostiene Thomas - l’anima deve nascere
e morire in un'altra; e ogni mia sequenza di immagini deve essere una sequenza di creazioni,
ricreazioni, distruzioni, contraddizioni” fino al punto di amare per indole
di auto-distruzione: […] Mi fabbrico un’arma
da uno scheletro d’asino e percorro le sabbie
tumultuose presso il paese morto, randello l’aria
immensa, distruggo l’est, abbatto il tramonto, avvolgo il suo cuore
frettoloso, ne appendo con vene mozzate l’involucro contorto
e lascio che lei serri le palpebre. La distruzione, colta
dagli uccelli, raglia dalla mascella, e, a causa di
quell’assassinio, nero di contagio come un’onda
incombente mi spando nella rovina. […] (estratto da I
make this in a Warring Absence – Scrivo questo in un’assenza tumultuosa
- da The Map of Love – Dylan
Thomas, La mappa dell’amore.
Poesie e prose, a cura di Federico
Mazzocchi, Passigli, 2024) Vi è un rischio fondato nell’essere
innamorati dell’amore a prescindere dal “chi”: si finisce col restare schiavi di se stessi,
avvinti da quell’idea riflessa sul lago, che come allucinazione materializza di
fronte agli occhi una sorgente in mezzo al deserto e ti affoga dentro il bosco
di Narciso.
questa
lugubre mania di vivere
oggi
ti sei guardata allo specchio
manderai
messaggi sorriderai
odi
la demente sirena che lo rubò
ti
rodono i giorni t’incolpano
le notti ti
fa male la vita tanto tanto disperata,
dove vai? disperata,
nient’altro!
(L’innamorata di Alejandra Pizarnik, Poesia completa, LietoColle, 2018, a cura di Ana Becciu, traduzione di Roberta Buffi) “Innamorata, innamorata, nient’altro!” potremmo aggiungere a questo grido di dolore che rimane vuoto, senza eco, trascinato dalla grandezza verticale di Alejandra Pizarnik (Avellaneda, 29 aprile 1936 – Buenos Aires, 25 settembre 1972) sola a se stessa con quest’amore senza nome né ragione. Ma, forse, residua ancora un
sibilo di speranza racchiusa nella Passeggiata notturna del maestro Rainer
Maria Rilke (Praga, 4 dicembre 1875 – Les Planches, 29 dicembre 1926)
Niente è paragonabile.
Esiste forse cosa che non sia tutta sola con
sé stessa e indicibile? Invano diamo nomi, solo è
dato accettare e accordarci che forse qua
un lampo, là uno sguardo ci abbia sfiorato, come se proprio in questo
consistesse vivere la nostra vita. Chi si
oppone perde la sua parte di mondo. E chi
troppo comprende manca l’incontro con l’Eterno.
A volte in notti grandi come questa
siamo quasi fuor di pericolo, in
leggere parti uguali spartiti fra le stelle.
Immensa moltitudine. (Da Non a te nudo amore, poesie d'amore scelte da Massimo Recalcati e Nicola Crocetti , traduzione a cura di Giacomo Cacciapaglia, Crocetti editore,
2024) Allora non è dell’amore in
cui si perde la cognizione del sé cui dobbiamo aspirare, ma a quello che vibra
verso l’Eterno, lì dove siamo, o meglio, torniamo ad essere un’unica anima nel
sentimento che intreccia spartiti fra “tramontate” stelle, allineati alla nostra primigenia essenza, sospirando quel bacio che dal silenzio sussurra ossigeno di vera vita. […] Ma
il mio mistero è chiuso in me […] |
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