"Ché la pace è cosa da nulla se tu vivi in pace” - Stefania Giammillaro su “Prove per Atto Unico” di Maria Benedetta Cerro

 

a cura di Stefania Giammillaro

Atto unico è la storia individuale, che a tutti è dato di vivere e rappresentare

Maria Benedetta Cerro è voce straordinaria all’interno del panorama poetico italiano contemporaneo e non lo affermo con il rischio di scadere in banale piaggeria, perché dalle pagine della sua ultima silloge “Prove per atto unico” edita da Macabor nel 2023, con prefazione di Tommaso di Brango, è palpabile un acume poetico indiscusso, sapientemente calibrato da un’attenzione nello sguardo e da un’elevata, e al contempo delicata, capacità di scuotere lo scandaglio, che, di certo, non passa né può passare inosservata.

La parabola di quest’accorgersi si dischiude generosa per noi sin dall’inizio, quando, in apertura della silloge, suddivisa in sei sezioni (Versi della malapena; La mala hora; I luoghi dei labirinti; Tentativi di riconoscimento; La casa dell’armonia; I giuramenti del vento) l’autrice ci regala un vero e proprio manifesto di laetitia addentellata nella consapevolezza della involontarietà della vita, nella non-scelta di venire al mondo accolta nella “Città poetica”.


C’è una vita involontaria

parallela all’azione e alla ragione.

Vi si accede ad occhi chiusi

e il versante è al buio .

E’ la città poetica

con i suoi labirinti e l’io errante e solo.

Non vi risiede l’invisibile, ma l’indicibile.

Nessuna differenza

tra il sembrare e il morire.


L’acme si intercetta allorché si affronta la tematica da annoverarsi, a mio avviso, tra le principali, che attraversano trasversalmente l’intera raccolta poetica e che può sinteticamente racchiudersi nel duplice sintagma: “si esiste solo se pronunciati”.

E’ una verità ontologica, appartenente alle viscere della dimensione umana e manifestata nel suo miracoloso stupore già ai tempi di Dante, quando, nel trentesimo canto del Purgatorio, giunge al punto nodale del suo percorso spirituale, approdando al Paradiso terrestre, ove si assiste al “passaggio di consegne” nel ruolo di “guida” dalla Ragione alla Teologia, da Virgilio a Beatrice, la quale lo chiama per la prima ed unica volta per tutto il poema per nome:

Dante, perché Virgilio se ne vada,

non pianger anco, non piangere ancora;

ché pianger ti conven per altra spada”.


Dante è chiamato per nome e torna a sé, recuperato nella sua essenza, nel suo esserci.

Così Maria Benedetta Cerro ci consegna questo tremendo ed autentico dato di fatto  versificandolo nel suo stile sublime, ma asciutto, che mira al credo in cui cammina, naviga, viaggia e si scopre anche attraverso la scelta ad hoc sul dove collocare topograficamente il verso e/o la parola nello spazio messo a disposizione dalla pagina o forse, rapito dall’autrice stessa.


Rendimi esperta del sentire più profondamente.

Forzare la lama

perdere gli occhi/fino alla visione.

Dare un nome a tutto questo

perché solo ciò che ha nome/esiste e vale.

Ha diritto alla nascita

ciò che è battezzato dalla lingua.



***


A voce alta/o con un sussurro?

Nel baccello dell’alleanza

si parla al singolare

pur essendo in tanti.

Una casa dalle porte strette

inadatta alle fughe

ma spalancata all’ingresso della morte.

Una condizione in cui

non la perdita si geme del respiro

ma del non poter mai più parlare.


***


Che nessuno si ricordi/ di questa porta.

Una cosa/anche/vuol star sola

non cigolare più

non vedersi attraversata

lasciare imbrunire la maniglia

restituire passaggi

lavare impronte con la polvere

che ha bendato il respiro

accecato in bocca le parole

che avremmo potuto ancora dire.


La ragione del “non-detto”, fin qui riportata a titolo esemplificativo nei versi più rappresentativi di questo fil-rouge, si conclude nell’ultima pagina divenendo vertice mistico – spirituale, in cui convogliare le equazioni in formula biunivoca: silenzio=morte e morte=rinascita.


Non parlai quel giorno

che in forma di sospiri

Mi abbandonò la lingua.

Se ne andò

con lamenti disarticolati.

Poi fu silenzio.

Adeguai il gesto alla posa dei morti.

Amai la compostezza

Fui occhio/bocca

mano di mio padre.

Perdemmo insieme tutte le rughe.

 

La poesia della Cerro si presenta come analisi antropologica sul divinarsi dell’uomo attraverso lo scorcio della ferita. L’uomo è soggetto centrale dello scrutare dell’autrice, l’obiettivo cui tendere nel suo scavare poetico come il minatore di Caproni, che s’individua nell’argomentare, ragionare su come dal dolore originario non ci si possa affrancare, ma, solo rispettandolo, si impara a conviverci. Si tratta, insomma, dello studio che esamina un’altra traccia del paesaggio umano: la c.d. “ferita originaria”.


Cos’è l’autentico

se non il ritrovamento de se stesso ignoto?

Comprendere che il tempo è mutamento

e chi eravamo non siamo.

Tentare un ritorno alla ferita

che si crede guarita

trovare il punto infetto

e senza esitazione andare a fondo.

Il sangue/il vivo grido del sangue

il vero sangue

il vero grido.                                   – Il vero – 



***


Negli anni le ferite s’inventano

inversa guarigione.

Ora son quelle della carne che risanano

lente/o affatto guariscono.

Un tempo i tagli/le abrasioni/le fratture

tornavano in fretta alla salute

sprezzante/avventurosa.

Ma le ferite invisibili che ora son lievi

e lasciano graffi come di sabbia

troppe volte incisa e ricomposta

al tempo dell’infanzia

erano ustioni.

Marchiavano l’anima a ghiaccio e brace.

In tutto questo studio dell’accorgersi, in questo non-luogo dove esisti solo se pronunciato fino al silenzio della morte che consente la rinascita, nella ferita originaria che brucia dalla sabbia dell’infanzia più volte “ricomposta”, qual è, infine, il ruolo riservato alla poesia? Considerato, peraltro, che la poesia è canale cui accede il tumulto, ma qual è il posto ad essa assegnato?

Ebbene, la poesia serve come mezzo, ma il fine è cieco ancora per ricomporsi in un nuovo liberatorio battito di salvezza.

Io ti prometto

ciò che non mantengo

- paesaggi spergiuri delle mie stagioni

nodi d’intese e di contrasti

aperture di abbracci e ritrosie –

Tu vedi un corpo

dall’armonia perduta

il verso mortificato dalle sue cadute.

E’ questione di lingua anche la vita

Va dove vuole

e come vuole canta

- a se stessa fedele anima distante –

 

***


Ti scriverò una lettera – lunga e senza nome –

che ti arrivi in fronte come un tuono.

Un cuore di spine

con la fiamma al centro

ti bruci le mani con la sua scrittura.

Sì – ti chiamai –

e non mi rispondesti.

Nulla volevo

solo che leggessi

e la tua trovassi scarna parola.

Ossi spolpati sono questi versi

uncini senz’esca

per ospiti senza benvenuto.

 

Dopo aver letto ed approfondito “Prove per atto unico” di Maria Benedetta Cerro non posso che desiderare di concludere con un invito: leggete poesia, arricchitevi di bellezza, siate curiosi di un oltre ancora inesplorato.


Prove per Atto Unico - Maria Benedetta Cerro - Macabor, 2023


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Maria Benedetta Cerro

Maria Benedetta Cerro è nata a Pontecorvo (1951) e risiede a Castrocielo (Frosinone).

Ha pubblicato: Licenza di viaggio (Premio pubblicazione, Edizione dei Dioscuri 1984); Ipotesi di vita (Premio pubblicazione "Carducci-Pietrasanta", Lacaita 1987), nella terna dei finalisti al Premio Città di Penne; Nel sigillo della parola (Piovan 1991); Lettera a una pietra (Premio pubblicazione "Libero de Libero", Confronto 1992); Il segno del gelo (Perosini, 1997); Allegorie d'inverno (Manni 2003, nella terna dei finalisti al Premio Frascati "Antonio Seccareccia"); Regalità della luce (Sciascia 2009); La congiura degli opposti (LietoColle 2012), premio "Città di Arce"; Lo sguardo inverso (LietoColle, 2018); La soglia e l'incontro (Edizioni Eva 2018).


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