INTERMITTENZE - Alba Gnazi - E io accendevo

 

Alba Gnazi



I ricordi sono essenze olfattive, tattili, sonore. Sono escrescenze mnestiche visive, concettuali eppure concrete; depositate in qualche ansa del cervello: e del corpo.

Qui, ad esempio, qui sul fianco c'è ancora la mano calda di mia madre, che mi ninna cantando. Nell'intestino c'è il commento sgradevole di un viso senza contorni; in bocca ho la voce di nonna, mista al sale e al pomodoro cosparsi sul pane, mentre sotto alle costole conservo i sussulti del singhiozzo amniotico di ognuno dei miei tre figli.

I ricordi sono utero e vulnus, custodiscono e frustano, impastati come sono di opportunità e allegrie, di vergogne e vittorie, di amicizie e paure, di poesie e armonie e canzoni e brividi irrecuperabili. A volte sono i sogni inconfessati, i rimorsi, le ipocrisie e le mancanze che profondamente squarciano, contraddicono e rivelano, e diventano acne, carie, pesantezza alle gambe, lacrime improvvise, rughe. Ogni ruga proclama gioie lancinanti, dolori inesauribili, scorte di speranze lasciate e poi riprese, date indietro oppure modellate, ognuna con un nome, con un verbo, con un battito endocardico specifico. Alcune, di speranze, le vedi tumultuare, fitte e sorprese, sulle teste leggere di chi è felice senza saperlo. A volte penzolano dentro uno sguardo, sfiatano da un malumore, strusciano piano nel passo come porte socchiuse, mosse appena dal vento, o come le voci nei ricordi, o come i ricordi, che sciamano giù da un versante di lato al giorno, e alle cose da fare, e alla forza da costruire ogni mattina e si piazzano lì, in mezzo alle mani, sottopelle, e brulicano. Scolpiscono.


Qui ora ce n'è uno che mi strappa alle faccende quotidiane, alle lezioni da preparare, alle incombenze e alle evenienze, che mi sibila: Vieni. Che mi seduce: Senti.
E lo vedo, sì. Lo vedo.

Lì, tra le canne, al limitare del fosso, armeggiava concentrato tra tubi di metallo e attrezzi e rumori, non più ombra, proprio lui, che Accènni, mi diceva. Accendi.

E io accendevo.

Camminare tra le zolle appresso a mio padre richiedeva cautela, mosse decise e precisione, come il ripetere "zolle", girando tra lingua e palato quel nome che spiegava il tempo impiegato dalla terra a diventare fango e grumo dopo che Babbo ‘ndacquava’. Il blocco terroso aveva duplice consistenza: più scuro era duro, più chiaro pestavo, ricomponevo nella terra la poltiglia, addensata prima e sfaldata poi, su cui spuntava, tra dita di alianto, qualche esile margherita.

Tornavo di tanto in tanto a cercare la schiena di papà, tenendogli dietro nel labirinto di spighe di cui lui sapeva, per istinto e fatica, la rotta e il confine.

I filari del grano parevano spiccati alla luce: su in cima piegavano il sole, traducevano gli intervalli tra i passi in ombre fatue e frescure. Misuravo il mio passo con quello di papà, sommavo sbuffi e occhiate al controluce tra le fronde.
Quando arrivavamo al limitare tra campo e fosso correvo a infilare i piedi nel rivo ghiaccio, rabbrividivo, ridevo.

“Accènni”, ordinava papà e io mi affrettavo a tirare il timone rosso che azionava l'impianto.
L'acqua inondava in balzi, crocicchi e puntilli le spighe sguainate su su.
Papà girava tra i filari per controllare che ogni fusto venisse annacquato.
Tornava zuppo e, sempre senza parlare, staccava un tubo da uno degli allacci, lo sciacquava con la sua stessa corrente e me lo porgeva: “Tie', bevi”.
L'acqua scorreva in gola gelida, saporita, profumatissima.
Papà si sperdeva nel terreno coi suoi attrezzi. Io restavo seduta coi piedi nel rivo. Rapidissimi girini ruotavano tra le caviglie. Cercavo di acchiapparli, di metterli in fila. Ne perdevo il conto ogni volta.



Commenti

  1. Un modo originale di pensare ai ricordi, una scrittura limpida. Grazie , Carmen Llammar (Carmen Lama)

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    1. Grazie di cuore per la lettura e l'attenzione data alle mie parole, un cordiale saluto! A.G.

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