PLANCTON - Silvia Longo - CHE DI ME RESTINO ALMENO LE PAROLE Intorno a “VANI” di Melania Valenti (Bertoni Editore, collana Poesia Mundi, 2025)
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| "Vani" di Melania Valenti, Bertoni editore, 2025 |
A
volte mi pare che troppo, o troppo poco, ci si interroghi sulla poesia. Sulla
sua essenza e sul valore da attribuirle. Sul perché la si scriva e la si legga
e, il più delle volte, sulle ragioni per le quali si avverta la necessità di
renderla pubblica, che si tratti di post su social e blog o di carta stampata.
E soprattutto, vista la pratica diffusa di cimentarsi in versi, spesso ci
ritroviamo daccapo a cercare una definizione, durevole e condivisa, di poesia.
Ma è
un po’ di tempo che accuso il colpo. Di riconoscermi tanto ignorante quanto
stanca di rincorrere e decifrare a ogni costo, nel quotidiano, il senso di ogni
fatto e della singola parola, di offrire la miglior definizione a quanto vivo e
leggo. Filtro quanto sono in grado di accogliere e tollerare, custodisco le
poche cose e contingenze che non confliggono con la mia sensibilità. Sviscero,
nel caso, questo sì, cercando la confluenza tra le acque emissarie e quelle
immissarie. Controllando, lungo l’argine, il limite oltre il quale il fiume
esonda. Ci arrivo più spesso di quanto vorrei. A traboccare, o a sentirmi
invasa. Ma poi rientro nella misura scritta in chiave, seguendo ancora e sempre
il mio ritmo e il mio gusto personali.
Accostarmi a “Vani”, uscito lo scorso
marzo per Bertoni Editore, Collana Poesia Mundi a cura di Simona Volpe,
significa farmi prossima al mondo tutto dell’autrice, Melania Valenti,
persona e poeta avvinte tra loro in modo indissolubile, come la vita stessa
della quale ella scrive mai è disgiunta dai suoi versi. Questo sincero entrare
nel merito di vita e poesia, costituisce il primo codice di accesso alla
fruizione del suo universo, umano e letterario. E mi conduce a percorrere il
sentiero da lei tracciato in modo netto, negli anni, con l’assiduità mostrata nel
frequentare e diffondere la poesia: mi riferisco all’impegno profuso sui
social e su Finestre Lit-Blog, dove Melania Valenti sa, in modo
informale e per nulla infiorettato, creare occasioni poetiche. Con le sue
rubriche di approfondimento; con un generoso lavoro di scouting proteso a dar
spazio a voci inedite; con le sue letture irregolari: brevi video nei
quali Melania, come ella stessa spiega, “scompigliata, irregolare, non
assolutamente precisa nella lettura” propone letture improvvisate di poesia,
“fatte quando io ne possa avere possibilità, in qualsiasi momento del giorno e
della notte”.
Il suo approccio poetico a tutto tondo, da
artigiana oltre che da intellettuale, il suo mettersi a disposizione dell’arte
sporcandosi, letteralmente, le mani, emerge con chiarezza da “Appunti di
Versi”, collana di nove volumetti scritti in parte a mano, e confezionati
artigianalmente, con illustrazioni di Assunta Migliaccio. Una raccolta di testi
volutamente lasciati così come sono nati: spontanei e liberi di aggiustamenti.
Un esercizio, a me pare, di verità nuda,
condotto con coerenza e alla costante ricerca di un dialogo con il lettore. La consegna
senza infingimenti della propria sensibilità a chi ne voglia fruire, nel
rispetto della reciproca libertà. “Vani”, come suggerisce il titolo, è una somma
di ambienti e oggetti semantici – che si tratti di armadi, di segni
sulle pareti, dI finestre che creano giochi di luce o di uno spazio aperto. Una
dimora nella quale si soggiorna non sempre in via definitiva (il ritorno ai
luoghi del passato è uno dei temi della raccolta). Una serie di luoghi e cose
che in qualche modo cantino il sentire dell’autrice, o che suonino in
contrappunto a esso.
La prima sezione del libro, Armadi,
porta questa didascalia: Dove trovare il mondo di ognuno. Spinti
dall’assenza fisica, ho pensato, dalla nostalgia di chi abbiamo perduto, procedere
a ritroso cercando un tempo altro, o un altrove denso di ogni presenza
tangibile, là dove l’abbraccio paterno costituisce l’opportunità di essere
figlia, ma soprattutto di essere riconosciuta tale, di essere riconosciuta
nella pienezza del sé:
Che quando correvo
incontro al tuo
sguardo
l’abbraccio dell’aria
sfamava la corsa.
E tu mi dicevi
abbracciati a me.
La
figura paterna, descritta con amore commovente, quel genere di amore che
presuppone la vera intimità del sapersi, dell’essersi capiti profondamente a
vicenda, emerge in molti versi della raccolta. Un padre che cantava e rideva,
e nonostante le streghe lo abbiano punito con le lame per quell’approccio
gioioso, continua a cantare. Non si può rinchiuderlo nella sequenza
regolare di una inumazione, colui che ancora nel sogno sorride/ di ciò che
non dico. O che affiora dall’acqua per una carezza e tutto si placa,
tutto / raggiunge il suo nido. Per questo si vive, / per nulla di più.
E
poi accogliere il testimone e diventare genitori a nostra volta, e nutrire come
noi stessi siamo stati nutriti, sfamare d’amore: la mano si appende
al mio seno / lo stringe di fame. Momenti di grazia a far da frangiflutti
alla consapevolezza dell’impermanenza.
Quanta forza ci vuole
Per accettare di
essere fragili.
Di essere figli.
Di essere alberi.
Della
sezione Lenzuola, mi hanno colpito i rimandi all’amore intimo,
anche carnale, che spesso pretende un sacrificio.
Tutto il dolore
Che mi stai donando
Come nettare divino
Va mutando.
In amore per te
E per me in pianto.
Una
sorta di Deposizione del Cristo, dalla Croce alle braccia della madre. E, al
contempo, del resto sempre di passione si tratta, il momento in cui la
carnalità diviene offerta votiva di liquidi versati al culmine del sentire.
E se in altre poesie di Melania ho colto una significativa e gratificante connessione
con la natura, soprattutto con il mare (altra rappresentazione di un passato
felice, e delle persone care che lo hanno popolato) in alcuni versi di questa
sezione ho vissuto la natura, a tratti, come una spettatrice indifferente,
perché in se stessa perfettamente compiuta.
In ginocchio alzo
In alto le braccia
E invoco il tuo nome.
Grido in silenzio.
Non si turba il pulviscolo
Di un raggio di sole.
Di segni sulle pareti, è forse la sezione della raccolta che più mi ha commossa. Ricorre il tema della memoria, e della sua labilità. La necessità di parole scritte per far fronte al vuoto di senso, per ostinarsi a preservare ciò che potrebbe andar perduto nella corsa del tempo:
Ci sono momenti
in cui tutto si perde.
E tutto rimane,
tutto nel fondo
profondo del niente.
A tratti, affiora persino una vena di
nichilismo, che l’autrice sembra però voler medicare con una affannosa ricerca
di mare, eterno movimento e rinascita, flusso d’onda e respiro che infonde
quiete momentanea
Sono una fiamma lenta,
borgo diroccato,
feritoia che dà casa
a un fiore.
Sono silenzio – più delle parole –
onda di riporto,
sinfonia del mare.
con l’urgenza di asciare un segno negli
altri, per non essere dimenticati
Non siamo ciò / che siamo. Siamo / ciò
che negli altri restiamo.
e
accogliendo il segno-ferita che gli altri – amati – lasciano in noi.
Indelebili. Se si ama, così accade. Nonostante il tempo, che logora i luoghi e
gli oggetti, e la nostra capacità di resistere.
È nel ricordo / L’unica grandezza / Che
rimane.
Cerchi
di luce dalle finestre, a conclusione del libro, è la parte in
cui ogni riconciliazione pare possibile. Della stagione fredda con
quella calda, anche e soprattutto sotto metafora; del tempo giovane con quello
maturo; della fulmineità esistenziale con la consapevolezza del bello e buono
che ogni giorno reca. In questi versi, la frizione tra realtà e aspettative è
dolcemente diluita in acqua di mare, vento propizio all’impollinazione, frulli
d’ali, stelle in un cielo-grembo, nubi che pure non offuscano il sole, sole
che persiste. I testi contenuti in questa sezione, in particolare, per
forma e contenuto, mi hanno fatto pensare alla poesia giapponese. Agli haiku,
soprattutto, nei quali si cattura un fotogramma (quasi sempre di un qualche
minimo evento naturale) e da lì si giunge a suggerire qualcosa di personale, al
lettore, in un processo di distillazione del verso: similitudine, nei fatti
della vita umana, ai cicli stagionali; coscienza della transitorietà di tutto
ciò che vive sotto il sole. Ma senza disperanza.
La
pioggia farà il suo corso, / il sole non staccherà le sue radici.
E,
come il titolo della sezione suggerisce, il cerchio aperto a inizio libro si
chiude, a imitazione dei cicli naturali.
Io sono mare.
Eterno divenire
per rimanere.
La poesia di Melani Valenti è senz’altro
sanguigna, ma altrettanto densa di una spiritualità personale. Se
per un verso esprime dolore anche fisico per l’assenza di chi ha abbandonato
questa vita, dall’altro è capace di riconoscenza per quanto di bello si è
ricevuto, e ora va custodito e tramandato. Con il culto amoroso dei Numi
familiari, la cura delle vite giovani, la manutenzione necessaria al cuore,
attraverso la parola, e una armonizzazione del sentimento con gli elementi
naturali.
È inoltre pervasa da una irrequietezza
intelligente e da una continua ricerca di significato: disordine per
ordinare.
Tempo
fa, una persona saggia mi ha detto: ho capito che nella vita conta solo una
cosa. Vivere tutto, anche il dolore, con passione. Credo che Melania, donne e
poeta, viva proprio così. Permettendo alla vita di raggiungerla, ovunque ella
si trovi, e in qualunque frangente. Offrendole anima e corpo. Con l’onestà e il
coraggio che la contraddistinguono, cantando senza mai glissare. Senza abiurare
la vita stessa, nonostante tutto ciò, come ben sappiamo, abbia un costo. Forse
è questo il viatico di cui ella stessa parla, nella prefazione; il suo dono al
lettore. Un’offerta poetica di autenticità.
Permettere passi
sopra il petto scarno
a tutti dire a tutti
pestare coi tacchi
e continuare a
camminare.
Offrirsi pasto al
giudizio
senza dare a vedere
come si diventa
piccoli
dopo poche parole.
A Melania dedico questa canzone di Paolo
Benvegnù. Una carezza.


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