IL DIARIO DI DAFNE - Ester Guglielmino - Il filo di Dio

 

di Ester Guglielmino



La speranza è piombo

fuso in fondo al cuore,

è la lama di Dio, sepolta

dentro un vuoto d’amore.



Ci coglie quasi sempre di sorpresa l’idea di Dio, annidata tra reti di sinapsi che allungano tentacoli nel buio, come tele di ragno fatte e disfatte di continuo. Il rumore del mondo si placa all’improvviso e un profumo d’incenso t’inebria i sensi di memoria antica, una dolcezza nuova ti dischiude al senso misterioso delle cose. Allora ogni forma si anima di vita, il reale viene a patti col senso riposto delle cose, il dolore promette risarcimenti eterni, talmente grandi da non poterli contenere col pensiero.

Provo una profonda invidia per chi si porta dentro al cuore questa sospesa luce, questa speranza sottile soffusa di parola, questa proiezione futuribile che permea di sé la dimensione dell’attesa. Così mi ritrovo a cercarla di nascosto, in certi momenti privilegiati di stupore, come qualcosa di perenne e di smarrito assieme a una purezza giovanile di pensiero. E allora mi sembra d’averlo consumato lento questo dono come cera calda d’una candela sempre accesa, a un certo punto la luce è diventata fioca e ho cominciato a scambiare fumo sottile con calore. Sarà che mi capita meno spesso di pregare, di confessare ai miei pensieri di aver ridotto a fiammelle i fuochi accesi in fondo al cuore; sarà che le speranze scemano pian piano e si distorcono col tempo come le sillabe finali delle preghiere più remote, quando cedono il passo al ritmo confortante dei rosari. Sarà che per pregare bisogna imparare a tralasciare l’animale che vive sulla terra e ad aprire l’anima al bianco d’una pagina priva di immaginazione, rimettere tutto all’opera d’uno scrittore superiore, convincersi che non si è mai veramente autori di un cammino ma solo comparse d’una regia capace d’orchestrare l’infinito:

Se parlo per i morti, devo lasciare

questo animale del mio corpo,

devo scrivere e riscrivere la stessa poesia,

perché una pagina vuota è la bandiera bianca della loro resa.

Se parlo per loro, devo camminare sull’orlo

di me stesso, devo vivere come un cieco

che corre attraverso le stanze senza

toccare i mobili.

Sì, vivo comunque. Attraverso le strade chiedendo “In che anno siamo?”

Posso danzare nel sonno e ridere

davanti allo specchio.

Perfino il sonno è una preghiera, Signore,

io loderò la tua pazzia, e

in una lingua non mia parlerò

di musica che ci sveglia, musica

nella quale ci muoviamo. Poiché qualunque cosa io dica

è una specie di petizione, e i giorni più bui

li devo lodare.

[Ilya Kaminsky, Preghiera dell’autore da Danzare a Odessa, La nave di Teseo, 2023]

Ricordo ancora quando lessi la prima volta questa poesia di Kaminsky, ero sugli spalti del teatro greco di Siracusa e aspettavo che iniziasse l’Edipo re di Sofocle; aspettavo, insomma, che tornasse a prendere corpo, con millennaria dedizione, quella distanza enorme che separa la contingenza umana dalla divina perfezione. La notifica di un mio caro amico - cui dovrò sempre il dono di letture assai preziose - distendeva a dismisura lo spazio di sospensione della pagina; Dio e l’uomo mi s’incontravano intorno per dissertare sull’ignoto; tra la folla, la magia religiosa d’un silenzio solitario mi soffiava incanto sulle tempie come vento.

I giorni più bui li devo lodare” così Kaminski, divenuto sordo a soli quattro anni, imparava a riempire il suo silenzio di voci sterminate: quelle del suo popolo e del suo paese sfortunato, cui il poeta si stringe come un’unica famiglia sconfinata, voce accolta e al mondo, per sua interposta persona, riferita. Per questa strada il danno può farsi rinascita secondo una nuova prospettiva. Forse, l’idea di Dio da custodire è proprio questa: imparare a lodare il buio al pari della luce, a chiamare assieme bene e male a condividere il nostro destino di creature temporanee. Così c’è chi riesce a dare un nome eterno a ogni esperienza di gioia e di dolore, c’è chi riesce a trasformare in Dio ogni granello di polvere sul cuore:

 

Tutto, Signore, ti offro

di questa scacchiera impazzita:

le ore, la derelizione,

e queste mie forti paure.

Tutto, Signore, ti apro

dentro il mio liquido cuore,

che smuove, che sugge,

che vuole – senza sapere

per quanto o sin dove...!

[Miriam Bruni, Tutto, Signore, ti offro da Concentrati sul cromosoma celeste, Controluna,

2022]

 

Concèntrati sul cromosoma celeste recita il titolo d’una raccolta riposta col garbo delle cose preziose sopra il comodino, in copertina porta il nome d’una poeta amica e ogni sua pagina m’è subito parsa pervasa da un senso di epifania sospesa, dalla fiduciosa attesa di un ristoro. Perché l’idea di Dio vuol pure dire saper tornare indietro, fino all’idea bambina d’un palpito irrazionale della vita; vuol dire abbandonarsi, come si faceva un tempo, lasciandosi cadere fra le braccia tese del compagno di giochi più sincero. È gridare: “Prendimi” - senza la preoccupazione di voltarsi indietro:

 

Prendimi

come fa il sole

quando

possiede la siepe

e ne muta

finanche il colore.

[Miriam Bruni, Prendimi, Ivi]

 

Esala da queste poesie un calore che appartiene alla sfera quotidiana; un Dio lontano - si direbbe - da spinose questioni di guerre, di torture, di ingiustizie onnipresenti e reiterate, un Dio essente per natura che permea di sé ogni anelito di vita:

 

Calda di doccia

ascolto il respiro

che mi solleva lo sterno.

E penso alle mani,

alle mani

dell’Eterno

[Miriam Bruni, Calda di doccia, Ivi]

Credo che un Dio così ti chieda solo per restituirti indietro, credo sia luce che attraversa e indora finanche le inferriate, vento che ti solleva in alto e ti tramuta in potenza sinergica a ogni terracquea creatura. Quindi, resta concentràto sul cromosona celeste - sembra suggerire con sottile ambiguità di titolo la mia poeta amica - su quel briciolo di eternità che ti fa aspirare a grandi cose, perché al di là d’ogni apparenza di omogeneità banale:

Siamo chiese

affrescate

riccamente

Ma fuori

come case

nel mondo

indifferente

[Miriam Bruni, Siamo chiese, Ivi]

Che si ricami dentro l’idea di Dio? come un filo sottile che scorre veloce tra le mani, poteva essere una semplice cimosa sull’orlo indifferente d’un tessuto e invece hai pensato di farne un angelo dalle ali d’oro o un vassoio ricco di frutta prelibata o un fiore che si ripete con raffinata precisione sulla tela. Un Filo sottile può restare solo un filo oppure – ebbe meravigliosamente a dire qualcuno - portare su di sé il carico enorme di un magnifico decoro:

 

La mia fede

è un carico enorme

appeso a un filo sottile,

proprio come un ragno

appende i suoi piccoli a una tela fine,

proprio come dalla vite,

esile e rigida,

pendono grappoli

come occhi,

come molti angeli

danzano su una capocchia di spillo.

Dio non chiede troppo filo

per restare qui;

solo una venuzza

e sangue che vi scorra

e un po’ d’amore.

Come qualcuno ha detto:

l’amore e la tosse

non si possono nascondere.

Neppure un colpetto di tosse

neppure un amore minimo.

Perciò se hai solo un filo sottile

a Dio non importa:

Lui te lo troverai tra le mani facilmente

proprio come una volta con dieci centesimi

ti potevi prendere una Coca.

[Anne Sexton, Filo sottile in Il libro della follia, La nave di Teseo, 2021]

 

Bigliografia

Miriam Bruni, Concentrati sul cromosoma celeste, Controluna, 2022

Ilya Kaminsky, Danzare a Odessa, La nave di Teseo, 2023

Anne Sexton, Filo sottile in Il libro della follia, La nave di Teseo, 2021

La foto di apertura è di Miriam Bruni.

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