UMAMI, DHARMA E BARBABIETOLE - Pietro Edoardo Mallegni - Il risveglio delle coscienze e altre poesie non richieste
Dov'è la poesia quando non è su carta? Non c'è nulla di più poetico, di più umano di un interruttore collettivo che scatta. Quando milioni di voci convergono in un unico, fragoroso “NO”, quando si abbandona la tranquilla routine per scrivere una nuova, difficile strofa sulle strade; quello non è solo tumulto politico, quella è la massima forma di narrazione: l'opera d'arte creata in tempo reale dalla necessità, dove il corpo del manifestante diventa la parola, la piazza è la pagina e il rumore è la metrica. È una forma di poesia concreta, un atto di scrittura collettiva che non ammette censure. Con questo spirito, abbandoniamo per un attimo gli scaffali pieni di libri, per celebrare il linguaggio primordiale della disobbedienza.
E adesso? Adesso la penna forse dovrebbe rimanere orizzontale sul foglio e dovrei anzi staccare i miei piedi, il mio fondoschiena dalla sedia e scendere e camminare per le strade manifestando le mie idee. Anzi, senza forse. Finalmente dopo anni di sole e whisky, l’Italia, le Italiane e gli Italiani hanno dimostrato e continuano a dimostrare che non siamo solo “Il Bel Paese”, ma che possiamo essere ancora un “Gran Paese”; capace di destarsi da questo sonno cloroformizzato della dimensione civile moderna che ci rende inermi, succubi e proni, passivi nei confronti della vita, del potere e del destino. Tutta l’Italia, nelle scorse settimane, e Roma il 4 ottobre, si sono trasformate in un set cinematografico di massa. Interi quartieri hanno smesso di essere sfondi narrativi per diventare i protagonisti assoluti di una trama che non ammette repliche. La mise en scène è stata imponente. Impossibile da ignorare. Questo, amici e amiche, vale più di mille metafore ben riuscite.
La cosa affascinante è che queste manifestazioni non riguardavano la nostra bolletta o il nostro salario. Il vero collante era ed è la sensibilità civile collettiva di fronte agli eventi di Gaza. Le piazze si sono riempite perché la gente si è stancata di essere la "folla silente" sullo sfondo di una tragedia in mondovisione. Nel momento in cui l'orrore ti entra in casa, il tuo unico modo per dire che sei umano è uscire e urlare “BASTA”. Ora so che, arrivati a questo punto, molti di voi, vuoi per idee o per simpatie, vorranno premere la “X” in alto a destra dello schermo, inorriditi dai medesimi meccanismi di pensiero che ci hanno portato tutti ad accettare una sorta di dolore minimo che negli, anni esponenzialmente crescendo, ci ha resi l’esempio perfetto de “La rana e l’acqua calda”; ma queste manifestazioni, nate per un conflitto così geograficamente lontano, segnano un punto di non ritorno, un vero e proprio salto quantico nella sensibilità civile collettiva; il fatto che migliaia di persone interrompano la propria vita per una causa che non tocca direttamente il loro conto in banca (o meglio, che lo tocchi dopo aver manifestato i propri pensieri), dimostra che la bussola interiore degli uomini ha cominciato a puntare verso un nuovo “Nord”. Incorruttibile (e qui la vera paura del potere, poiché tutto ciò che non può essere smentito, deve pur avere un prezzo per essere comprato). Non è più una questione di interessi nazionali, di bandiere o di politica di partito. Un punto etico che dice: la mia umanità non ammette confine e il mio silenzio non è più in vendita. Gaza, con il suo dolore esposto, è diventata la nostra “cartina di tornasole morale”, il sismografo che misura quanto siamo ancora disposti a tollerare l'ingiustizia, quanto siamo disposti a urlare contro chi ci vuole cinici e rassegnati. La poesia della coscienza rifiuta di morire in solitudine. Posso immaginare molti di voi gridare allo scandalo, appoggiandosi ai medesimi vecchi stereotipi tra quelli che non hanno voglia di fare niente nella vita e quelli che vogliono solo spaccare vetrine. Convinto del vostro sdegno, mi duole confessarvi che le piazze sono state molto di più. Professor*, letterat*, scienziat*, politic*, operai*, student*, pensionat*, disabil* e altre migliaia che in questa pagina troverebbero solo uno spazio per una riduzione lessicale per far capire a te lettore che anche loro c’erano. Capaci di rivedere il concetto di frontiera portandola anche qua, dove la guerra sembra solo una notizia dei giornali e distruttori di quell’immagine del dissenso dal quale il potere traeva la sua tranquillità avendo di fronte un nemico ben identificato. Citando “interi eserciti e battaglioni non hanno idea di essersi già arruolati” poiché adesso il conflitto si riduce a un semplice AUT-AUT e la prima battaglia la si combatte con il proprio stomaco, poi nelle strade trasformando il proprio malessere nel rimanere indifferenti in un urlo capace di congestionare il nostro intero paese in una pausa temporale e spaziale, dove controllo e silenzio non trovano alcuna forza d’esistere. Poi, siamo onesti: se l'unico risultato delle manifestazioni fosse stato un bel servizio serale al telegiornale che lodava la 'compostezza' dei partecipanti, avremmo fallito. Il Potere non ha bisogno di applausi, ha bisogno di un appuntamento che non possa saltare e l'unica agenda che rispetta è quella del disagio. Da troppi anni la classe politica, a prescindere del colore e delle idee, vive nel tepore assopito di un sistema che filtra meticolosamente la realtà: circondata da briefing rassicuranti e da un’eco mediatica che le restituisce solo la sua immagine migliore, scambiando il proprio controllo burocratico per la vera comprensione del Paese. Il comfort e la tirannia della prevedibilità da un lato e la smentita fisica ineludibile della mobilitazione dall’altro. Un brusco risveglio da un'illusione: la scoperta che la loro tranquillità dipendeva interamente dal nostro silenzio e che, quel silenzio, è divenuto grida, cori e canti nelle piazze e nelle strade. Bello, eh? Ma la teoria finisce dove inizia il blocco. Io potrei parlarti di Hegel, Kropotkin e Kerouac per validare quanto scritto finora, ma credo che la parola vada data a chi si è preso il rischio e la responsabilità di trasformare il disagio in un appuntamento fisso, a quei ragazzi che erano e sono le gambe e la voce di questo contagio etico. <<Dello striscione ci saremo scordati fra una settimana, delle piazze forse fra due: la vera notizia è la nascita di una generazione politica che ha imparato a intrecciare la lotta contro l’“Israele globale” a tutte le cause locali. E non è una buona notizia.>> Così è stato scritto su un giornale non proprio vicino alle mie posizioni all’indomani dell’oceanica manifestazione che si è tenuta a Roma il 4 ottobre. Io personalmente, invece, credo che questa sia un’ottima notizia!
Le manifestazioni per Gaza sono state il battesimo politico che ha saputo portare in piazza migliaia e migliaia di persone, anche molto diverse fra loro, come non accadeva da decenni, risvegliate da un senso di ingiustizia immediato percepito di fronte alle immagini che ci arrivano di quello che sta accadendo in Palestina; sfido chiunque a guardare i bambini e le bambine massacrati a Gaza e la sera riuscire comunque a guardarsi allo specchio sapendo di non aver almeno provato in qualche modo a fermare tutto ciò; questo il fortissimo sentimento di "pancia" di un popolo che, di fronte alle ingiustizie, ha deciso di smettere di voltarsi dall'altra parte. Le piazze hanno saputo allargare la questione palestinese come causa più ampia e generalizzata ed è ciò che davvero spaventa chi detiene le redini di questo infame gioco. Abbiamo visto questi eventi animati da anziani, studenti, cassaintegrati, disoccupati e operai, casalinghi e filosofi. Tutti sono scesi in piazza. Una moltitudine variegata e uniforme allo stesso tempo, intersezionale così come ha saputo essere questa lotta. Un cartello in piazza recitava a riguardo <<Volevamo liberare la Palestina, invece la Palestina sta liberando noi>>. C'è chi come al solito, mentre il saggio indicava la Luna ha guardato il dito, chi ha provato a delegittimare questo movimento con un paio di vetrine rotte, dividendo fra manifestanti "buoni" e manifestanti "cattivi"; credo che vedendo ciò che accade quotidianamente a Gaza con la complicità anche del nostro Stato scandalizzarsi per due vetrine rotte sia da ipocriti.
Il grande salto di qualità apportato a questa battaglia è stato dato dai portuali di Genova: hanno fatto una cosa sconvolgente, anche per chi come me fa sindacato e movimento da una vita. Dal basso, senza compromessi, senza grandi partiti, senza sindacati slavati, hanno raccolto generi alimentari e di prima necessità e con qualche barca sgangherata hanno sfidato apertamente il blocco navale imposto da uno degli eserciti più forti, quanto prepotenti del mondo. Loro a mani nude e con immenso coraggio hanno fatto ciò che i nostri governi occidentali non hanno avuto per decenni il coraggio di fare. Basta guardare la compostezza degli attori di questa partita per capirne gli spessori, da una parte Jose, sindacalista USB, portuale di Genova, una vita di sacrifici e lavoro usurante che senza chinare mai la testa affronta con il sorriso l'IDF armato dalla testa ai piedi, dall'altro una figuretta da prima serata in televisione, balbettante, con volto chino <<il diritto internazionale vale... ma fino ad un certo punto>>. I portuali di Genova con una rete coordinata ci hanno dimostrato anche quanto il genocidio, al contrario di quanto vorrebbero farci credere, non è così distante da noi. La guerra passa dentro i nostri porti, passa dentro le nostre stazioni, nelle nostre autostrade, nelle nostre buste paga. A pochi chilometri da casa nostra a Camp Derby e in Sardegna nelle basi americane e NATO, a pochi minuti da noi nelle fabbriche a La Spezia o Firenze dove si producono armi che finiscono proprio in quei territori che ci sembrano tanto distanti. Nei porti di Genova, Livorno, Ravenna, Carrara i lavoratori hanno incrociato le braccia e si sono rifiutati di imbarcare armi. Passa dentro le nostre paghe, ogni volta che con complicità il nostro Governo decide con i nostri soldi di sovvenzionare piani di riarmo invece che investire in ospedali, scuole, salari e welfare sociale. Passa nelle nostre scuole e nei nostri ospedali ogni volta che le nostre istituzioni firmano accordi e collaborazioni con chi lucra sulla morte. La vera e sconvolgente novità di questa ondata di proteste è stata unire la causa palestinese alla causa del popolo italiano che non vuole finire a combattere una nuova guerra per interessi economici, ma preferisce immaginare un mondo diverso. Oggi a questa ondata toccherà dare gambe e organizzazione; per fortuna vedo che in tanti territori, così come avviene anche da noi, in molti e molte cercano di fare in modo che quanto abbiamo espresso nelle piazze scorse non resti un fuoco di paglia, ma divampi. Questa è oggi la nostra sfida più importante.
Elia Buffa 
Non basterebbero mille pagine per dirti tutto caro lettore o lettrice, ma vorrei salutarti storpiando un pochino le parole di Ben Bradle e dicendoti:
L’unico modo per difendere il diritto
di manifestare è manifestare. 
L’unico modo per difendere il diritto
di parola è parlare. 
L’unico modo per difendere il diritto
di libero pensiero è pensare. 
 


Commenti
Posta un commento