RONDINI - Melania Valenti su ANEDONIA di Pietro edoardo Mallegni, Nerolatte, 2025
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| Pietro edoardo Mallegni, ANEDONIA, Nerolatte 2025 |
Anedonia, titolo della silloge di Pietro
Edoardo Mallegni (Nerolatte ed. 2025), è parola dal greco, composta dal
prefisso negativo an ed hēdonē, “piacere”. Già dalla
copertina si introduce, dunque, il lettore in medias res, lo si mette al
corrente di ciò che sarà la lettura della raccolta, quanto meno nelle
intenzioni dell’autore: un mondo di scardinamento della volontà, di perdita di
interesse per ogni abito vitale, uno scrivere in assenza di piacere. Perché è
questo che suggerisce il titolo: assoluta incapacità di provare piacere nei
confronti di qualsivoglia attività che solitamente lo genera, patologico
disinteresse alla ricerca di soddisfazione, per cui “l’individuo tende a
mostrare disinteresse verso il dormire, rilassarsi e vivere: è quindi chiaro
come questa situazione porti grande malessere e disagio in chi ne soffre. Il
protagonista di queste poesie diventa così solo il naso che respira profumi, la
mano che regge il cucchiaio. Diventa una protesi degli strumenti che usa”,
dalla ottima prefazione al volume di David La Mantia.
Si leggano allora in quest’ottica
versi come:
Copio linee: vocio e insensatezze
hanno una loro aritmia./ L’ asistolia questo Natale é sentirsi,/ dimenticarsi,
con una tosse piena di sigarette/ cantare il dolce profumo di canditi, di
lenticchie e/ di tutta la Morte che ha preso residenza nell’anno nuovo. (p. 14)
O come:
mi manca il terreno e la pazienza,/
per perdermi tra questi tronchi/ e rivedere i vizi duttili/ della mia infanzia.
È una solitudine popolata da oggetti
quotidiani, dove a tratti la natura fa da sfondo muto:
Un giorno anche io scorderò come
asciugare i capelli,
e il quotidiano diverrà sofferenza di
galli e chiocce,
che canteranno il giorno come un
miracolo tra le malattie,
tradendomi, respirerò una natura che
non risponde
e case, tempo e animali saranno il
paesaggio.(p.37),
una incomunicabilità che si fa
scherno del nulla riempiendolo di parole
Nere ossa, sbianchite lische e
carapaci
sono la patria del vero idioma del
sapore,
il primo rifiuto materico cela dietro
tecnica,
fuoco e tempo la metafora diretta
tra lingua e cervello (p.50)
e dove una sorta di malinconia
gozzaniana si affaccia timida tra vita e delusione:
Le mie amanti sono queste infinite
solitudini,
danzano con i treni e cavalcano sui
ponti,
deluse si nascondono nelle piscine.
Sulla fine del bicchiere o
dell’estate,
lì si cela questa triste gratitudine (p.21),
È un niente colmato con il tutto, ciò
che si legge in questo volume ricchissimo di lemmi dal sapore e dall’odore di
cibo e cucina, ambienti che permeano vita e scrittura del “poeta-chef”
Mallegni, che davvero non può non colorare la sua scrittura con i pastelli
della propria vita:
Whisky, domanda al sesso,
carne tagliata e l’epifania
giornaliera,
ho tatuato il tuo nome sul mio cuore
e ne ho fatto una fetta per ogni
sillaba,
per offrirtelo con uova e croissant (p.56)
Mallegni fa uso di un lessico
plurilinguista, sperimenta, impiega termini tecnici, inusuali, mutuati dalla
zoologia quando non dalla medicina -asistolia, tanatosi, lepidotteri,
eliotropi, gommagutta, anosmia e ageusia, epidermide, cadmio, arenaria, sule,
carcame, dipnoi -, in un brulicare di immagini, di similitudini,
accumulazioni, con una resa vicina ai migliori autori ispanoamericani:
Una nube di Oort al posto dello
stomaco:
farina bruciata e costa alta, legni
d’autore:
viole che vibrano incessanti e
crocifissi squallori.
Buio e pontili, mari anche stasera,
la piazza arrugginisce
e le insegne ciano dei miei ricordi
cedono una lettera
alla volta;
tutto un formicolare questo odioso
abbracciarsi,
come masticare schiere di psocotteri (p.15)
Mi pare come una scorta di parole
laddove si ha fame di silenzio, una ricerca di ossimorica soddisfazione, un troppo
contrapposto al poco, dove il troppo è la continua stimolazione
ai sensi, indotta dalla rincorsa ad una vita performante e stressata dal tempo,
e il poco è la risposta emotiva del soggetto, che, annichilito, si
arrende:
Darei scacco a una luce gialla o alla
condensa,
se il vapore di fornace si mutasse in
nebbia
o in pigra pioggia del momento
peggiore,
ma tutto si riduce ad un respiro
d’acqua sullo specchio,
dove con costanza disegnare alacri
suicidi
e riflettere serene luci di vuoti
corridoi (pag.45)
O ancora:
L’eco lontana della mia bile
ti sanguina sui piedi come una
risacca
o l’amore per la lettura,
ed ora hai la mente piena di foglie
di quercia,
per portarti dietro la cachessia
della mia adolescenza scomparsa. (pag.46)
Sentiremo a lungo parlare di questo
poeta dal sentire antico, ma costretto a vivere in un mondo e in un tempo non
suoi, un uomo che urla scrivendo la sua disapprovazione verso ciò che lasceremo
ai nostri figli, forse sperando, così, che qualcuno lassù lo senta e con una
bacchetta magica rimetta a posto ciò che l’umanità ha tanto incredibilmente
sciupato.
È un mondo orribile quello che ti
lascio,
privo di poeti e sognatori, becero e
crudele,
educato a soffocarti,
mutevole, solo per tornare se stesso,
implacabile persino con la polvere.
Trova un incavo lontano,
dove regna il buio e il silenzio,
ma non indugiare, dillo alla tua
prole,
la colpa profonda, insopportabile,
di aver perso in partenza,
condannare a vita a un accettabile
dolore.
Non ho che questo da lasciarti,
oltre la glossofobia, il mio respiro
diverso,
l’amore e un suo remoto storpio senso
(p.35).


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