RECENSIRE AL FEMMINILE - Ester Guglielmino - Considerazioni a margine di Errata Complice di Stefania Giammillaro

 

Stefania Giammillaro, Errata complice, peQuod 2024


Non ti sei amata abbastanza, pensi, e la consapevolezza è goccia monotona che scava il fondo della roccia. Non ti sei amata abbastanza, dentro gli occhi, nelle spalle, nel contorno del tuo naso di profilo. Non ti sei amata abbastanza e il tempo ora sembra aver smarrito ogni alito guerriero a favore di un nodo che stringe lo stomaco e si dilata come sangue viola su per le narici. Non ti sei amata abbastanza, è vero, e forse è il caso di cominciare a farlo adesso, per davvero.

“Cos’è l’amore?” - mi chiedi. È la terra che sprofonda il suo seme nella culla, è la conchiglia che si svuota del suo frutto per far posto all’algida bellezza della perla, è il mare che risucchia l’onda per restituirla come spasmo alla potenza del suo corso. L’amore è questo, un accogliere, un fare spazio, un trasfigurarsi di continuo per restituirsi al mondo. È un processo ininterrotto che ci annoda stretti a chi ci vive accanto, un ciclo continuo d’abbandono, resa, dono con cui ci forgiano e ci forgiamo, con cui ci svelano e ci sveliamo. In questo modo l’amore ci cura - però ci condiziona; ci cresce - eppure ci cattura in un’immagine confinata nello specchio, che - solo col tempo - riusciamo ad osservare, con tutta la consapevolezza che davvero le si deve. In questo modo l’amore ci rende vulnerabili, perché ci affida al destino degli incontri, a un gioco di riflessi che può riverberare luce o allargare ombre fino a scioglierci i contorni.  Un gioco che può essere virtuoso oppure divenire il più spietato. Perché tutti siamo alla ricerca di un complice, di un compagno con cui condividere la partita assurda della vita, di una parabola ascendente che ci tramuti in esseri perenni, se avvinghiati al cuore di qualcuno; siamo alla ricerca d’uno sguardo che ci accordi un’altezza superiore a ogni nostra stessa aspettativa. Per questo l’amore è una vertigine ma può diventare facilmente una spirale, può innalzarti al cielo oppure risucchiarti - a poco a poco - in mulinelli muti e scuri sotto il mare. Per questo è terribilmente debole l’amore, un gigante di arenaria friabile pronto a sfaldarsi sotto il sole e a ridiventare polvere, sabbia bianca che s’incolla al calore delle vene.

E, dunque, quali sono gli errata da correggere in ogni relazione? È una domanda che Stefania Giammillaro non ci pone chiaramente, se non nella voluta polisemia del titolo della sua raccolta. La risposta la troviamo a frammenti tra le pagine, nella testimonianza d’una progressiva presa di coscienza in cui l’esperienza personale, o almeno quanto se ne può intuire attraverso lo stile volutamente oscuro e allusivo dell’autrice, è solo il punto di partenza per un generale ripensamento dell’esperienza dell’amore. Un percorso che trae origine dal Peccato del non capire (“Dell’amore non ricevuto/ hai pagato pegno/ e subito l’ingiustizia di te stessa”), che attraversa la Colpa dell’illudersi e del perdurare (“Da un vetro di roccia/ si penetrava il mondo/ io pesce rosso/ con diritto di parola”), e che è già diventato ferita quando ci si inizia a Perdonare (“E se sanguino/ sanguinerò per partorirmi”), a suturare gli strappi con l’occhio meticoloso di chi crede che tutto si possa ricucire e riparare. Non è così invece, almeno non da subito: le delusioni fiaccano, sfibrano, delegittimano la propria identità, ma servono per mettersi alla ricerca di tutte quelle risorse che non si credeva più di poter trovare.

E allora, vorrei scivolare - per un attimo - fino alla fine di questa bella silloge della Giammillaro, fino a quel Muta sugnu/ comu pisci senza sangu, a quel ritrovarsi Sula, sittata/ ravanti a tavula cunzata, a quell’essere figghia e matri ossia donna unica e completa, bastante quasi al proprio esistere, senza però mai smarrire quel filo sottile che è trama sottesa alle infinite forme dell’amore. C’è una voce femminea antica, ancestrale, ardita che serpeggia fra queste righe e che trova nelle poesie in dialetto siciliano la sua espressione più divincolata e pura. La Sicilia - per chi la conosce - è terra strana, forse per via di quel suo essere crogiuolo di tanti popoli, epoche e culture che risuonano ancora dal profondo sotto le pietre calpestate dai tuoi passi. Essere donna in Sicilia non è mai stato semplice, separata in terra separata; sopraffatta in una terra asservita per destino. Eppure la Sicilia senza la risolutezza delle donne non la si potrebbe immaginare. Perché questa è e resta una terra intimamente matriarcale, che da sempre del controllo agli uomini lascia solo l’illusione. E invece, a dispetto delle più consuete e inappuntabili apparenze, le donne siciliane sanno essere fiere, risolute, definite, sanno morire e rinascere per innumerevoli vite, sanno da vittime diventare guide, Proserpine che ritornano, dopo ogni esperienza dell’inferno, ad una nuova luce.“Nun rinesci a cunfunnirimi/ ca sugnu bedda (sì)/ maliritta biddizza ca nun s’adduna”: non riesci a confondermi, o mio amore vuoto dell’amore che volevo, e io già levito in alto, guardo la tua statura, io mi libro già libera nel mio volo. Potrebbero parafrasarsi così i primi versi di questa poesia – poi ribaditi a mo’ di ritornello da ballata – come il riconoscimento altero del lavoro di elezione che ogni donna può operare su sé stessa, in ogni epoca, in ogni situazione. D’altronde con l’amore le donne hanno imparato a intrattenere un rapporto viscerale. Loro, che hanno sempre subito il peso d’essere oggetto scelto d’amore, si sono abituate ad accoglierlo, a filtrarlo, a trasmetterlo, talora a subirlo nelle varianti più sbagliate, ma poi ad oltrepassarlo, a ricomporlo in nome d’una forma d’amore superiore.

Qual è l’amore vero? mi chiedi. Forse l’eros (ἔρως) che travolge di passione e che non fa sconti al sentire della pelle? o è piuttosto l’antéros (᾿αντέρως), l’amore reciproco che sa ascoltare e comprendere e far crescere assieme? oppure ancora è la storghé (στοργή), pronta a tramutarsi in affetto famigliare perenne, che si cementa e rafforza nei legami di sangue? o ancora la philía (φιλία) di chi sa essere amico prima che amante, che sa vedere l’umano che ci lega prima di aspirare a diventare altro? Non lo sa l’autrice ma di tutte queste forme ha raccolto, conservato e tessuto i vari scampoli, perché in verità l’amore dovrebbe essere un po’ di tutto, passione e protezione, affetto e devozione, amicizia e complicità assieme. Solo una cosa non dovrebbe mai essere: manía (μανία), ripiegamento su sé stessi, godimento narcisistico e personale, l’amore non dovrebbe mai scadere nella sua variante autoreferenziale. Forse c’è questo in cima a tutti gli errata corrige che ci si può immaginare. E forse, ancora prima di ogni sua variante interpersonale, l’amore dovrebbe essere philautía (φιλαυτία) ossia adeguato e doveroso amore di sé stessi, un amore che spinga a comprendersi, a migliorarsi, a conoscersi, a volersi bene nonostante i propri limiti:

Che se poi ti abbracci/ non ti raccogli intera/ ed è sempre difficile/ stirare gli angoli/ Che se poi ti abbracci/ sei tutta per te/ dalle guance all’alluce/ e sul tuo equatore/ un accento di libertà.

É questo l’accento potente che soffia da questi versi - eleganti, allusivi, autentici - ed è un vento caldo che mulinella sangue e lacrime, e ruggisce nell’incanto della parola, una parola che sa rigenerarsi, volare alta e farsi vita nuova.


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