POESIA E ALTRE FORME - Massimo Maggiore - L’ARTE COME GIOCO DI SPECCHI

 

Massimo Maggiore

L’arte è autorappresentazione dell’uomo, continua interrogazione e riflessione sul suo esserci. Lo specchio è così un tema artistico ricorrente, un topos, inteso sia come oggetto concreto che restituisce a chi vi si ponga davanti la propria immagine, che come metafora del tentativo di comprendersi, di mettersi il belletto del senso e vedere come si sta guardandosi, appunto, allo specchio. 


Il Mito di Narciso, che si innamora della propria immagine riflessa in uno specchio d’acqua, è simbologia dell’alterità insondabile che ciascuno di noi è a se stesso. Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, rappresenta il Mito da par suo nel noto dipinto, in cui io scorgo una domanda di Narciso alla sua stessa immagine riflessa, un’interrogazione al suo spettro. 



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(Narciso  – Caravaggio 1594-96)


Facendo un salto di secoli rispetto alla rappresentazione caravaggesca del Mito di Narciso, un altro Michelangelo, Pistoletto, nel 1968 con la sua opera “I Visitatori” inaugura la serie delle opere-specchio, ottenuta inserendo un dipinto su velina su due pannelli di acciaio inox lucidato a specchio. Dice Pistoletto delle sue opere-specchio: “La parete esiste come principio e come fine di questa mia storia. Sulle pareti si appendono sempre i quadri, ma è sulle stesse pareti che si mettono anche gli specchi. […] il riflesso dello specchio incomincerà a rimandare le stesse incognite, le stesse domande, gli stessi problemi che ci pone la realtà; incognite e questioni che l’uomo è spinto a riproporre sui quadri”. Pistoletto si interroga sulla ricerca di identità e sullo stesso rapporto tra l’atto di guardare e di essere guardato. Nell’opera I Visitatori si vedono un uomo e una donna, posti di spalle, intenti a guardare qualcosa, probabilmente un’opera o qualsiasi cosa si materializzi provvisoriamente nel riflesso dello specchio. Ma Il quadro specchiante di Pistoletto diventa opera vivente e mutante, perché a specchiarsi è anche chi visiti la sala in cui l’opera è esposta, che diventa soggetto temporaneo della rappresentazione stessa, nonché suo artefice posizionandosi consapevolmente in essa e in rapporto ad essa. Vita pulsante e arte attraverso il gioco degli specchi finiscono per coincidere. 


I visitatori

(I Visitatori, Michelangelo Pistoletto, 1968)


Gioco degli specchi è anche il metacinema, il cinema che si sofferma sullo stesso processo del fare cinema, che disvela la sua stessa finzione, facendo cadere le barriere tra quel che sta davanti e quel che sta dietro la cinepresa, spingendo lo spettatore a chiedersi se la realtà sia qualcosa che esiste indipendentemente dalla sua narrazione. Uno stratagemma classico di rottura della barriera della finzione cinematografica è l’attore che guarda “in camera” e si rivolge direttamente a chi guarda il film. Esempio ne è la scena finale del film “I Quattrocento Colpi” di F. Truffaut, in cui il protagonista, lo scapestrato e problematico ragazzino Antoine Doinel, fa proprio questo, guarda in camera e ci guarda.  


A 65 anni dalla sua uscita, l'impronta lasciata dal capolavoro di François Truffaut continua ad essere indelebile nelle pagine della storia

(Les Quatre Cents Coups, F. Truffaut, 1959)

La narrazione “a specchio”, in cui l’opera d’arte mette a nudo, portandola all’interno di se stessa la meccanica del racconto come strumento in cui le identità del soggetto della narrazione, del narratore e dello spettatore si sovrappongono, si trova già nell’Odissea di Omero, nel Canto VIII, nell’episodio del pianto di Ulisse. L’eroe naufrago sull’isola dei Feaci, non rivela dapprima la propria identità. Il dovere dell’ospitalità spinge comunque Antinoo, il re dei Feaci, a organizzare un banchetto dedicato a questo straniero senza nome. Viene chiamato a prendervi parte anche l’aedo Demodoco, privo della vista, il quale intrattiene gli ospiti con un canto, nel quale narra proprio le gesta della guerra di Troia e dello stesso Ulisse. Quest’ultimo rispecchiandosi nel racconto di sé, si commuove a riascoltare dalla voce di un cantore le sue stesse avventure e quindi, sollecitato garbatamente da Antinoo che si accorge delle sue lacrime, capitola e oudos, il Nessuno che con questo pseudonimo aveva astutamente dissimulato la propria identità al Ciclope Polifemo, dichiara il suo vero nome e la sua identità: Ulisse, proprio colui poco prima evocato dal canto di Demodoco.

 

Ulisse, naufrago nella Terra dei Feaci

(Hayez, Ulisse alla corte di Alcinoo, 1814/1815) 

In poesia la simbologia dello specchio è ampiamente usata. Due esempi sono offerti da due testi poetici mirabili. Il primo è “Corona” di Paul Celan

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.

Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:

lui ritorna nel guscio.


Nello specchio è domenica

nel sogno si dorme, 

la bocca fa profezia.


Il mio occhio scende al sesso dell’amata: 

noi ci guardiamo, 

noi ci diciamo cose oscure, 

noi ci amiamo come papavero e memoria, 

noi dormiamo come vino nelle conchiglie, 

come il mare nel raggio sanguigno della luna.


Noi stiamo allacciati alla finestra, dalla strada ci guardano: 

è tempo che si sappia! 

È tempo che la pietra accetti di fiorire, 

che l’affanno abbia un cuore che batte.

È tempo che sia tempo.


È tempo.


Quello di Celan è un testo dominato dal senso della vista. Si sofferma sul venire alla luce (e quindi essere visto e visibile) di un rapporto amoroso, forse fin lì segreto. Ad avermene fatto innamorare è un verso in particolare: “Nello specchio è domenica”. Questo verso mi incanta per l’immediatezza, di cui solo la poesia è capace, dell’immagine della pienezza del tempo della stasi post erotica in cui ogni altro tempo si annulla, perde importanza anzi non è mai esistito.


L’altro testo è tratto dalla prima raccolta poetica di Lawrence Ferlinghetti, Fotografie del mondo perduto. Le poesie della raccolta sono senza titolo, contraddistinte solo dall’ordine numerico secondo cui si susseguono. Quelli che seguono sono i primi versi della poesia numero cinque:


Appena un po’

dopo l’inizio dei tempi

alle nove in punto

    di una non troppo calda

  sera d’estate

    all’ingresso

    del NEW PISA

  sotto la dimenticata

testa di gesso di DANTE

  in attesa di un tavolo

    a osservare 

  il Tutto

c’era un uomo con uno specchio al posto della testa

il che non sembrava poi così normale

a parte

      due orecchie umane che spuntavano

e aveva un cartello

con su scritto

LA POESIA È UNO SPECCHIO CHE CAMMINA SU UNA 

    STRANA STRADA […]


Qui Ferlinghetti fa del poeta e quindi della poesia stessa una superficie riflettente. La poesia prosegue infatti con la descrizione del ristorante NEW PISA e di chi lo frequentava, centosessantatre persone tutte intente a mangiare e parlare “senza mai fare caso all’uomo con la testa di specchio, sotto la dimenticata testa di Dante che guardava tutti quanti con gli stessi occhi, come se cercasse ancora Ovunque la sua Beatrice perduta, ma con appena un tocco di diabolico rossetto, proprio sulla punta del suo stesso naso”. 

Anche questa è una poesia dominata dal senso della vista, ma a differenza del testo di Celan considera la poesia non come un atto autoriflessivo ma di rifrazione di quel che succede all’esterno del poeta, che – nel caso della statua di Dante – non si accorge del tocco di rossetto sulla punta del suo stesso naso. La poesia e i poeti sono poi specchi non visti da chi pure in essi è riflesso. Destino che la poesia vive, senza poter abiurare alla propria funzione, che mi pare Ferlinghetti ritenga necessaria, lasciando agli avventori del ristorante (quindi fuor di metafora a noi tutti) la libertà di scegliere se volgere lo sguardo verso la poesia e guardarsi in essa o continuare a ignorare la poesia e quindi se stessi.


Ferlinghetti visse in Francia per qualche anno dopo la seconda guerra mondiale, dove conseguì un dottorato in letteratura inglese alla Sorbona di Parigi. Non poté non entrare in contatto con Marcel Proust e la sua À la recherche du temps perdu, nel cui secondo dei sette volumi che la compongono, All’ombra delle fanciulle in fiore, Proust propone il parallelismo scrittore-specchio, in termini non distanti da quelli ferlinghettiani della poesia richiamata. Nella prima parte, intitolata “Intorno a Mme Swann”, il narratore infatti, dopo aver conosciuto a casa della Signora Swann Bergotte, il suo scrittore preferito, dà una sua definizione del “genio letterario”, muovendo da una certa disillusione personale che l’incontro con Bergotte gli aveva provocato e cercando di conciliare il suo eloquio, non forbitissimo, e le sue maniere, non proprio a modo, con la qualità eccelsa dei suoi scritti:


Ma il genio, e anche il grande talento, emerge, più che da elementi intellettuali e d’affinamento sociale superiori a quelli degli altri, dalla facoltà di trasformarli, di trasporli. […] gli uomini che producono opere geniali non sono quelli che vivono nell’ambiente più squisito, che hanno la conversazione più brillante, la cultura più vasta, ma quelli che, cessando bruscamente di vivere per se stessi, hanno il potere di rendere la loro personalità simile a uno specchio, in modo che la loro vita, per quanto potesse essere mondanamente e persino, in un certo senso, intellettualmente mediocre, vi si rifletta, giacché il genio consiste nel potere riflettente e non nella qualità intrinseca dello spettacolo riflesso”.


Qui c’è anche tutta la teoria proustiana sulla letteratura scissa dall’autobiografismo, ma questa è un’altra storia. 






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