LE MONOGRAFIE DELLA REDAZIONE - CINQUE FINESTRE SULLA POESIA - Elisabetta Destasio Vettori (a cura di D.Bellomusto, M.Valenti, D. La Mantia, V. Bruno, S. Giammillaro)
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| Elisabetta Destasio Vettori (con l'amato gatto Gramsci) |
Le "Cinque finestre sulla poesia" di questo mese, la sesta monografia della redazione di Finestre Litblog, è in certo senso fuori dai canoni dei precedenti numeri. Perché è più un tributo, un grazie alla poesia di una artista scomparsa da poco e che ha lasciato e lascerà un vuoto grande, grandissimo. Si parla di Elisabetta Destasio Vettori. E ognuno di noi ha declinato a suo modo il proprio saluto da qui a colei che ci guarda, beffandosi di certo di tutto questo poco rimasto quaggiù.
Ciao, Elisabetta...
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Rendere omaggio alla poesia e all'umanità di Elisabetta Destasio Vettori mi fa tremare il cuore.
Desidero scegliere parole pulite e nitide, voglio rifugiarmi nella sua luce e celebrare i suoi versi, restando in ascolto e sostando nello spazio bianco tra le lettere.
Mi lascio avvolgere da tutto il blu nel costato di un inverno che Elisabetta non vedrà, mi siedo sulla superficie argento del gelo e respiro nell'aria fosca di questo Novembre l'assenza di una voce asciutta e tersa.
Non l'ho mai incontrata.
Ne scrivo timidamente, ho spiato il suo coraggio e la sua paura.
Le rendo omaggio così, scegliendo una poesia sua da indossare, come fosse una sciarpa per proteggersi da tutto questo gelo.
***
Tutto il blu
nel costato del tuo inverno,
al bordo -
senza sottrazione
capire il rintocco delle campane,
la voglia di farsi silenzio
mutare in superficie argento
del gelo
attendi, attendi – dici
il pulsare vermiglio
delle nostre aorte – unisono
(da Luoghi profani, Les Flȃneurs Edizioni, 2023)
Doris Bellomusto
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“Dopo un mese di silenzio e degenza, fra chemio, fortissime terapie antibiotiche, ossigeno fisso, ed una assenza cerebrale di qualche minuto, il mio corpo sta cedendo e la leucemia sta vincendo.
La targa con la citazione della nostra Amelia Rosselli, mi è stata portata ieri sera da mio fratello Dino Ignani ed è opera sua, rimasta esposta nella sua ultima mostra romana.
Abbiamo parlato, pianto, sorriso, ricordato cose buone, per un paio d'ore, qui, in questa stanza del Policlinico che non sentirò mai casa, ma che deve esserlo.
In questo tempo oscuro, ho ricevuto visite da amici per me preziosi, unici!
Mi scuso con gli altri, quelli a cui non ho avuto e non ho le forze di rispondere. E non so se ci sarà un altro tempo. Non credo e tutto parla chiaramente.
Verrò trasferita in una struttura adeguata nei prossimi giorni, dove tenteranno di rimettermi in piedi. A casa, no, non potrò tornare.
Mi manca la mia vita, mi manca la vita, le mie piante. Mia madre, il suo passo claudicante, al piano superiore.
Non mi mancano le persone che non hanno trovato un momento per mandarmi un banale saluto e quando lo hanno fatto era perché non avevano altro da fare o dove andare.
Non fatelo ora, non servirebbe. Non credo in un dio, né nel perdono, se umanamente non si è valevoli, buoni, sinceri.
Il male va solo lasciato andare alla deriva.
La vita è una. Altre possibilità? Non ce ne sono. Vorrei avere la capacità di spiccare un volo, come un uccello - sulle colline Ngong, in Africa, dove sono certa potrò parlare ancora con mio padre e cantare con lui Vecchio frack, sotto al patio, con la luna gigante che ci benedice il corpo e l'anima”.
***
In modo atipico per il format scelto per le nostre Monografie, il testo che oggi riporto in questa pubblicazione dedicata ad Elisabetta Destasio Vettori è un post sul suo profilo fb, l’ultimo da lei scritto con lucido senso della realtà, accompagnato da stralci delle poesie lette e amate dei suoi libri. Perché da queste sue parole, poetiche nella misura in cui si legga in esse lo spirito che le ha mosse, credo si colgano gli aspetti principi del suo stare al mondo. E quindi anche della sua poesia. Che, come vedremo, coincide con ogni anfratto della sua realtà.
Nel testo si ritrova la sua estrema lucidità, che mai ha permesso alle utopie di avere il sopravvento, e che permea ogni verso delle sue liriche
Nella sera che muore dentro un respiro,
si sfaldano capsule bianconere.
Capsule annidate nel blister che pure trafiggono il corpo
inquieto all'orda dell'acqua,
che come tempesta scivola e mescola amaro e denso.
Denso e amaro. Amaro. Amaro.
(da Corpo in animae, Annales Edizioni, 2015)
o anche
Oggi il cane del guardiamo
Mi ha scodinzolato
deve aver sentito
l’odore del sangue
lo sguardo fisso
al brandello di vita
e se vive Natura
potrei innestarmi
in radice di genziana
per salvarmi
:ho dimorato anche io,
sola,
in estranee cose.
(da Da luoghi profani, Les Flȃneurs Edizioni, 2023)
Vi si legge la sua lealtà amicale, la sua riconoscenza verso chi, a suo modo di vedere, meritava un grazie sussurrato e, al contrario, la sua ferma durezza nel considerare chi, nel tempo del dolore, si era fatto da parte.
Che nessuno
possa entrare
a passo largo ma lieve,
che nessuno
senza il dono della tenerezza
calpesti il prato
e nemmeno le foglie cadute.
(da Da luoghi profani, Les Flȃneurs Edizioni, 2023)
Vi è, inoltre, nelle parole quasi testamento di sé, l’amore per la madre ancora in vita e che non vedeva da tempo, costretta, com'era, alla lunga degenza ospedaliera, insieme alla consapevolezza che il tempo volgeva alla fine, che il suo tempo stava per essere interrotto dalla malattia
perciò ti faccio il nido, madre,
mi ci accovaccio dentro e ti invento figlia.
Vi si scorge il senso di Casa, una casa che sa di non poter più rivedere, e con essa tutto ciò che dentro vi custodiva.
E, alta su tutto, campeggia la figura del padre perduto, tante volte presenza assenza nelle sue poesie.
Il padre, che Elisabetta ha identificato con il ricordo della sua Africa
Africa, anima
Tu sei ovunque.
Se andassi coi passi ad Est,
il sole si chinerebbe su un fianco
creando il tramonto e ripetendolo all’infinito.
Ancora e ancora e ancora.
[...] Per sempre persa su lembi di sabbia bianca
nella Terra d’Africa, che dopo averti lavato l’anima,
te la restituisce in grani d’oro.
È un passato/padre/Africa che si fa mito, che diventa archetipo di vita e sogno, sogno nel quale potere finalmente
spiccare un volo, come un uccello - sulle colline Ngong, in Africa, dove sono certa potrò parlare ancora con mio padre e cantare con lui Vecchio frack, sotto al patio, con la luna gigante che ci benedice il corpo e l'anima.
(Il mio a rivederci) Melania Valenti
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Che cosa cerco in chi fa poesia? Non solo la tecnica, non solo l'arte di mettere in coda parole come elefanti del circo.
Cerco, per dirla con Popper, autenticità, e poi vita vissuta, impegno civile, partecipazione, umanità. Cerco etica.
Cerco una voce ed un corpo, un agire. Ecco, Elisabetta Destasio Vettori mi continua ad offrire questo, con la sua poesia. Ed è un piacere donarvi dei suoi testi, per me straordinari, di cui non potrò più ringraziarla con un abbraccio dei nostri.
Madre
faccio un nido tra gli
spazi bianchi della tua memoria
in ogni giorno che passa su ogni tuo ciglio caduto, in ognuno dei tuoi passi mancati
e nella tua voce e nel tuo corpo - assenti giustificati, dice un medico -
lui ripete demenza,
io dico tua nuova infanzia
perciò ti faccio il nido, madre,
mi ci accovaccio dentro e ti invento figlia, ti faccio spazio nel verbo accudire.
Madre e figlia. E tu uniscile, nel comune dolore. Nella parola che si fa abbraccio. Nel perdere coscienza che non è fine, ma nuovo inizio.
Non posso negarlo.
È con grande rispetto che mi avvicino alla poesia di Elisabetta Destasio Vettori. Perché è un'amica, nonostante non sia più. Perché è vera e profonda.
Innumerevoli sono i temi toccati dall'artista.
Roma, ad esempio, che è il centro e la vertigine di Elisabetta, la luce, l'amante e l'amata insieme, la città natale dove vive e del cui amore si nutre. È difficile trovare nella poesia contemporanea una tale simbiosi. Bisogna ritornare a Sbarbaro e Montale ed al loro paesaggio ligure, a Saba ed alla sua Trieste fanciulla. È un rapporto pieno, quasi erotico, catartico, sempre salvifico, una vera cura al dolore fisico e insieme metafisico, all'assenza che avvolge l'artista, come è evidente nel passo sotto proposto
a piedi nudi
chilometri senza sosta
poi: la luce di Roma
solo per vedere se ancora esisto, se ancora ho
la forza di sillabare
sei la mia terra,
mi apro a te
di eros e di pace
-senza più dolore
La poetessa gioca altrove su alcuni archetipi junghiani con significati multipli (il mare, il bianco, il cielo. In particolare il bianco, che richiama insieme l'innocenza, la purezza e la morte). Bellissimo l'uso retorico, presente ovunque, anche se mirabilmente dosato: il poliptoto bianco-bianca, le assonanze bianco-marmo e nudo-aguzzo-autunno, la paronomasia mondo-moto e lo straordinario gioco fonico giallo-foglia ginko-biloba; e ancora i richiami luce-illuminato e soprattutto quello dagli infiniti contorni mare-parola, uniti dallo stesso colore; gli ossimori appena accennati autunno-illuminato e sospesa-collisione, l'analogia seme di marmo. Il tutto, in un assunto che sembra sciogliersi in un contenuto potente e emozionale, di innocenza primigenia.
Bianco mare,
seme di marmo
d'innocenza
sul mondo
-perpetuo moto
bianca parola
so di non sapere
la luce del corpo nudo
in un angolo aguzzo
l'autunno illuminato su
giallo foglia ginko biloba
{siamo punti in sospesa
collisione?}
Destasio sembra incapace di reagire, annichilita, nella sua nudità non solo fisica (esempio di purezza e insieme di erotismo, di una presente assenza).
Eppure resiste ed immagina una realtà di innocenza. Ed è forse in questo eppure, la grandezza e il respiro così ampio della sua Poesia.
Che resterà.
Mentre non ci saranno più gli incontri con lei, a tavola.
E con il gatto Gramsci.
Mentre non ci sarà più lei.
David La Mantia
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Ci sono poeti che, quando si congedano, non lasciano soltanto un’assenza: alterano la trama stessa della luce. Nel caso di Elisabetta Destasio Vettori quella luce prende il colore dell’acqua: pioggia, mare, un azzurro sospeso sulle rovine. Leggere oggi i suoi versi significa attraversare una città interiore che somiglia alla sua Roma – la Roma vera, verticale e ferita – e insieme un paesaggio del corpo, del dolore, della cura, dei legami che restano vivi anche quando tutto intorno è maceria: il miracolo dell’azzurro che insiste sulle rovine.
Da luoghi profani è un’opera in cui la poesia di Elisabetta mette a fuoco “i luoghi delle ferite e dello smarrimento, della resistenza e della resa”, attraversando il dolore senza compiacimento, come un territorio da decifrare più che una condanna da sopportare.
L’acqua – pioggia, mare, umidità delle radici – è presenza costante: talvolta lieve, talvolta battente, spesso invasiva. È elemento che allaga e dissolve, che disfa i contorni, ma anche che irriga, purifica, prepara il germoglio di un altrove possibile.
Roma, in queste pagine, non è semplice sfondo: è un corpo gemello, concentricamente sovrapposto a quello dell’autrice, una città-schiena, città-respiro, che rifiorisce “nell’incurvarsi dei platani, sul lungotevere”, e che accompagna il ritmo dei versi, il loro oscillare fra interiore ed esteriore, fra il singolare e il collettivo.
Dentro questa geografia emotiva si colloca la poesia che qui scelgo per ricordarla: pochi versi, pochissime parole, ma densissime, come se fossero state levigate a lungo contro la pietra viva dell’esperienza.
Se qualcosa siamo stati / eravamo niente
L’incipit è già una dichiarazione di poetica e di destino: quel se condizionale introduce subito un dubbio radicale sulla consistenza del passato, su ciò che è stato (o che crediamo lo sia). È un verso che interroga l’identità e i legami: “qualcosa” e “niente” si fronteggiano come due poli di una stessa vertigine e ogni storia affettiva – amorosa, familiare, persino civile – sembra essere chiamata a rispondere a un bilancio spietato, spoglio di ogni retorica.
Il movimento è tipico della sua scrittura: nessuna enfasi, nessuna scenografia emotiva, ma una sottrazione continua. L’io arretra, lascia parlare una sintassi scarnificata, fino a lasciare nudo il nucleo del senso. Subito dopo, l’immagine:
mare bianco marmo
Tre sostantivi in sequenza, senza verbi a sorreggerli, uniti soltanto dalla materia e da una segreta assonanza. Il “mare” – normalmente mobile, cangiante – qui si fa bianco, immobile, pietrificato. È un mare abolito, svuotato del suo respiro, ridotto a lastra, a superfice minerale. In questi tre colpi secchi Elisabetta sospende il movimento del mondo, lo solidifica, e ci consegna un’immagine che non descrive: incide.
E in mezzo, quella sospensione straniante:
come l’aria si sposta / dai pesci rossi
I pesci rossi rimandano a una dimensione domestica, fragile, circolare (la boccia, il piccolo mondo chiuso), ma qui l’attenzione è sull’aria che si sposta “dai” pesci rossi. Un’immagine quasi impossibile, una percezione capovolta: l’aria – che non appartiene all’acqua e tuttavia la lambisce, la custodisce – sembra sottrarsi, lasciando scoperto ciò che è più esposto. Come se il respiro del mondo si allontanasse dal punto più vulnerabile della vita.
In questi due versi la poesia registra una micro-faglia dell’esistenza: un istante in cui l’ordine naturale si incrina, l’elemento che dovrebbe circondare e proteggere si ritira, e ciò che resta è un silenzio sottile, un vuoto di respiro. Una metafora estremamente delicata della fragilità, affidata ad un impercettibile spostamento d’aria.
Questa prima strofa, allora, delinea un prima: un tempo in cui si è stati “niente”, in cui il mare si è indurito in marmo e persino l’aria pare ritirarsi dalle forme della vita. È il tempo della ferita e della sottrazione, quello in cui il dolore si affaccia senza proclamarsi, nominato per ellissi, per baleni d’immagine, mai affidato alla durezza di una parola clinica.
Poi, all’improvviso, la congiunzione avversativa non detta: quella che noi leggiamo e che la poesia sottintende.
ma l’acqua cade obliqua / bagna e semina
È un “ma” implicito, inscritto nel gesto stesso del verso: dopo il nulla, dopo il marmo e il ritiro dell’aria, l’acqua torna. Non più mare immobile, ma pioggia: un movimento che “cade obliquo”, non verticale né ordinato, ma inclinato, con uno scarto, una deviazione minima.
L’obliquità è forse il modo stesso in cui la grazia, o la cura, o l’amore, entrano nelle nostre vite: mai frontalmente, mai secondo i progetti, sempre a partire da un margine, da un’angolazione inattesa.
E questa acqua non solo bagna: “bagna e semina”. Non è un’inondazione, ma una pioggia che genera, che prepara, che deposita semi. In un solo gesto, la poesia sposta l’immaginario dell’acqua dal registro della distruzione a quello della fertilità: dall’annientamento alla promessa.
– azzurro, azzurro/ sopra tutte le macerie
La ripetizione di “azzurro” – preceduta da quel trattino che ha il ritmo di un respiro, di un piccolo stupore – è una delle chiavi del testo. L’azzurro, qui, non è soltanto un colore: è il cielo che si posa sull’acqua, è la promessa di una distanza, di un oltre possibile.
Si posa “sopra tutte le macerie”: non le nega, non le risana, le copre di luce.
In questo gesto verticale, che va “sopra” senza cancellare ciò che è sotto, si ritrova l’ethos profondo di Elisabetta: portare bellezza dentro il dolore, non fuori da esso. Tenere insieme il crollo e la possibilità, la rovina e il germoglio. È la stessa tensione che abita l’intera raccolta, in cui i “luoghi profani” – ospedali, quartieri, corpi stanchi – diventano varchi attraversabili proprio perché lo sguardo della poesia li rischiara senza spiritualizzarli.
La chiusa è mirabile, e oggi, dopo la sua scomparsa, risuona con una dolcezza lancinante:
da qualche parte/ nasco senza ferita
“Da qualche parte”: non è un dove definito, non è un aldilà dogmatico. È un luogo aperto, instabile, che può essere una regione dell’anima, un tempo ancora senza nome, oppure la stessa lingua poetica che lo pronuncia.
“Nasco senza ferita” ribalta il paradigma della nascita come trauma – fisico e psichico – e sogna una venuta al mondo intatta, non più segnata dal taglio. Se tutto il libro percorre i “luoghi delle ferite”, qui la ferita viene immaginata prima o dopo, come se la poesia permettesse un’altra origine, un’altra possibilità d’essere.
Non si tratta di consolazione facile. Non c’è retorica salvifica, né promessa di guarigione. C’è piuttosto un’intuizione quasi metafisica: da qualche parte – forse proprio nel gesto dello scrivere, nel modo in cui una voce si consegna alla memoria di chi legge – esiste un punto in cui il dolore non è più l’ultima parola, ma il materiale da cui qualcosa, qualcuno, può ancora nascere.
Oggi, mentre la sua voce vive nelle mani dei lettori, dei critici, dei poeti che l’hanno amata e la ameranno senza averla conosciuta, questa manciata di versi risuona come un autoritratto in filigrana: una vita attraversata dal dolore e dalla fatica, certo, ma sempre rivolta a “seminare” – azzurro, cura, ascolto – sopra le rovine, proprie e altrui.
Non sappiamo in quale parte Elisabetta stia ora “nascendo senza ferita”.
Ma sappiamo che la sua opera continua a spostare aria attorno ai nostri pesci rossi, alle nostre fragili vite in boccia, e che l’acqua obliqua dei suoi versi continuerà a cadere sulle nostre macerie private, come un raggio di luce inesauribile.
Eterna, come la sua Roma.
Immortale, come ogni parola non detta.
Viola Bruno
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Lasciare tutto
- abbandonare gli anni
come si lascia il putrido
sotto la terra
dopo le stagioni
di semina e poi
della pioggia
guardare
il vuoto tra le crepe
piegarsi
sulle ginocchia – pregare
e rimanere
nel punto esatto dove il seme tocca
rotondo la terra
[tocca rotondo la terra]
(da Luoghi profani, Les Flȃneurs Edizioni, 2023)
Ancora brividi nel riportare, rileggere e adesso commentare questi versi mia cara Elisabetta.
Versi che ho trovato, aprendo a caso la tua ultima silloge pubblicata nel 2023 per la casa editrice Les Flȃneurs (che poteva vantarti tra i suoi curatori), l’attimo dopo aver appreso della tua dipartita.
Versi che ho percepito subito risuonarmi dentro, come un boato di addio, sordo come un’eco lontanissima di pioggia e vento.
Il tuo saluto, l’ultimo, è una preghiera che parla della ciclicità della vita, come delle stagioni, inginocchiando la propria essenza sul “punto esatto dove il seme tocca/rotondo la terra”.
Il senso circolare che ispira speranza nella fine (apparente) che si perde nel ritrovarsi come nuovo punto di inizio. Nuovo inizio che a sua volta assurge nella valenza semantica della purificazione: ci si lascia alle spalle il putrido degli anni che sono stati, da seppellire “sotto la terra” e suggellarne sì il termine esiziale.
Così il “vuoto tra le crepe” si piega, diventando motivo ed occasione per raccogliersi in preghiera, al fine di intravederne la luce – quella luce - che da lì si incaglia tra le ombre, e lì “rimanere” delineando nitida l’immagine dell’uomo come anello di congiunzione tra una Sfera Spirituale Altissima e la sua dimensione immanente.
Il senso Religioso sotteso si fa matrice laica accessibile, attraverso la poesia, ad ogni essere vivente, credente e non, umano e non.
Elisabetta cara, che dono, quanta saggezza raccolta nella tua anima gonfia di ogni più intimo senso ed intuizione dell’Alto.
Tu sapevi già e ci hai reso testimonianza sin da quando eri “tornata in vita”, presa in prestito dagli Angeli, del nostro passaggio terreno, da conoscere non con dolore, ma come tramite consapevole di ogni più luminosa unione con un al di là così vicino al diradarsi delle nuvole nell’atmosfera, che respira del nostro ossigeno mentre camminiamo o ci tardiamo a vivere nel “vero”.
Grazie del tuo passo sul mondo. Grazie del tuo alato esistere (anche) su questa terra.
Stefania Giammillaro
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Elisabetta Destasio Vettori (3 maggio 1968 – 25 settembre 2025) scopre già dall’adolescenza, anche grazie all’amicizia paterna con Pier Paolo Pasolini, la predilezione per il componimento poetico. Lavora nell’ambito delle produzioni teatrali e musicali, dal 1995, collaborando con l’Accademia di Santa Cecilia di Roma e con artisti quali Carmelo Bene, Luciano Berio, Lina Sastri, Ennio Morricone. Dal 2013 intraprende l’attività di consulente editoriale ed editor. Relatrice in convegni dedicati al tema della lotta contro la violenza di genere, Delega alla cultura per il Comune di Fiumicino, Roma, dal 2013 fino al mese di settembre del 2014. Membro del comitato organizzativo del Premio Poesia Città di Fiumicino, nel 2015 e 2016. Pubblicata da LietoColle Editore nell’Agenda Poetica 2013 e 2019. Presente nell’Atlante dei Poeti creato da Griselda, portale di letteratura del dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna. Ha ricevuto il “Premio Legalità Fiumicino 2018” per l’impegno civile e sociale svolto per la Fondazione Vassallo. Da settembre 2019 è curatrice e direttrice artistica della rassegna “Poeti in itinere” Prima Edizione. Nel 2019 alcuni suoi inediti sono stati tradotti in lingua araba e inglese, dalla scrittrice e giornalista Amal Bouchareb, per la rivista culturale letteraria Alaraby Aljadeed, diretta dal poeta Najwan Darwish. Conduce “La parola nuda”, rubrica letteraria/poetica su rivista settimanale dal titolo La voce del Paese.
Autrice delle raccolte di versi: Sogno d’acciaio e Corpo in animae entrambi pubblicati da Annales Edizioni (prefazione di Alberto Bertoni). Del 2023 la raccolta poetica Da luoghi profani, opera terza.
Lascia incompiuta l’opera: Di tutti e di nessuno, romanzo per Roma; Inedita, opera in endecasillabi; Donne senza voce, racconto/testimonianza di donne nel sud est dell’Africa. Storie di violenza e vita sopravvissuta.
(bio da Vento Adriaticohttps://circololetterarioventoad.altervista.org/poeti-contemporanei-elisabetta-destasio-vettori/)


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