LA LINGUA MISTERIOSA DELLA POESIA - Anna Spissu - Dove inizia la Poesia. Edgar Allan Poe e il Corvo.

 

Anna Spissu


I più degli scrittori - in modo particolare i poeti - preferiscono far credere ch’essi compongono con una specie di sottile frenesia - con un’estatica intuizione – e certamente rabbrividirebbero di permettere al pubblico di vedere dietro la scena le elaborate e vacillanti crudezze del pensiero, gli innumerevoli baleni di un’idea che non ha raggiunto la maturità dell’espressione, le caute scelte ed i rifiuti, le penose cancellature e le interpolazioni…”. 

Così ragiona Edgar Allan Poe nel suo saggio “Filosofia della composizione” apparso nel 1846. Si potrà dire che ora siamo nel 2025 e che da allora, nel mentre,  si sono fatte innumerevoli disquisizioni su questo argomento e che quindi in fondo non ci sarebbe niente di nuovo. Eppure, a leggerla tutta, la filosofia della composizione, si intravede qualcosa di talmente attuale che sembra aver gettato le basi dell’A.I, basi rudimentali, ma affinate. 

Poe parte da una considerazione: la scrittura poetica non è mai spontanea, ma è il risultato di una serie di domande e di risposte che l’autore deve darsi. Tanto più sono precise le domande, tanto più soprattutto lo saranno le risposte, così la composizione poetica raggiungerà il suo scopo di essere intensa ed emozionante. Con questi presupposti non è difficile scorgere le affinità con l’odierno ChatGpt. Se si vuole far scrivere una poesia di un certo tipo a A.I. bisogna impostare dei Prompt (comandi) precisi a seconda dell’argomento e dei sentimenti di cui tratterà la poesia prodotta dall’intelligenza artificiale. 

Ma per entrare ancor più nel dettaglio  e per capire meglio  l’attualità di questo scritto che ha quasi 180 anni seguiamo passo passo lo scritto di Poe.

“È assai poco comune che un autore sia del tutto in grado di ricostruire il procedimento con cui ha raggiunto le sue conclusioni. Per mio conto non  ho mai la minima difficoltà a richiamare alla mente il progressivo svolgimento di qualche mia composizione. Non si considererà come offesa al decoro da parte mia mostrare il modus operandi con cui fu composto qualcuno dei miei lavori. Scelgo il Corvo come il più generalmente conosciuto. 

Partiamo.

La prima cosa che necessita è l’intenzione.  Quella di comporre una poesia che soddisfi, a un tempo, il gusto popolare e il critico. Che cosa serve per questo? Quali accorgimenti la mente del poeta deve prendere per raggiungere lo scopo? In primo luogo la brevità: Non c’è bisogno di dimostrare che una poesia è tale solo in quanto eccita intensamente l’anima, elevandola; e tutti gli eccitamenti intensi sono, per necessità fisica, brevi. Ciò che chiamiamo una lunga poesia è in realtà, semplicemente, una successione di poesie brevi, cioè di brevi effetti poetici.



(Per non perdere il filo del discorso se oggi si fosse d’accordo con questo, con A. I.  si dovrà impostare il prompt :”poesia breve o successione di poesie brevi” e così di seguito riguardo agli altri requisiti)


La seconda cosa è la ricerca dell’ effetto che si vuole produrre: nella scrittura del Corvo, Poe dice di aver tenuto fermo il proposito di rendere l’opera universalmente accettabile e per fare questo sceglie la Bellezza che non definisce una qualità ma un effetto dei versi, cioè l’elevazione dell’animo, in particolar modo questo dovrebbe muovere alle lacrime un’anima sensitiva. (Ciò significherebbe oggi dire a ChatGpt: scrivi versi che facciano piangere) 

Resta da definire come si produca questo effetto e Poe inizia il suo ragionamento partendo dal refrain trovandolo adatto di per sè grazie all’universalità dell’uso, alla forza della monotonia, sia riguardo al suono che al pensiero facendo derivare il piacere dal senso di identità e di ripetizione. Il refrain doveva essere breve perché per ogni frase lunga ci sarebbe stata un’insormontabile difficoltà nelle frequenti variazioni di applicazione. 

Stiamo arrivando al famoso e spaventoso Nevermore , la chiusa di ogni “stanza in cui è divisa la poesia “Il Corvo”: “non c’era dubbio che una tale chiusa, per avere efficacia doveva essere sonora e suscettiva di un’energia prolungata; furono queste considerazioni che m’indussero, inevitabilmente, ad adottare la o lunga, come vocale più sonora, in unione alla r, come la consonante di maggior effetto. In questa ricerca sarebbe stato impossibile omettere la parola “Nevermore”, la prima che mi si presentò alla mente. Ora bisognava ancora trovare due elementi: una ragione per la continua ripetizione e il modo di conciliare la ripetizione con l’uso della ragione”.


In termini semplici bisognava trovare una spiegazione all’esistenza di questo ossessivo ritornello e trovare anche chi potesse pronunciarla sembrando naturale. Esclusi gli umani perché sarebbe sembrato irreale e poco credibile che rispondessero con una sola parola (sempre la stessa) alle inquietudini e domande del protagonista della poesia, il Corvo, uccellaccio del malaugurio , era perfetto.  (Se torniamo a A.I. e seguiamo il ragionamento di Poe possiamo immaginare una serie di domande-prompt che producano come risposta un uccello parlante) 

Andiamo avanti. 

Poe ha identificato il suo refrain, ne ha fatto una parola che solo a pronunciarla nelle lingua originale suscita un sentimento di paura che va anche al là del suo significato letterale, e ha anche identificato chi può pronunciarlo aumentando l’ineluttabile angoscia della parola Nevermore. La paura nasce qui, da queste nove lettere. Ma paura di cosa? Per rispondere a questa domanda Poe sente di dover definire altri due elementi: uno riguarda il tono e l’altro riguarda l’ambiente. 

Ha deciso che il tono sarà malinconico e “fra tutti gli argomenti malinconici, qual è secondo il concetto universale dell’umanità il più malinconico? La Morte fu l’ovvia risposta. E qual è il più poetico? Quello strettamente congiunto alla Bellezza, quindi la morte di una bella donna ed è “fuor di dubbio che le labbra più adatte a tale argomento siano quelle di un amante privato dell’amata.”




Resta da definire l’ambiente, il luogo nel quale l’amante si dispera per la perdita dell’amata e incontra il Corvo che non solo non gli dà alcun conforto ma  lo getta nella disperazione di una morte che non avrà alcun Aldilà. I due amanti non si incontreranno mai più, nemmeno da morti. Nevermore. 

Poe decide di collocare l’amante nella stanza resa sacra dai ricordi di colei che l’aveva frequentata. In questo ambiente, in una notte tempestosa, entra dalla finestra il Corvo. Ora la costruzione della poesia è completa, come un puzzle fatto di molti pezzi che hanno trovato il loro giusto posto.


Se siete arrivati fin qui a leggere è possibile che ora proviate un senso di ribellione e di sconcerto verso le tesi di Poe che in definitiva riducono la poesia a una serie di risposte a quesiti logici, filosofici e culturali, trasformando l’opera in un mero esercizio intellettuale e meccanico. 

Quasi due secoli dopo un analogo senso di ribellione lo si può provare scoprendo che A.I. è in grado di produrre un elaborato poetico inserendo i parametri-domande idonei a caratterizzare un elaborato poetico.

Quindi, tolto il riferimento temporale, quali possono essere in definitiva le differenze? E prima ancora: ce ne sono? 

Il quesito può essere inquietante e le analogie sono innegabili ma c’è un fatto distintivo che mi  pare differenzi la poesia di Poe da qualunque creata da A:I ed è il punto in cui inzia la poesia. Laddove ne “Il Corvo” la poesia inizia dopo aver fissato i parametri e avere definito la trama, liberandosi e prendendo forma  e volo dentro i confini tematici; nella A.I invece la poesia inizia contemporaneamente alla definizione dei parametri, senza i quali non potrebbe esistere, incapace di respirare mancando dell’ossigeno rappresentato proprio da quella creatività che Poe ha negato e che, volente o nolente, ha inserito ne “Il Corvo”. 


(Edgar Allan Poe  - Tre saggi sulla Poesia - Le tre Venezie ed. 1946 )

   


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