CERCANDO LE CHIAVI - Anna Segre - IL SOTTILE CRINALE TRA OUTING E COMING OUT
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| Anna Segre |
Vi racconterò qui come sono stata colta in flagrante omosessualità (si potrebbe definire outing) e come ho ammesso di essere lesbica (proviamo a chiamarlo coming out).
Finché non c’è la parola, l’oggetto non esiste. E finché i miei non ebbero la certezza che io fossi omosessuale, io vissi in un limbo d’identità che al contempo affermava e negava la condizione. Teresa d’altronde si comportava da perfetta signora, non c’era pericolo di vestiti inadatti e affermazioni ambigue nella conversazione. E quanto a profanazioni, preferivo evitarle, visto che i miei erano ancora a Roma. Preferivo non usare il loro letto. Anzi, feci di meglio: dissi che ce ne saremmo andate al mare, a casa di Lil Abner, mentre in realtà stazionavamo nell’appartamento di fronte, da Elisa. Gli ospiti non piacevano a mio padre, e la mamma fu contenta che trovassi una soluzione non conflittuale per quei quattro giorni con Teresa, naturalmente essendo convinta che fosse un’amica qualsiasi. Il sotterfugio con lui, per l’ospitalità; l’omissione (ma che omissione! la bugia), con lei rispetto alla natura della mia relazione. Altro che goffa, altro che imbranata: io quasi volavo sul campo minato della mia affettività proibita. M’ero fatta la nomea di ingenua leale affidabile, ma sapevo mentire in modo credibile, mentivo come se dicessi la verità. A ognuno quello che voleva sentire. Eccomi qua. Pronta a tradire me stessa per far contenti tutti. E viceversa: tradire tutti per far contenta me stessa. Io volavo, a me la forza di gravità faceva un baffo alla tortigliona: tutto per Teresa. Eccomi qua. Il fratello di Elisa era negli Stati Uniti e io e Teresa occupavamo la sua stanza, il suo letto a una piazza, una dentro l’altra, intrecciate giorno e notte nel discorso ininterrotto di amarci, non davamo certo fastidio a Elisa che studiava in fondo alla casa, non so a chi dessimo fastidio, secondo me a nessuno. Fu prima di patologia medica, un esame che, nel nostro canale SAM/SET, il prof London (un tipo vampiro con gli occhi cerchiati di viola) aveva reso impassabile/impossibile. Non me ne stavo preoccupando. Teresa era il mio pensiero, la mia intelligenza era sua, poesie e bugie, tutto per Teresa. E ripensare alla beata (beota?) tranquillità di quel prima, è come pensare al giorno prima della guerra: il mondo fece irruzione. E noi. E noi. Insomma, noi eravamo lì, nude sotto le lenzuola, a parlottare e giocherellare come cuccioli di cane in un cestino (due donne di 26 anni che facevano sesso, chiamiamo le cose come da lì a poco le avrebbe chiamate mia madre). Suonò il campanello di casa Preti e Elisa andò ad aprire, anoicheccifregava? La sentimmo parlare e le porte dell’ingresso e del corridoio che venivano aperte sbattendole. Ebbi un guizzo, ma non feci in tempo: mia madre sulla soglia mi guardava con lo sguardo iniettato d’indignazione, la mia nudità era indifendibile. "Amiche, eh?" disse. Girò le spalle e se ne andò col manto che volava nella sua furia: era Artù che deciderà cosa fare con lo scettro il trono e tutto l’armamentario del potere e al contempo era Ginevra tradita dal suo Lancillotto. Perché noi questo eravamo: un triangolo epico classico. Il tempo accelerò come se avessimo attivato i motori per l’iperspazio. Dovevo inseguirla, mi buttai nei vestiti, un vero pompiere. Oddio, come avrei fatto ora? Cosa avrei detto? Come mai era piombata lì così? Lui doveva averla tenuta sveglia coi suoi sospetti. Lui le aveva detto: credi a tua figlia e fai uno sbaglio, non è una persona di cui fidarsi. Lui l’aveva fomentata a indagare, l’aveva caricata a pallettoni. Lei era il braccio di lui, lei lo spettacolo lui il regista. Non volevo ammetterlo: loro due. E io. Loro due. E io. Non lo ammettevo, volevo credere che la mamma mi avrebbe capita e difesa: io e lei. Un conto era litigare con mio padre, universalmente conosciuto come ‘rogna’, un conto era deludere mia madre. Con lui mi sentivo una partigiana, paladina di cause giuste. Con lei la mia fedina penale si sporcava. La ragionevolezza di mia madre era la colonna d’Ercole oltre la quale non mi ero mai spinta. Cosa sarebbe successo? Mi avrebbero messo fuori di casa? Mi avrebbero rinchiusa in casa? Cosa mi avrebbero fatto? Mi aspettavano in veranda, la mia stanza, lei sul divano in lacrime, lui tranquillo in piedi vicino alla finestra: finalmente si dimostrava che io ero chi ero, come lui diceva da sette secoli. Lui il ventriloquo e lei il pupazzo. In piedi davanti a loro due capii l’inutilità di qualsiasi spiegazione. Difendermi sarebbe stato ammettere uno sbaglio. Tacqui guardando lei di sbieco e lui facendo mostra che non lo guardavo. Ipotizzo che la postura fosse di testa rintanata tra le spalle, tartaruga pronta all’arrocco, ma dentro stavo dritta, fiera. Era tardi per sgridarmi, avevo già fatto anni di pensieri, di mosse e contromosse. Tardi. Ma insomma, ne avevo letti di libri tragici in cui le punizioni agli ormai dell’amore sono terribili e fatali. "Da quanto?" chiese lei "Con Teresa?" sentivo tutta la contrazione dell’adrenalina e la bocca secca, avevo paura. Ogni parola peggiorava la mia situazione, ogni parola mi strappava di dosso i vestiti, sentivo la violenza che entrava mentre ammettevo. Non ero più fiera, già dalla prima frase. Erano più forti di me, avrebbero avuto la meglio. "Perché, con chi altri sei stata?" No, Lena non andava toccata. Lena no. Erano pericolosi, erano tremendi, sporcavano tutto, i loro occhi distruggevano i miei sentimenti, io ero ridotta a nulla dai loro occhi, non ero nessuno quando mi guardavano loro. Lena no. "Sto con Teresa da due anni". "Due anni!" esclamò lei e pianse di più nascondendo la faccia nel fazzoletto, mentre lui mi guardava come dire: ecco, sei contenta ora che l’hai fatta soffrire? Non ti vergogni? Non serviva, ora, che fosse cattivo giudicante svalutante sprezzante come al suo solito. Lei era perfetta. A ogni parola perdevo terreno, camminavo sulla duna del loro giudizio e franavo a ogni passo. "Perché non l’hai detto?" disse lei, come se non fosse evidente il perché. E poi aggiunse: "cosa intendi fare?" come se potessi restituire una refurtiva o espiare o scusarmi. "Io sto con Teresa. Non ho nessuna intenzione di lasciarla". Lo dissi con la bocca piena di sabbia, le parole uscirono scabre rauche asciutte. E, mentre le pronunciavo, aspettavo un peggio possibile, concepibile, ero spaventata, ma. "Cosa volete fare? Mi volete mandare via? Posso andare via anche subito". Qualsiasi cosa, ma lasciare Teresa no. "Fammici pensare" disse lei. Poi, più tardi, mentre lavavamo i piatti, mi disse: "sbrigati a laurearti. Starai qui fino alla laurea". Mi mancavano 18 esami. E il primo era patologia medica, che Lena aveva già dato col massimo dei voti, malgrado il vampiro. Ma quella di mia madre non era un’esortazione. "Una lesbica senza titolo di studio non va da nessuna parte. Almeno diventa una persona ‘particolare’, invece di una cameriera senza famiglia con le spalle scoperte". La regina mi aveva dato un ordine. E non mi aveva tagliato la testa. Mia madre in poche ore si era resettata e ritirava fuori la sua suprema intelligenza. Mio padre l’aveva detto, lo diceva da anni che io ero chi ero. Per lui non era una novità: non cambiò niente. Accettarono entrambi l’omosessualità perfino meglio del resto della mia persona. Cominciai a correre, improvvisamente la savana era obbligatoria, dovevo sostenere me stessa, la mia identità. Nessun nemico all’orizzonte, solo la voragine della mia coscienza sempre lì a un passo.
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