POETI INCONTRATI FUORI DALLA STRADA BIANCA - Filippo Golia incontra ... ?


Poeti incontrati fuori dalla strada bianca - Ultimo ritratto

 

L’ultimo ritratto della rubrica Poeti incontrati fuori dalla strada bianca sarà una foto di gruppo, in parte un autoscatto.
La rubrica è iniziata circa un anno fa ed è ora che arrivi alla fine. Sia perché si basa su incontri reali, avvenuti nel corso della mia vita, ma limitati nel numero, sia perché mi sembra di aver sfruttato questa “maniera” di raccontare in tutte le sue possibilità, e proseguire potrebbe renderla noiosa.
Ho iniziato con Elisabetta Destasio Vettori, che nel frattempo ha affrontato il suo calvario ed è scomparsa. Fu un’occasione, una delle ultime, per risentirsi. Poi sono andato avanti con Beatrice Zerbini, Gabriele Galloni (unica eccezione: non ci siamo incontrati di persona), Andrea D’Urso e tanti altri.
L’idea, esplicita fin dal titolo, era quella di rappresentare, in una serie di istantanee, una poesia ancora non canonizzata, anche se già affermata, molto o poco, nei circuiti editoriali. Mentre scrivevo e portavo avanti, mese per mese, questa galleria “minore” mi sono imbattuto spesso, in rete, nelle lamentazioni di qualche importante autore, o di operatori del mondo della cultura, sull’eccessivo numero di poeti in circolazione, di cui solo uno su mille lo è per davvero, o forse uno su un milione.
Ne nascono pochi in un secolo, diceva Moravia, durante quei funerali.
Questa storia del “vero” poeta è abissale e chissà quanti poeti affermati (o professionisti?) non sopravviverebbero al micidiale giochino. Secondo uno dei personaggi dell’ultimo Salinger, un vero poeta dovrebbe essere almeno in grado di riconoscere, alla fine di una serata, il cappotto da restituire ad ogni ospite, al primo sguardo.
Sorrisini: arguti, di scetticismo, di degnazione, di sapiente intesa oppure malandrini (un poeta autentico barerebbe!)
Forse, invece che insistere nel tremendo rompicapo, sarebbe più onesto interrogarsi sul perché di una così diffusa propensione per la poesia: in una civiltà ormai diventata del tutto digitale –  in cui ogni cosa equivale a un numero, che esprime un valore o un aggregato di dati – il sentimento del sussistere di legami analogici e non valoriali (possibilmente nemmeno causali o razionali) trova pochi campi in cui svolgersi. Uno di questi è la poesia.
Ho così continuato il mio viaggio, rendendomi conto, nel frattempo, che a molti sarebbe piaciuto entrare nella galleria dei miei ritratti, ma intuendo anche che altrettanti devono essersi augurati di non aver mai nulla a che fare con me e che non mi saltasse per la testa nemmeno di inquadrarli da lontano.
Il mio viaggio è sfociato naturalmente, come un lungo fiume, nell’accogliente bacino del Festival della poesia di Grosseto, organizzato da David la Mantia, festival che poi è il corrispettivo mondano del blog in cui mi leggete. E non ha nulla di quell’atmosfera un po’ grigia e seriosa di molti ritrovi, premi e congressi dedicati alla poesia: è invece un rito collettivo, una grande jam session, un ritrovo festoso, un reading-maratona, fatto ad immagine e somiglianza del suo ideatore: David La Mantia.
Ho ascoltato per due giorni leggere poesie ininterrottamente, in un parco, nella troniera all’interno della cinta muraria del Cinquecento di Grosseto, lette da molti e da molti ascoltate. Tra gli altri, ho scoperto un poeta fuori dal comune, Marco Brogi, che sembra la riuscita miscela di un autore giapponese di haiku e di un poeta cinese della quotidianità come Li Po, con una perfida punta toscana alla Giuseppe Giusti. Capace di scrivere cose così:

La luna batte sul frigo.
La tenda rimane.
Indosso il tuo stesso abito
da sopravvissuto.
Nel recinto di queste parole
la ciabatta sogna
di correre la maratona.

Oppure:

La poesia non è di chi la scrive,
appartiene al vento, alle pompe di benzina
ai baristi, ai lavavetri, alle donne delle pulizie.
Quando riceve applausi in Parlamento
riceve il vaffanculo dell’universo.

David La Mantia, dicevo, è incredibile, a raccontarsi: un frate, un orco buono, un poeta operaio, il pazzo di cui si ciancia nel film Dead poet’s society. Scrive copiose e fluenti poesie (e prose) in cui ogni cosa diventa facilmente metafora delle altre e viceversa, con una tessitura aerea e leggera, come di un Neruda o di un Ferlinghetti, trattenute però al suolo da una terragna saggezza, una sapienza di famiglia, di povere stagioni vissute con dignità e consapevolezza.
E David La Mantia, nell’organizzare il festival, è assistito da quattro donne (che sono poi le curatrici di questo sito/blog), che scrivono poesie, con stili molto diversi tra loro, e si vogliono, mi è sembrato, molto bene.
C’è Stefania Giammillaro, in cui si indovina un guizzo da allegro clown nelle feste di bambini, da giocoso puparo nelle fiere di paese – e nelle poesie in dialetto siciliano un’eco fantastica ne arriva ancora – perso in una condizione adulta, femminile e linguisticamente neutra, che le ha imposto un’infinità di maschere; e ora è lì, a sfogliarle una ad una, con le pinzette affilatissime (ahi, quante ferite) della poesia, tra un sovrabbondare di immagini frantumate (secondo il dettato di Sylvia Plath) e una sofferta attitudine penitenziale, che non sembra poter aver fine (tutto questo a sua insaputa? Errata complice, è il titolo del suo ultimo e bel libro).
C’è Doris Bellomusto, con il suo magico naturalismo, panico e matriarcale (Pappagena! bist Du wirklich sie?).
E Viola Bruno, per me la più opaca (nel senso che non credo di vedere al fondo di ciò che scrive): fa ruotare le sue poesie sul perno di morte/nulla/teatro/apparenza e illuminazione, quindi con un movimento sostanzialmente barocco, anche se ridotto all’essenziale (condividiamo, noto, la stima per la poesia di Forugh Farrokhzad).
Qualche parola in più la voglio e devo spendere per Melania Valenti, perché è lei che mi ha condotto in questa avventura. Per anni mi ha inviato con fiducia e affetto, senza conoscermi di persona, dei piccoli libri di poesie, costruiti artigianalmente da lei (con qualche aiuto), in parte stampati ma in gran parte scritti a mano, accompagnati da disegni, in cui tornava ad essere importante la calligrafia; e dentro c‘era una poesia fresca, ingenua, infantile, anche complessa a tratti, forse sovrabbondante e non limata, proprio perché composta di getto.
Operava in questi libri il retropensiero – romantico, romanzesco – che il mare vada dipinto con i piedi a mollo e utilizzando acqua di mare; e altrettanto per il cielo, il vento, la foresta e così via; che la poesia sia appena un vetro trasparente (forse a volte appannato o rigato) davanti a una realtà che sa esprimersi da sola.
Nel libro che ha pubblicato quest’anno per l’editore Bertoni, Vani, le poesie sono cambiate. Pulite con la pietra pomice, sono ridotte all’essenza, si sono scrollate di dosso ogni eccesso: brevi, a volte anche taglienti:

In sogno stanotte
lanciavo un messaggio
in una bottiglia.

Per tutte le anime perse,
muoviamoci insieme.

Il risveglio è più duro,
quando senti che intorno
non hai più nessuno

O anche

Mai tornare
dove si è stati felici.
Soltanto crepe,
sui muri scrostati

E ancora:

Nessuno salva
nessuno che non voglia.

Feroce la notte
continua a finire.
Feroce il suo giorno
a iniziare.

Nulla riesce a cambiare.

Ma il principio compositivo resta lo stesso: quello di una poesia onesta e trasparente, che impiega strumenti elementari per arrivare a verità immediate.
Crinale rischiosissimo. Quello che era possibile all’origine, per i lirici greci, quello che è stato possibile nel 900 ancora un’ultima volta – al prezzo non indifferente di immolarvi intera la propria sessualità – con Sandro Penna, non lo è ormai più. Ogni tentativo di fare della poesia un veicolo immediato di un mondo naturale e sentimentale originario, autentico, rischia di finire in esiti crepuscolari. La semplicità è bandita dai nostri tempi. 
Beauty is difficoult” ripete più volte l’illustratore Aubrey Beardsley nei Cantos pisani di Ezra Pound.
Ma Melania Valenti mostra di aver raggiunto la maturità per riflettere su questo, ha spogliato abbastanza la sua poesia da renderla credibile, efficace:

I giapponesi sono strani

Komerobi dicono.
E non è solo la luce
che filtra tra le foglie
degli alberi. Sono le cose
che mutano con te
e che riconosci solo
quando passano per sempre,
esplodendoti dentro.

Più in breve:

Fortunato chi tra gli anni
accovacciati nelle rughe
rimane quel bambino
che stupito sorrideva.

La cifra di queste poesie è ancora la generosità.
I poeti, al di là di ciò che si crede, devono essere avari.
Melania si tormenta nel mezzo. Quel tormento è autentico e colora tutta la sua poetica.


Commenti

  1. Concordo pienamente. Sguardo lunghissimo. Sicuramente tu riesci nell'impresa di distribuire i cappotti. Bel pezzo!

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    1. grazie tante!

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    2. Ciao Maria Pia. Ho letto solo ora il tuo commento qui. Non me l'aspettavo! Di solito i commenti sono nei social... Grazie, ho sempre sognato di azzeccare i cappotti :)

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