POESIA E ALTRE FORME - Massimo Maggiore - LA VITALITA’ DEL BAROCCO CHE SI FA BEFFE DEL TEMPO

 

Massimo Maggiore



Oggi mi soffermo su un periodo e un movimento artistico, una visione del mondo, molto ben determinato e noto storicamente, fortemente presente nell’immaginario nostro (di europei e italiani in particolare), per certi versi più di quanto non lo siano altri periodi e movimenti storicamente non meno affermati. Si tratta dell’estetica racchiusa sotto il termine di Barocco.


Perché farlo? La prima risposta che mi viene di dare è perché sono di origini salentine e penso che i miei occhi, quando inconsapevolmente hanno cominciato a mettere a fuoco le prime manifestazioni dell’ambiente esterno, a confrontarsi per la prima volta con il metalinguaggio che è ogni forma espressiva umana, lo abbia fatto con il Barocco, e con quella particolare manifestazione che ne è stata il Barocco leccese.


Il periodo Barocco è durato a lungo, dalla fine del ‘500, fino alla metà circa del ‘700, pur se la sua fioritura è databile intorno agli anni 30 del ‘600. Presso alcuni il Barocco gode di una fama negativa immeritata, dovuta alla sua identificazione con il superfluo, l’arzigogolo, l’arabesco. Fama che deriva dal battage negativo che già se ne fece in epoca illuminista, ma che è fallace, se si pensa ad esempio che l’epoca Barocca conobbe tra i suoi contemporanei anche Blaise Pascal e la tesi che propose di sovrapporre essere e pensiero (cogito ergo sum) e quindi qualificare l’uomo come un “roseau pensant” (una canna pensante), più nobile di qualsiasi cosa, perché sa di morire, essendo al contempo capace lui solo di leggere l’universo.


Il Barocco come côté estetico nasce a Roma. La Roma dei monumenti e delle opere d’arte che oggi possiamo ammirare è in buona parte una superfetazione Barocca su uno scheletro di lasciti delle epoche precedenti. Basti pensare a uno dei massimi artisti della Roma barocca, Gian Lorenzo Bernini. Se pensiamo a Roma, probabilmente tra le prime immagini che viene spontaneo associare alla città, molti citeranno il colonnato berniniano di Piazza San Pietro.





Il colonnato fu ultimato diversi decenni dopo il completamento della facciata della Basilica, risalente quest’ultimo al 1614, mentre la sistemazione della piazza con il completamento del colonnato è del 1667 circa. Qui un “temporalista” come me (termine che uso in senso improprio, per definire colui che tende a interpretare ogni cosa nel fluire del tempo) non può non notare come l’architettura - non solo quella sacra ma in generale quella che mira a trasformare il paesaggio con un respiro universalista – è tra i migliori testimoni della capacità dell’uomo di pensarsi come ben altro, che non un individuo con un tempo finito. L’architetto sa, nel momento in cui realizza la propria opera, che essa avrà un senso se travalica il suo tempo, che dovrà annullarsi nel tempo futuro della sequela di secoli che quell’opera ha davanti.


In questo senso, il colonnato berniniano è esemplare di un gesto architettonico che, anche per la committenza, nasce in un certo senso per essere votato all’eternità. L’opera si gioca su un registro visibilmente simbolico, a significare l’abbraccio della Chiesa Cattolica di Roma verso l’umanità, un gesto di accoglienza che si irradia dalla tomba di Pietro custodita sotto la cupola michelangiolesca, che – restando all’immaginario simbolico – è la testa di una Chiesa da cui si avvista e si domina l’intera vicenda umana, quasi in unità temporale.


La prima scena di uno dei più bei film dell’intera storia del cinema mondiale, La Dolce Vita di Fellini, è ambientata proprio all’interno della cupola della Basilica di San Pietro (non girata ma solo ambientata perché è noto che Fellini prediligesse girare nei teatri di posa, ricostruendo se necessario luoghi reali).



É Anita Ekberg (Sylvia nella finzione) che sale con Marcello Mastroianni (Marcello anche nella finzione) le scale all’interno della cupola, nella intercapedine tra la cupola più piccola interna e quella più esterna che la racchiude e contiene, fino ad arrivare ad affacciarsi verso la piazza e il colonnato di Bernini.




Fellini è stato un grande poeta, non scevro da un certo barocchismo, nell’accezione buona del termine. Ad animarlo è un fortissimo senso della teatralità e della immaginazione e un altrettanto forte vitalismo, esattamente come nell’arte Barocca. Il Barocco vuole suscitare meraviglia nello spettatore, come mezzo per risvegliare pensiero e spiritualità. È una forma d’arte a me cara, non sempre per i suoi specifici esiti estetici, quanto per il suo essere un’arte discinta, provocatoria, profondamente sensoriale e sensuale. Esattamente come i film del mio amato Federico.


Devo qui citare un’altra opera di Bernini, particolarmente significativa del senso di meravigliosa libertà e teatralità, fortemente ancorata ai sensi, che l’arte Barocca sa evocare. È l’estasi (o Transverberazione) di Santa Teresa d’Avila presso la Chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma



È un’opera che è quintessenza dell’estetica barocca, e che occorre lasciar parlare da sé, abbandonandosi totalmente al registro comunicativo puramente sensoriale che essa innesca. Estasi del corpo, orgasmo dell’anima. Inverte i termini del climax che anima e corpo raggiungono, l’uno associato alla spiritualità, l’altra alla carnalità, ovvero alle irradiazioni di impulsi elettrici di piacere, che in entrambi i casi portano alla trascendenza dell’assoluto nel qui ed ora e nient’altro, nessun altro.


L’epoca Barocca ha generato lasciti ricchissimi e ancora oggi fecondi in ogni campo, compresi quelli della scienza e della filosofia, ma è nella musica che il Barocco sembra rappresentare meglio la mescolanza tra elementi di razionalità e irrazionalità, di accesa vitalità e profondissima spiritualità, che a me sembra essere un po’ il segno distintivo dell’estetica Barocca. Non cito qui i grandissimi, come Bach, Händel, Monteverdi, Purcell o Vivaldi (ma l’elenco è molto più lungo), quanto un pezzo musicale bellissimo, sia per la musica che per le parole, che si può facilmente ascoltare online. Si tratta della Passacaglia della Vita, di cui suggerisco l’ascolto nell’interpretazione di Rosemary Standley, che la rende ancor più dolce per l’accento anglofono con cui canta il testo in italiano.


Si tratta di un pezzo appartenente al genere noto, appunto, come Passacaglia, una forma musicale di “strada” diventata particolarmente popolare proprio nel ‘600, il cui titolo originario è Homo fugit velut umbra (L'uomo fugge come un'ombra). Si tratta di un componimento anonimo del 1657, tratto dalle raccolta di Canzonette Spirituali e Morali. La Passacaglia della Vita ha un testo splendidamente languido nel suo guardare con leggiadria alla morte, quale destino ineluttabile dell’uomo e, secondo Pascal, sua nobilitazione. Ecco alcuni versi tratti dal testo:


Oh come t'inganni

se pensi che gl'anni

non hann' da finire,

bisogna morire.

È un sogno la vita

che par sì gradita,

è breve gioire,

bisogna morire.

[…]

La morte crudele

a tutti è infedele,

ogn'uno svergogna,

morire bisogna.

[…]

Si more cantando,

si more sonando

la Cetra, o Sampogna,

morire bisogna.

Si muore danzando,

bevendo, mangiando;

con quella carogna morire bisogna.


E’ una riflessione che si fa anche beffe del destino ultimo di noi esseri umani e invita se si vuole, nel solco della tradizione poetica classica del “carpe diem quam minima credula postero” a riconoscere nella morte non tanto o solo un esito infausto, quanto un approdo necessario, nemmeno da esorcizzare. A me così suona quel ripetitivo “morire bisogna”, ossia l’uso del verbo che richiama a un dover essere assurdamente ottativo. Un canto, peraltro, umanissimo, di un’umanità che può anche fare a meno di Dio.


A questo punto della pagina ritorno al richiamo delle origini salentine per condividere l’immagine della barocchissima facciata della Basilica di Santa Croce a Lecce.






La specificità del barocco leccese e degli edifici che lo caratterizzano risiede tutta nello sfruttamento della pietra locale, detta appunto leccese, da cui scaturisce la unicità espressiva di quel barocco. Niente marmi, a differenza di Roma, ma una pietra chiarissima e porosa, frutto della sedimentazione millenaria di batteri marini, poi emersa quando dal mare emerse la penisola salentina. Sua caratteristica saliente è l’essere malleabile, docile alle fantasie degli scalpellini e degli artisti dell’epoca, che usarono la pietra come da nessuna altra parte, per farne fiori, merletti, animali fantastici, piumaggi e decori tra i più arditi. Quella pietra cattura la luce e la restituisce, non limitandosi a rifletterla, quasi rielaborandola, facendo della luce una sorta di metabolita di quella pietra.

Un effetto scenico e di meraviglia unico, che permea di sé le strade di Lecce. Ma sono uno che viene di lì, poco oggettivo, molto dipendente da quelle emozioni native che echeggeranno in me per sempre.



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