LE MONOGRAFIE DI FINESTRE - CINQUE FINESTRE SULLA POESIA - Denata Ndreca (a cura di D.Bellomusto, M.Valenti, D. La Mantia, V. Bruno, S. Giammillaro)
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Denata Ndreca |
Eccoci al quinto appuntamento del nostro progetto di redazione "Cinque Finestre sulla poesia". Questo mese dedichiamo la nostra attenzione a Denata Ndreca. Come sempre i cinque redattori del direttivo di Finestre hanno selezionato ognuno un testo dell'autrice albanese e lo hanno commentato secondo il proprio sentire.
Buona poesia e buona lettura.
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Manuale di istruzioni:
se piove
raccogliere le foglie
e liberare i tombini -
altrimenti
l'acqua non scorre
(da In quale lingua devo morire, Besa Muci, 2025)
***
Leggo piano e respiro forte, mi
raggiunge come fosse vento la voce indimenticabile di Pino Daniele...
“E aspiette che chiove
L'acqua te 'nfonne e va
Tanto l'aria s'adda cagna'
Ma po' quanno chiove
L'acqua te 'nfonne e va
Tanto l'aria s'adda cagna"
In questo minuto e perentorio manuale
d'istruzioni c'è la stessa voglia di accogliere la pioggia che arriva
improvvisa e farle spazio, lasciare che segua il suo corso.
Raccogliere le foglie - un piccolo
verso che accarezza il cuore con un'accorta allitterazione e invita a un'azione
concreta e ordinaria, segue l'istruzione di "liberare i tombini".
Due versi apparentemente prosaici, in cui riecheggia la storia secolare di
simboli, analogie e metafore; uno spazio
bianco tra i primi versi e gli ultimi due sembra essere un respiro, prima di
giungere a una conclusione tanto ovvia quanto amara
altrimenti
l'acqua non scorre.
Leggo piano ancora una volta, respiro.
Se piove raccoglierò le foglie.
Doris Bellomusto
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Cade lo
sguardo dai
tronchi
spogli degli alberi,
ponente
- il vento - che lo porta via
galoppa
nelle tempie il sangue
nero e
rosso – misto,
io resto
qua, contemplo il tuo sorriso
tutto è
immobile davanti a questa croce
simbolo
di vita - simbolo di morte,
morte
che non arriva mai a mani vuote
abbracci,
il pianto degli amici,
altri
sami secchi, spogli, recisi
nel
giorno del funerale
annaffio
il seme del
tempo dei giorni - prima di andare
(da In quale lingua devo morire, Besa Muci, 2025)
***
In questa lirica, scelta dall’ultima raccolta
di Denata Ndreca In quale lingua devo
morire, l’autrice ci introduce già dall’inizio - dai tronchi spogli degli alberi - nel cuore silenzioso del lutto
con una voce misurata, ma profondamente evocativa. I suoi versi brevi,
cesellati con attenzione, non cercano il dramma né la consolazione facile:
preferiscono il vuoto, seppure carico di significato, l’assenza che si fa presenza,
e una memoria che costruisce il futuro in ricordo del passato. Ma la poeta
dichiara fortemente la sua appartenenza al presente, lo afferra e lo afferma a
chiara voce - io resto qua, contemplo il
tuo sorriso -.
Vi è nell’incipit un mondo fermo, invernale o autunnale, in cui la natura sembra riflettere il deserto emotivo di chi resta, salvo farsi trascinare da quel vento, il ponente, che non è solo sfondo, ma forza che trascina via lo sguardo, i pensieri, e forse anche il tempo stesso. E questo spazio esteriore diviene rappresentazione interiore del dolore, che prende forma fisica - galoppa nelle tempie il sangue / nero e rosso – misto. È, questa, una delle immagini più potenti dell’intera poesia, dove il rosso della vita si mescola al nero del lutto, della morte, cuore simbolico del testo, insieme all’immagine della croce, che l’autrice nomina non solo come segno religioso, ma come doppio emblema di vita e morte: tutto è immobile davanti a questa croce/ simbolo di vita - simbolo di morte -, in cui Ndreca si ricollega a una tradizione culturale che legge nella croce non solo il sacrificio, ma la possibilità di resurrezione, di rinnovamento e, quindi, anche segno di speranza. E questo invito alla vita è ciò che anima l’ultima splendida strofa, in cui non si cura di onorare i defunti nel giorno della loro fine, ma di coltivarne la memoria nel quotidiano - ai morti non porto fiori / nel giorno del funerale / annaffio il seme del / tempo dei giorni - prima di andare- finché si è ancora in vita. È un invito alla cura, alla continuità, alla responsabilità della memoria come atto vitale e fertile.
Con uno stile lucido e senza sbavature, in una lingua sobria, autentica, asciutta, Denata Ndreca si distingue nel panorama poetico contemporaneo, spesso tentato dal compiacimento formale o dalla ricerca del sensazionalismo, proponendo una poesia evocativa ma potentemente afferrata al reale, invitando alla responsabilità etica di mantenere vivo il ricordo, la memoria, con azioni di cura, di giornaliero atto vitale di responsabilità. Tecnicamente non mancano le figure retoriche, sapientemente camuffate ma presenti nell' enjambment ricorrente, nell’anafora, nell’antitesi di concetti e lemmi dal significato opposto (vita / morte), nella personificazione (morte che non arriva mai a mani vuote) o nel simbolismo che ricorre nell’intera lirica.
Melania Valenti
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Ti toglieranno il nome –
ma sei senza terra
e non ti potranno seppellire
Ricordati di compiere
la tua unica vendetta –
rifiorire
(da Fiori dei Balcani, Besa Muci, 2024)
***
Poeta, scrittrice, giornalista, traduttrice, saggista, formatrice, pedagogista. Chi è davvero Denata Ndreca? Un ponte tra paesi, una esperta dell'arte di rifiorire, chi ha saputo trasformare il dolore in medicina, una testimone incolpevole del reato di essere nata dall’altra parte della riva. Denata, nei versi scelti, è in grado di gemellare testi di poesia civile con la tradizione lirica. Dietro c'è di certo l'amatissimo Caproni, soprattutto nelle allegorie del viaggio come percorso dell'esistenza umana. Nel tema dell'esilio in terra, caro anche a Montale. Nel linguaggio essenziale scarnificato dagli aggettivi. Ma si scorgono anche altre presenze significative, dalla speranzosa Dickinson a Sibilla Aleramo, con la sua scrittura femminista e di denuncia, tesa quasi all'invettiva, fino ad Antonia Pozzi, per la sua lirica intensa e nervosa, alla ricerca di una difficile serenità. Ma il centro intorno cui tutto gira, il motore del testo è, senz’altro, la donna, mostrata "intera", senza eufemismi, nel suo stato sempre pascaliano di essere in bilico tra fragilità e forza, costantemente succube del dolore e della violenza fisica, verbale e culturale. Eppure sempre in grado di rinascere dalle sue ceneri, sempre pronta a rifiorire. Perché c'è l'amore e l’amore è la forza più grande di tutte, dato che "il cuore ha ragioni che la ragione non conosce". La vendetta è rinnovarsi. Non darla mai vinta a chi ti vuole schiacciare. E rinascere proprio come un seme in quella terra negata. Rinnovarsi, rinascere, ritrovarsi. Ed appunto rifiorire. Sono le parole che l'artista usa nel fulmen in clausola delle poesie più importanti. Le parole che illuminano un testo, le parole che dai gesti più lievi conducono all'esplosione anche di un solo lampo di gioia pura, il lampo catartico che tutto avvolge e libera, così potente da restare nel ricordo. Ricordo che è un rimembrare, un sentire nella carne.
Tecnicamente, la poesia, costituita da due lasse di tre versi ciascuna, non è molto ricca di figure retoriche. C'è una paronomasia a contatto (sei senza). Si evidenzia, infine, una forte componente verbale (7 verbi in 6 versi), tanto da chiudersi proprio con un infinito presente in omoteleuto (seppellire- rifiorire), un vero e proprio ossimoro in rima.
David La Mantia
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Ti guardo silenziosamente
mentre invadi i muri.
Più tardi ti guardo e più respiro.
Più ti respiro e più mi riempio di te.
Più mi riempio di te e più piccola divento.
Più piccola divento –
Più corro.
Corro tutte le volte
Che ti vedo esplodere e vestir Firenze di viola.
Corro verso non so dove.
Corro
verso la porta di casa di mia nonna che non c’è più.
Corro
lungo il tuo tronco
che mi porta per le strade della mia vecchia –
sofferente città.
Corro più forte della velocità con la quale
si spande il tuo profumo,
fino a quando non ti tocco e rimango ferma.
Lule Vile – Glicine.
Glicine mio (pieno di spine)
che buchi i ricordi
della mia amata Scutari.
Sono rimaste lì le mie radici.
(da Fiori dei Balcani, Besa Muci, 2024)
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C’è un istante, nella poesia di Denata Ndreca, in cui la lingua comincia a correre da sola.
È il momento in cui la parola si stacca dalla memoria e la insegue – come un animale fedele e inquieto che non riesce più a tornare indietro. “Più tardi ti guardo e più respiro./ Più ti respiro e più mi riempio di te./ Più mi riempio di te e più piccola divento.”
In questi versi tutto accade dentro una catena ipnotica di anafore e anadiplosi: la frase si dilata come un respiro che cerca se stesso, come se ogni atto di avvicinamento all’oggetto amato comportasse una perdita proporzionale di sé.
Guardare, respirare, riempirsi, diventare piccoli: il movimento dell’io è centrifugo e regressivo, un ritorno a qualcosa che precede la forma, forse all’infanzia, forse alla lingua madre.
Denata Ndreca, nata a Scutari e da anni residente a Firenze, scrive sempre tra due rive: quella della memoria e quella del presente, quella della lingua d’origine e di quella d’adozione.
La sua poesia abita il confine mobile tra appartenenza e sradicamento — ed è proprio in questo luogo ibrido che trova la sua forza. Qui la nostalgia non è rifugio, ma corrente viva: una spinta che costringe l’io a ripercorrere il sentiero dei profumi, dei colori, delle voci perdute.
Il glicine, con la sua invasione silenziosa — “Ti guardo silenziosamente / mentre invadi i muri” — diventa la figura stessa del richiamo: la memoria che fiorisce senza chiedere permesso, la bellezza che, nel gesto stesso del rinascere, ferisce.
Nel componimento il ritmo si tende come un filo di vento, una vibrazione sottile, un canto fisico, quasi corporeo.
Il verbo correre ritorna ossessivamente, come un battito che scandisce il respiro: “Più corro. / Corro tutte le volte / che ti vedo esplodere e vestir Firenze di viola. / Corro verso non so dove. / Corro verso la porta di casa di mia nonna che non c’è più.”
La corsa è il cuore segreto di questa poesia: è insieme fuga e ritorno, desiderio e impotenza.
Non si corre per arrivare, ma per tenere accesa la fiamma del ricordo — come se l’unico modo per non smarrirsi fosse inseguire ancora ciò che non esiste più.
È un verbo rituale, affine a quell’“arrivo” e a quel “saluterò” che ritornano nei versi di Saluterò di nuovo il sole di Forugh Farrokhzad:
“Arrivo, arrivo, arrivo,/ con i miei capelli come odori/ che sgorgano dal sottosuolo/ e gli occhi miei, l’esperienza densa del buio./ Con gli arbusti che ho strappato ai boschi oltre il muro./ Arrivo, arrivo, arrivo,/ e la soglia trabocca d’amore”…
E ancora, nei suoi versi: “Saluterò di nuovo il sole,/ e il torrente che mi scorreva in petto,/ saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri/ e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino/ che con me hanno percorso le aride stagioni./ Saluterò gli stormi di corvi”…
Anche qui, il gesto ripetuto diventa un modo per dare corpo alla perdita — per trasfigurare la mancanza in preghiera, come se solo la parola potesse restituire forma a ciò che è assente.
Il canto nostalgico di Denata si leva con una forza sorella a quella di Forugh — e come lei affida al ritmo il compito segreto di guarire. La ripetizione diviene grammatica dell’esilio: non un difetto di memoria, ma un modo di tornarvi dentro con respiro nuovo, con un coraggio più grande. Entrambe le poetesse, dalla profondità dei loro occhi scuri, abitano lo spazio del ricordo come in una terra viva, dove il dolore è radice e la lingua è fiore.
Eppure, se Farrokhzad saluta il sole per ritrovarlo, Ndreca corre forse verso qualcosa che resta irraggiungibile. Nel suo testo, l’infanzia e la patria si dissolvono in un’eco: “la porta di casa di mia nonna che non c’è più,” “la mia vecchia – sofferente città,” “Sono rimaste lì le mie radici.”
Il gesto poetico non guarisce, ma nomina la ferita. E in questa nominazione c’è la sola forma possibile di pace.
Glicine — Lule vile compone la propria musica attraverso il continuo oscillare fra periodi ampi e improvvisi tagli di respiro: “Più piccola divento —/ Più corro.”
Il trattino apre una fenditura nel ritmo, un passo sospeso, un vuoto. È il punto in cui la corsa trattiene il fiato, e il silenzio diventa parte del movimento.
Gli enjambement spezzano la linearità e costringono l’occhio a inciampare — a percepire fisicamente la discontinuità della memoria.
La lingua di Denata Ndreca è insieme limpida e pulsante: nella sua semplicità musicale nasconde la profondità di una voce che si muove “in traduzione”, come se ogni parola contenesse un’eco di un’altra lingua. Fin dal titolo, Il glicine - Lule vile, riesce a custodire una dolcezza fonica profonda e intatta in entrambe le lingue, come un passo di danza tra due rive. Il glicine non è solo un fiore: è il doppio dell’io, la sua proiezione più intima. “Glicine mio (pieno di spine)/ che buchi i ricordi / della mia amata Scutari. ”Il fiore amato diventa corpo estraneo, ferita. È una memoria che non consola ma graffia, un passato che resiste e continua a invadere i muri dell’anima. Eppure proprio in questo dolore si compie la bellezza del testo: il glicine non è soltanto simbolo di nostalgia, ma di sopravvivenza – di una vita che, pur lontana, continua a fiorire. In fondo, ogni ritorno è impossibile. Ndreca lo sa quando scrive “Sono rimaste lì le mie radici”: la dichiarazione è definitiva — ma non disperata. Le radici non sono solo un punto fermo nel passato, sono anche un nutrimento segreto. Si resta vivi di ciò che è rimasto indietro, come se la distanza stessa fosse la linfa che alimenta la voce.
La corsa si ferma solo nell’ultimo verso, ma la parola no. La poesia stessa è la corsa: è il respiro che tenta di colmare l’assenza, l’invasione silenziosa del glicine nel cuore della lingua.
Con Glicine — Lule vile, Denata Ndreca scrive una preghiera intima al tempo e alla terra.
È un testo che si espande come un profumo, ritorna come un’eco, dove la nostalgia diventa forma e la memoria, come il glicine, resiste tenace sulle rovine.
Correre, qui, non significa fuggire: significa non smettere mai di ricordare.
Viola Bruno
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Nina
tiene
in collo
la
bambola
aspetta
la madre
in
cortile
vuol
giocare
Nina
sente
le
porte del corridoio
chiudersi
i
passi delle guardie che
stanno
per arrivare
Nina
gira
la testa per
vedere
la madre
gira
la testa verso
l’arco
del muro bianco da dove
la
madre dovrebbe arrivare
Nina
stringe
la
bambola
la
deve tranquillizzare
Nina
dice che
la
mamma sta bene
e,
tra un po’
la
vedrà tornare
Nina
abbassa
lo
sguardo
verso
i lacci delle
scarpe
dell’educatrice
Nina
dice
– “con la mamma ero felice”
Nina
cammina
nel
cortile protetto
non
ha più nessuno
nessuno
che la stringe sul petto
Nina
torna
in casa famiglia,
sul
tavolo dell’ambiente comune
ci
sono i fogli
dove
dovrà disegnare
Nina
vuol
andare
nella
cameretta
cerca
il calore dell’abbraccio
rimasto
sulla sua coperta
Nina
non
canta
ninnananna
Nina
non
canta alla
bambola
che non parla
Nina
non
dorme
trema
dal freddo
cerca
le stelle dietro il vetro
Nina
non
ha voce
per
parlare
Nina
vuole
solo
volare
(da In quale
lingua devo morire, Besa Muci, 2025)
***
Nina è la protagonista di questi preziosi versi di Denata Ndreca, tratti dalla sua ultima silloge “In che lingua devo morire”, edita da Besa Muci nel 2025. Nina racchiude già in sé una forza evocativa e polisemica tale da bastare a riempire completamente l’intero verso all’inizio di ogni strofa.
Non sembra causale, infatti, la scelta del nome “Nina”, che rievoca il lemma spagnolo niña, che significa appunto “bambina”, con l’intento di creare sin da subito, attraverso il ricorso all’anafora, un rimando preciso ad un accesso universale, ad un voler richiamare l’attenzione, concentrare lo sguardo su una potentissima evidenza, che sembra suggerire: “sappi che Nina è ogni bambina”.
Tuttavia, diversamente dall’attuale e gettonato topos poetico della “bambina”, quale radice e testimone di una ferita originaria, la niña-Denata (o di Denata) appare orientata ad esprimere una “transizione” o “divaricazione” tra il “prima” ed il “dopo”, che vive il presente e/o nel presente della stessa autrice, piuttosto che farsi portavoce delle ragioni sottese alle proprie cicatrici d’anima.
Altra sfera semantica che potrebbe accordarsi a Nina è, peraltro, la sua non contraddizione con il titolo. Potrebbe chiedersi invero: quale risposta trovare alla domanda d’apertura, se ci si sofferma su Nina? La soluzione è dietro l’angolo e la chiave già nelle nostre mani, occorreva l’accorgersi della nostra per farci nuovamente assaporare la saggia conquista di vita che Ungaretti ha ereditato da Iacopone da Todi: “La morte/si sconta/vivendo”. Così si conclude la poesia “Sono una creatura” lasciando ai posteri una constatazione amara e verissima: che lo svolgimento della vita sia tremendo lo si capisce dal suo inizio, visto che già nel ventre materno si comincia a morire; ancora prima di venire al mondo, infatti, si paga l’arra (arrate) alla morte, cioè la caparra, il pagamento anticipato che ci lega fino alla fine, fino a quando cioè non finiamo di pagare morendo.
Nina ha dunque già in sé tutte le risposte, tocca a noi intercettarle nello spazio tra le parole, in questi versi asciutti, ma continui, che tengono saldo il ritmo del battito, prestando fede alla potenza sonora della parola poetica. Versi verticali, che come goccia scavano la roccia componendo la giusta armonia per la ninnananna che a Nina manca, ma che alla sua morte potrà intonare con una lingua nuova, ad una sola voce, la sua.
Stefania Giammillaro
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Nata a Scutari (Albania) nel 1976, Denata Ndreca è poeta, scrittrice, giornalista, traduttrice, pedagogista. Laureata in Scienze della Formazione – Pedagogia. Lascia l’Albania nel 1999, e nel 2000 si stabilisce definitivamente a Firenze, città dove ancora vive e scrive.
È stata tradotta in francese, inglese, albanese, thailandese, spagnolo, rumeno. Si occupa di diritti umani.
Opere:
• In quale lingua devo morire (2025)
• Fiori dei Balcani (2024)
• A Nord delle mie costole – le tue coordinate nascoste (2023)
- La ragazza del Ponte Vecchio (2020)
- Calicanto (2020)
- Tempo negato (2019)
- Un faro nella nebbia (2018)
- Senza Paura (2017)
- Intorno a me (2003)
Testi di letteratura per ragazzi:
• I Giorni della Pace (2022)
- Sono io (2019)
- La carrozzina magica (2017)
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