INCROCI - Iolanda Cuscunà - Karin Boye e Marina Cvetaeva: il male di vivere



Iolanda Cuscunà

 

Lo scrittore David Foster Wallace, morto suicida a soli quarantasei anni, in una delle sue ultime interviste rilasciate al giornalista del Rolling Stone David Lipsky ebbe a dire che il terrore di vivere nasceva dalla consapevolezza che nulla è mai abbastanza “che il piacere non è mai abbastanza, che ogni traguardo raggiunto non è mai abbastanza. Che c’è una sorta di strana insoddisfazione, di vuoto, al cuore del proprio essere, che non si può colmare con qualcosa di esterno”.  Insomma, la morte come unica via d’uscita, certamente spaventosa ma meno del continuare a vivere. Questo “vuoto” di cui parlava Wallace mi ha fatto tornare in mente la poeta svedese Karin Boye, morta suicida nel 1941, che proprio con questa parola chiude una sua splendida poesia


Gli dèi

I carri degli dèi
non scuotono le nubi
scivolano silenti
come raggi.
I passi degli dèi
sono difficili da udire
come un mormorio
nell’erba.

Con cautela
segui le loro tracce:
profumano di una
vicinanza tremenda.
Voleranno, lasciandoti
pieno di parole
in un mondo vuoto.

 

Chi sono gli dèi della Boye e a quale mondo si riferiva concludendo i suoi versi?

Forse allo stesso mondo di cui scriveva la poeta russa Marina Ivanovna Cvetaeva nei suoi Taccuini, un mondo attraversato da una moltitudine di esseri amati ma mai sufficienti a sfamare una fame   insaziabile che inappagata lasciava il vuoto: “Amo come a pezzi: voci, mani, parole, sorrisi, gesti, per ogni cosa separatamente darei l’anima. Ma alla voce si sostituisce un’altra voce, alle mani altre mani, ai sorrisi altri sorrisi e come risultato: solitudine, incenerimento, vuoto”, Perché ho accostato alla svedese Karin Boye la russa Marina Cvetaeva? Perché, come qualcuno forse ricorderà, anche lei decise di togliersi la vita e lo fece nello stesso anno della Boye a pochi mesi di distanza.

Annus Horribilis, il 1941, che annovera un terzo suicidio, quello della scrittrice Virginia Woolf.

Ma è dell’incrocio delle due voci poetiche che qui mi preme parlare. Si conobbero? Questo non lo sappiamo. Certamente Karin Boye visitò la Russia di Stalin nel 1928 rimanendone molto colpita, ma in quegli anni Marina Cvetaeva si trovava a Parigi dove si era trasferita e dove rimase per ben quattordici anni. Eppure, la vita è davvero bizzarra e, a ragionarci a posteriori, incrocia i destini senza necessariamente incrociare le esistenze.

Entrambe scoprono la poesia da piccolissime: Marina Cvetaeva inizia a scrivere a sei anni, la Boye a nove. Per entrambe, centrale fu la figura materna; infatti Karin Boye fu seguita nei primi anni della sua educazione proprio dalla madre, prodiga nell’impartirle una rigida morale a cui lei cercò sempre di ribellarsi. Anche Marina Cvetaeva ebbe a che fare con una figura materna ingombrante, che, essendo stata a sua volta un’artista, ma non avendo ottenuto i riconoscimenti sperati, cercò di dissuaderla dll'intraprendere la via della poesia. Ma i parallelismi tra queste due figure sono davvero tanti. Per entrambe, un nodo cruciale e mai risolto fu quello legato ai sentimenti: entrambe bisessuali vissero molti amori infelici. Ma, mentre la Cvetaeva ironizzava sulle sue preferenze scrivendo ad esempio: “Per una donna amare solo le donne, o per un uomo amare solo gli uomini, deliberatamente escludendo il contrario convenzionale: quale orrore! Ma dire che solo gli uomini possano amare le donne, o che solo le donne possano amare gli uomini, esclude l’insolito - che monotonia!” (Annotazione sul diario del 9 giugno 1921) Karin Boye visse invece i suoi amori omosessuali con grande tormento. Leggiamo nei versi dedicati a Margot Hanel, l’amore più profondo della sua vita:

 

Sei la mia consolazione più pura,

sei il mio più fermo rifugio,

tu sei il meglio che ho

perché niente fa male come te.

 

No, niente fa male come te.

Bruci come ghiaccio e fuoco,

Tagli come acciaio la mia anima-

tu sei il meglio che ho.

 

L’anima delle due poete fu, dunque, sempre sotto assedio. Per Marina Cvetaeva questa condizione nasceva anche da una quotidianità particolarmente dolorosa: la rivoluzione del 1917 la separò dal marito e la vide sola ad affrontare la fame e la povertà. Costretta a lasciare le due figlie in orfanotrofio dovette fare i conti con la morte di una di esse. Nel 1939 la figlia sopravvissuta fu deportata nei gulag e il marito fucilato. Il 31 agosto del ‘41 Marina Cvetaeva pose fine alla sua vita impiccandosi. Lascerà scritto: “L’oro dei miei capelli/ si sta facendo bianco a poco a poco/Non piangetelo! Tutto è già avvenuto/ tutto s’è già composto nel mio cuore”. La vita di Karin Boye fu oggettivamente meno funestata da eventi tragici; eppure, anch’essa sempre sentirà “gemere le tenebre”.

Ma ecco che in mezzo a tutto questo dolore la poesia di entrambe ci sorprende con immagini di intensa lievità. Leggiamo Marina Cvetaeva:

 

Alla povera mia fragilità

Tu guardi senza dire una parola.

Tu sei di marmo, ma io canto,

Tu –statua, ma io-volo

 

So bene che una dolce primavera

agli occhi dell’Eterno-è un niente.

Ma sono un uccello, non te la prendere

se è leggera la legge che mi governa.

 

Accostiamo ora i versi della Boye:

 

 Certo che fa male, quando i boccioli si rompono.
Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?
Perché tutta la nostra bruciante nostalgia
dovrebbe rimanere avvinta nel pallore gelato e amaro?
L’involucro fu il bocciolo, tutto l’inverno.
Cosa c’è di nuovo che consuma e dirompe?
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono,
male a ciò che cresce
                                  e a ciò che racchiude.

Certo che è difficile quando le gocce cadono.
Tremano d’inquietudine, pesanti, stanno sospese,
si aggrappano al ramoscello, si gonfiano, scivolano –
il peso le trascina giù, come provano ad arrampicarsi.
Difficile essere incerti, timorosi e divisi,
difficile sentire il profondo che attrae e chiama,
eppure rimanere ancora e tremare soltanto –
difficile voler stare
                             e voler cadere.

Allora, quando più niente aiuta
si rompono esultando i boccioli dell’albero,
allora, quando non le trattiene più alcun timore,
cadono scintillando le gocce del ramoscello,
dimenticano che furono impaurite dal nuovo,
dimenticano che furono in apprensione per il viaggio –
conoscono in un attimo la più grande serenità,
riposano in quella fiducia
                                        che crea il mondo.

Un sentimento di fiducia a tratti si fa strada, qualcosa sconfina, travalica lo spazio e il tempo. Cosa nutre questo sentimento? Altro non può essere che la Parola, che diventa Poesia e dialogo; il particolare diventa universale, l’esistenza contingente conquista l’eternità. La morte non esiste più, è solo un dato, anzi una data. Una banale consolazione? Forse, oppure:


Il non essere è una convenzione,

non vide mai il cielo vuoto

chi dette a voi il suo sogno e la sua lotta. 




Note

Le poesie di Karin Boye sono tratte dalla raccolta Poesie edita da Le Lettere nel 2018 AD ECCEZIONE della poesia “Certo che fa male” per cui si è preferita la Traduzione di Valeria Marcheschi da “Karin Boye, Poesie” Le Lettere, 1994.

La poesia “Alla povera mia fragilità” è tratta da Scusate l’Amore. Poesie 1915-1925, Edita da Passigli 2013.

La terzina che chiude l’articolo è un libero incrocio di versi delle due autrici. 


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