IL DIARIO DI DAFNE - Ester Guglielmino - La caduta
![]() |
Icarus
di John Singer Sargents (Firenze 1856-Londra 1925) |
Mia
sorella ha paura di cadere, una preoccupazione maturata negli anni con una
certa convinzione, quanti non vi saprei dire, ma mio nipote era molto piccolo e
lei non aveva ancora calcolato il pericolo di tenere in braccio un neonato con un
tacco dieci ai piedi. E poi, in fondo, non credo sia solo una questione legata
a esperienze già vissute, a fratture di memoria che limano in nuce la
base solida di certe nostre convinzioni; ritengo sia qualcosa di molto più
aderente a talune atmosfere intellettive, a fantasmi a tempo che appaiono e
scompaiono appena scende il buio e a farci compagnia non resta più nessuno. Ma
parlavamo di cadute... C’è un bel racconto di Cortázar, inserito in Storie
di cronopios e di famas, fin troppo aderente alla questione e mi è pure capitato
di rileggerlo in classe ultimamente, sottolineandone con trasporto qualche
passaggio che potrebbe sfuggire a un lettore poco attento. Anche Cortázar mette
una zia al centro della sua narrazione, una zia con la paura costante e patologica
di dover cadere indietro. E allora, in barba a ogni rimedio psichiatrico o
psicanalitico, tutta la famiglia si mobilita in suo aiuto, si fa argine essa
stessa contro questo costante senso di vuoto. Il fratello la scorta d’abitudine
e la rassicura col suo braccio; la cognata spazza il patio più volte al giorno per
evitare foglie, sassi e altri tipi di sorprese; le nipoti raccattano con
dedizione palle da tennis gioco dopo il gioco; insomma, un’intera famiglia le
si vota al sostegno e al sacrificio in nome di un affetto puro e ricambiato.
Eppure, nonostante tutto questo, la paura della zia resta lì ferma e non si
smuove dal centro esatto della sua mente e del suo cuore. Una spada di Damocle
che ondeggia minacciosa su ogni capello, su ogni testa e ogni tipo di pensiero.
Ci penso
spesso anch’iohy alla paura di cadere e ci penso anche adesso, in questo
imbrunire di settembre con l’aria fresca che ti entra nelle ossa e scioglie
ogni residuo calore dell’estate. Ci penso qui, sotto il getto fastidioso del
condizionatore acceso, regolato suo malgrado per i trentotto gradi estivi. Ci penso
alle otto d’una sera qualsiasi, alla fine d’un corso di formazione qualsiasi, dopo
cinque ore di lezione qualsiasi e un pranzo consumato con una fretta qualsiasi.
Ci penso dal crinale sottile di questa attesa che snerva e sfianca, in questa
sala d’aspetto d’ospedale in cui tutti si guardano e a nessuno va davvero di
parlare. Qualcuno passeggia spazientito, qualcun’altro smanetta al cellulare,
qualcuno ancora tamburella nervosamente le dita sulla sedia. La tensione però la incroci in mezzo all’aria,
in questo coatto far niente che corre veloce come un tremito leggero e sotterraneo.
Mi immagino cubi vuoti e pieni, opposti che si accalcano e si avvallano attorno
alle mie spalle, a ridosso dei miei piedi. Mi immagino quanta poca serenità
possa sussistere accanto allo spiazzamento d’ogni attesa. E allora la vedo
nitidamente, la caduta, il senso di vuoto che ti scontorna d’ogni margine la
riva; la vedo la terra che s’infiamma sotto i piedi; i muscoli che si gelano
all’addiaccio di una folata di vento troppo fresca. Penso a questa fragilità
che ci portiamo dentro, a questa tensione atavica verso l’ipotesi del crollo.
Penso a Gregor Samsa e al suo letto trasformatosi, un giorno qualunque, in una terribile
prigione; penso alle sue zampe orribili e alla sua stanza diventata d’un tratto
frontiera e confine della sua emarginazione. Penso alla rapidità con cui la
normalità può sconfinare nel dolore.
Il
medico mi passa accanto, è indaffarato, gli esami intra moenia non hanno
confini cronologici normali (improvviso una RM creativa ai suoi pensieri…) perché
se ti fai pagare il triplo un servizio in più lo devi pure garantire. Ha una
faccia simpatica, sarà un tipo gioviale con gli amici… ma il sospetto resta e non
posso evitare di pensare a quanto potrebbe cambiare la mia qualsiasi vita a una
sua sola parola.
Cos’è
che avevo spiegato stamattina? Ah sì, le nozioni base di narratologia, in prima.
Tempo della storia e tempo del racconto, due dimensioni che si legano e si
slegano, con alterne discronie. “Immaginate un vaso,” – eravamo arrivati alla
pausa/analisi – “immaginate con quanta rapidità possa cadere e frantumarsi al
suolo. Poi eseguite una moviola volontaria di pensiero, scansionate con cura
fotografica le immagini e gli stati d’animo che vi permettono di accompagnarne
il volo. Pensate alla banalità del cadere per una fortuita casualità (un
braccio troppo alto? una vibrazione di troppo? un gatto screanzato che
s’arrampica di colpo?). Pensate a questo cadere assurdo, ai cocci che schizzano
sul pavimento, pensate al rimbombo, alla capacità diffusiva dell’urto. Pensate
a queste opposizioni divergenti a ogni costo e rallentatele, reinventatele
mille volte, ridefinitene il contorno giusto, scrutatene il pericolo sotteso
all’accidentalità dell’atto”. Io intanto – in una dimensione parallela e
compresente alla lezione - continuo a ripensare alla caduta. Anzi a tutte le
cadute più o meno occasionali che ti sbattono al tappeto come un vaso di limoges
appena giustiziato. Penso ai leoni da tastiera che ti storpiano tra le labbra
le parole, solo per il gusto di destabilizzare platealmente la tua essenza. Penso
ai figli che partono e che ti lasciano cadere una speranza amara tra le labbra.
Penso ai tuoi pensieri che t’abbandonano e che ti sovvertono all’improvviso ogni
memoria. Penso alla caduta d’una madre che ha perso un figlio e non vede
appigli per potersi rialzare. Penso a due ragazzi che ho cresciuto tra i banchi
e a cui non sorriderà più alcun futuro. Penso a chi abbandona il proprio nome
perché s’ostina a vivere in un corpo che non gli appartiene. Penso alle case
che si svuotano, ai quadri che s’ammonticchiano di lato, agli orologi che si
fermano e che non torneranno indietro. Penso a chi sbaglia e non sa più come venirne
a capo. A chi continua a fare il suo dovere tutti i giorni senza essere
apprezzato. E poi penso ai dolori che ognuno coltiva nel silenzio del suo
sonno. Alle maree che salgono e al fiato corto di chi vuole comunque rimareggiargli
contro. Penso a chi non crede più nelle idee che con impegno s’era cucito
addosso. Penso alle strade che si chiudono come budelli claustrofobici, alle
curve che ti s’avvinghiano come code di Minosse lungo tutto il corpo. Penso
alla caduta di Icaro e a quanto crei inquietanti paralleli con quella di
Lucifero. E ripenso al racconto di Cortázar, alla sua ammiccante conclusione: uno
scarafaggio che si dibatte invano sulla schiena e s’agita perso con le zampe in
aria. Accanto, una processione di consimili che l’oltrepassano e gli camminano
intorno senza offrire alcun conforto, senza manifestare alcuna forma di
trasporto. D’altronde, se si pensa che siano tra i pochi esseri in grado di
sopravvivere all’atomica. tutto questo vorrà certo dire qualche cosa. Tuttavia,
non mi va di pensarci troppo adesso, ho una paura tremenda degli scarafaggi
anche quando si dimenano inermi, dopo una caduta, portandosi addosso il peso di
tutta l’inquietudine del mondo.
Icaro
Dovette
affiorare una gran luce
tra le piume,
un'aurora iridescente
dal cuore di
diamante.
Dovette
essere vertigine infinita
la caduta,
fiato rotto dallo squarcio
contro il
vuoto. E poi silenzio nudo
come pietra,
silenzio antico
di foreste
inabitate, dovette risuonare
eterno l'eco
del rimbombo, coltre
pietosa di
nebbia fitta sopra il mare.
Forse fu
divina l'ebrezza dello sfioro
del volo
folle e giovane d'un uomo
e maestoso il
dono dell'addio,
del
precipitare perso nel labirinto
del mistero.
E già si rincorrono
onde sopra
onde a distillare
l’antica
fiaba dell'umana imperfezione.
Riferimenti
bibliografici:
Julio Cortázar, Zia in difficoltà in Storie di cronopios e di famas, Torino, Einaudi, 2014
Franz
Kafka, La metamorfosi, Torino, Einaudi, 2014
Commenti
Posta un commento