CRONACHE A MANAGUA - Davide Toffoli su Sacha Piersanti, L’INFANZIA STIPENDIATA, Giulio Perrone Editore

 

Sacha Piersanti, L'Infanzia stipendiata, Giulio Perrone Editore,2025 

L’ultimo lavoro di Sacha Piersanti, voce già importante e nota nel nostro panorama poetico, ha il sapore dei traguardi importanti: il titolo, L’infanzia stipendiata, suggestivo ed enigmatico, è sospeso tra un qui ben presente e radicato e un altrove dalla dimensione tutta temporale, che si concentra nei luoghi dell’anima. Si tratta della storia di A., una giovane donna del popolo che, per scelta consapevole, sin da bambina ha sempre e solo lavorato, trovando in un personalissimo “dogma del lavoro” il mezzo per resistere a una società ghettizzante e inumana. “Ogni colpo d’ago / era la risposta / al manganello”…

E ogni singola parola di questo potentissimo racconto in versi, che procede tra musiche e strappi, tra nenie e guizzi sferzanti, è un preciso colpo d’ago, un prezioso atto di restituzione che sceglie di dare voce a chi non la ha, ma -intelligentemente- esiste, senza inutili fronzoli o dorature. Perché -intelletto-, etimologicamente, significa soprattutto “leggere dentro”, “leggere nel profondo” di sé e delle cose e non prevede di per sé una materialità, una tangibilità della voce. Ed è proprio qui che prende forma il coraggioso lavoro di Sacha Piersanti, iniziato nel 2016 e portato avanti con cura certosina, lavorando sul linguaggio, che oscilla tra lingua italiana e romanesco in un pendolarismo linguistico che riesce a creare suggestioni e attesa, per sorprendere con affondi e stoccate intrisi di saggezza popolare: “l’ordine è pane, il disordine è fame”, oppure “quando c’’era lui / pure io, a nì, è vero, / pure mi’ madre me diceva / “lascia ‘a porta aperta, / lasciace la chiave: // non sia mai che viè quarcuno / a portasse via la fame!”.

Perché “le parole / sono bombe e sono pane: / non vanno mai sciupate, / vanno congegnate” e questo libro ne rappresenta l’esempio evidente. Si attinge a un serbatoio di esperienza personale e la lingua che ne nasce è esattamente la lingua di A., donna nata negli anni ’30, una lingua che sembra riuscire ad unire l’atto di scrivere e l’atto di saper ascoltare in un unico indissolubile ed emozionante abbraccio, che appunto quello della voce. Il cuore di tutto è la comunicazione e ci troviamo di fronte a un raccontare la storia vista dal basso, la storia di chi è costretto a subire le decisioni scellerate dei potenti, la storia di quella bambina che “Imparava i suoi sei anni / e poi dieci e a fare l’orlo / a ogni tipo di tessuto // tra fame di alcantara / e organza di paura / l’infanzia che imparava / che vivere è impossibile / se non sai prima sopravvivere. // Il punto croce fu il diploma / e per laurea il punto erba”.

Paolo Di Paolo, in occasione della presentazione alla Feltrinelli di Largo Argentina a Roma, ha definito Sacha Piersanti, con centratissima sagacia, “archeologo di voci e di vita”, in quanto abilissimo a tirar fuori dalle macerie della storia la voce di chi “nemmeno sa di averla”.

Allora, cara Storia, // allora io voglio conoscere, / voglio guardare dritta in faccia / la vecchia che cantò / le ninne nanne a Cesare, / che regalò la sciarpa / al piccolo Nerone, / che fece pane e burro / a Stalin, a Mandela, / che raccolse su da terra, / che disinfettò i ginocchi / di Pericle o Karl Marx”. E sempre Paolo Di Paolo sottolinea ne L'Infanzia stipendiata una tenerezza e una verità che coesistono perfettamente come in Fortini. Ma, in alcuni passaggi, questo lavoro presenta tracce evidenti dell’essenzialità pungente e senza scampo dell’ultimo Caproni o l’ironia tagliente dell’istrionico ed amatissimo Zeichen, con lampi ai confini dell’ossimoro: “la vita è sempre vita / soprattutto quando muore”.

C’è poi la spiccata personalità poliedrica di Piersanti, ben individuabile e riconoscibile nelle citazioni in esergo alle varie sezioni, che spaziano da Char a Busi, da Pascoli a Milva, da Ungaretti all’Apocalisse di Giovanni, da Stendhal a Rascel, dal profeta Daniele ad Amedeo Minghi, da Caproni a Nilla Pizzi, da Cavalcanti ad Anna Angelici, passando per Petrarca, Orazio, Geremia e Vecchioni. C’è il ricordo e la memoria di Borgo Pio e delle persone che lo rendevano vivo, come la Sora Marina, riuscendo a far apparire anche la guerra come una semplice avventura: “Per diecianni (forse cento) / la Sora Marina / ha allattato con la voce / la fantasia dei ragazzini / che avevano imparato / a gattoni tra le mine / a far di conto con la Storia / e per mezz’ora ogni sera / succhiavano parole / di leggende mezze vere / mezze false: di soldati, / di caldarroste pe’ regalo, / di spiriti di notte / col tintinnio delle catene / strascicate per la strada”.

Se fosse una pellicola cinematografica, questo libro si aprirebbe con una scena interamente dedicata alla protagonista A. (“E adesso guardala seduta / la bambina sui gradini / dopo cena, poca cena / prima delle stoffe di domani”) e si chiuderebbe con una scena quasi simmetrica, con lo sguardo della protagonista ancora rivolto, con stupore bambino, alle stelle (“E adesso guardala appoggiata / la vecchia sul balcone / dopo cena, poca cena / prima del forse di domani”). Quelle stelle che “ancora sono casa, / l’unica casa che non cambia” e verso le quali già si pregusta addirittura un meritato e dovuto ritorno.

Ma questo racconto in versi è soprattutto uno struggente e consapevole atto d’amore, che evidenzia, in più di un’occasione, preghiere (“Non ti chiedo strette, mano, / né, gamba, un altro scatto - / non ti chiedo tempo, morte, / né a amore, tuo fratello / tuo amante tuo doppione, / chiedo comprensione - / non chiedo voli al cielo / (senza ali e senza piume / si sta meglio), no, nemmeno / terra, a te ti chiedo / di aprirti o farti lieve: // chiedo a Te che scruti / non visto, non vedente, / chiedo a Te, inesistente, / chiedo anzi pretendo / di darle retta quando // allora // alla fine della carne / anziché domande / invece di preghiere, / invece del perdono / Ti darà consigli – // ascoltala, Ti prego, // la sua infanzia stipendiata / T’insegnerà che non ha età / solo quello che è divino // ma solo l’uomo non ce l’ha / quello che chiami destino”) oppure promesse (“Non seguirò, prometto, il pianto / vigliacco, il piagnisteo / di quanti mi diranno / che sei passata a miglior vita - // ché non c’era vita / migliore, no, di questa / né ci sarà stata / morte più preziosa / della tua morte mai temuta, quella morte che alla vita // sembra strappo e è cucitura”). 

La poesia di Sacha Piersanti, che anche in questa prova si conferma “uomo verticale”, è testimonianza attiva di una vita vissuta a pieno: “A lei, alle sue gambe / è bastata questa sola, / senza pianti e senza angosce - // tocca a me, alla parola, / dirle alzati e rinasci”. Perché tutto rinasce. Tutto è vita. Tutto è teatro. E tutto finisce in quello sguardo, vecchio e sempre nuovo, di un’anziana bambina che ancora osserva, stupita, le stelle.

 


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