CRONACHE A MANAGUA - Davide Toffoli - Laura Recanati "IL MONDO INTATTO" (Mar dei Sargassi, 2024)
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Laura Recanati, IL MONDO INTATTO, Mar dei Sargassi 2024 |
Quello di Laura Recanati è un esordio poetico coraggioso e lacerante, costruito attorno ad una lingua che intrappola il lettore in concrete suggestioni uditive (più rumori catturati dall’ambiente che musiche, per essere più chiari) e tangibili aritmie. Tommaso Di Dio lo definisce un “incubo denso, bianco come la neve, ma che ha il sapore acre e ferroso del sangue e della verità”; parla addirittura, e non a torto, di una sorta di esorcismo, finalizzato a ritrovare la vita, dopo essersi finalmente liberati del fantasma. La sfida, del resto, è tutta interna al linguaggio e cerca proprio di dare voce a questa spietata e inesorabile lotta per la sopravvivenza.
Ricorre ampiamente il tema del doppio, della frattura, del dualismo, ben riconoscibile nell’immagine di due ombre, di due gemelle delle quali una soltanto è destinata a sopravvivere. La scissione quindi non ha alcuna pretesa di poter essere sanata. Luigia Sorrentino parla di un’esperienza di superamento della condizione drammatica della depressione e, infatti, tutti questi testi sembrano giocare sul confine labile tra sanità e malattia, animandone una dialettica struggente e a tratti spaventosa, un continuum circolare risolvibile soltanto con la soppressione di una delle due parti di sé. La sezione che apre il libro è NON C’È NIENTE IN QUESTA STANZA e, in una dimensione di assoluta solitudine, dare un nome a ciò che si è perso non aiuta, perché “il mondo ci guarda di rimando”, intatto, “scintilla la sua pelle dura”. C’è una prevalenza incombente del colore bianco (“Pareti bianche / lenzuola bianche / corridoi bianchi. / E bianco il latte caldo nella tazza / bianca la casa nuda della campagna / bianchi i camici / bianche le pastiglie / nel bicchierino di plastica bianco. // Se socchiudevo gli occhi / strizzando appena le palpebre / ecco un nero sfarfallio”). Luigi Riccio si sofferma su “una natura qui medicalizzata, intatta perché resa ovattata e quindi inoffensiva per mezzo del suo slittamento nel mondo teorico della diagnosi, dei nomi”. Ma, a ben leggere, il troppo bianco che ne scaturisce è forse parte integrante della depressione, di un non trovare le parole o quantomeno un giusto strumento per comunicare: una soffocante trappola senza apparente via d’uscita (“Ho fatto un sogno in cui mi sognavo / incapace di sognare”). In quelle situazioni la via è suggerita dalla parte più oscura: “La mia gemella oscura mi indicava la via. Io / non ero che lo strascico calmo / la redine troppo a lungo tirata e lasciata / per aver fatto sanguinare il palmo. // Noi amavamo quell’ora del giorno. / Camminavamo come spettri / nel giardino dell’ospedale, eravamo / entrambe dissolventi // esiliate e incompiute / un malinteso di luce”. A chiudere la sezione sono quattro suggestive e riuscitissime prose liriche, che martellano un ritornello incalzante (“Non c’è niente in questa stanza. Ci sei solo tu”) e, partendo da questa sorta di nodo, si dipanano in una direzione ben precisa fino a culminare in un fendente che, ogni volta, mozza il fiato (“Ti chiedi se ci sia un modo per porre fine a tutto questo. Provi molto dolore.”; “C’è troppa nebbia qui. Prendi il metrò, torna indietro.”; “Dinamite forzata nelle gole. Viscere esplose in aria come coriandoli.”; “Non dire una parola. Non dire niente.”). La seconda sezione, COINS, il bianco diventa quello delle oche che, sul Campidoglio, avvertono della presenza minacciosa dell’invasore, mentre “ammantano il colle gli assediati / mentre altrove imperversa la furia / gli sferragliamenti, le grida / gli schizzi grandi di sangue”. E mentre quel loro bianco si confonde con quello dei corridoi dell’ospedale, “Le oche esplodono / grida lacerate / gonfiano i petti turgidi come palloni / accendono la luce // mandano a mente i nomi / di chi si salverà”. La luce in cui si finisce per scendere è un passaggio definitivo per il misterioso altrove da cui discendiamo. La poesia, forse ha ragione Tommaso Di Dio, è solo “un modo per non perdere mai, sotto la lingua, questa piccola moneta”, la moneta della memoria, l’obolo di Caronte, per affrontare l’aldilà. RIFLESSI è poi sezione dalle atmosfere sospese, dove tutto sembrerebbe ancora da compiersi, anche se aleggia ovunque il senso di sacrificio necessario di una delle due ombre. “Il rasoio a terra brillava come una lucciola. / Fari d’auto sfilavano sulla finestra. / L’ambulanza arrivò tardi. / Due uomini le vennero sopra con forza / ma ormai non c’era più niente da spartire”. La quarta e ultima sezione è SCENDERE NELLA LUCE e contiene un passaggio definitivo, un taglio, una rinuncia necessaria ad una parte di sé, perché “Presto verrà la notte con la sua ghigliottina / farà un taglio netto, un tonfo. / Decapiterà il giorno. // Berrà tutta la luce / che scalpita dentro il suo sangue”. C’è un’accettazione più consapevole del dolore, perché “Al dolore bisogna dar retta / lasciargli fare il suo mestiere / creare un giusto spazio in cui / si possa molto muovere / spostare i calzini le canottiere / far piazza pulita”. Sembrerebbe un semplice gioco, un semplice scherzo del destino, a decidere la direzione definita del taglio: “Tieni questa moneta, lanciala in aria. / Se è testa muori tu, se è croce muoio io. // Non possiamo più vivere entrambe”. E, forse, lanciando in aria questa moneta, volerà lontana ogni memoria della parte perduta e, pur approdando ad una nuova concreta possibilità di vita, “Non ci sarà memoria di noi. // Non verremo seppellite / con una campanella nella bara. // Le nostre teste rotoleranno come mele nella bocca dell’oblio”. Ma il nostro preservato mondo potrà dirsi ancora “intatto”? Ci rispondono saggiamente i versi di Laura Recanati: “Ecco / la piccola chiave dorata / da inserire nel marchingegno / per continuare a non capire”, pur sempre abbarbicati alle nostre indispensabili e mutevoli mappe. |
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