CERCANDO LE CHIAVI - Anna Segre - L’EREDITA’ DI CATERINA EMILI
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Anna Segre |
È morta la madre del mio
vicino di casa, tale Geronimo, detto
Gerry.
Fin qui siamo nella quotidianità
di ciò che accade normalmente: a un certo punto, le madri muoiono. E siamo
anche nei ruoli predeterminati: dirimpettaio, figlio, genitori…
Ma sua madre era
un’attivista, femminista, scrittrice, pensatrice, rivoltosa. Tanti anni a
incontrarsi sul pianerottolo, e io ne ero totalmente all’oscuro. Colpa
mia.
Geronimo, infatti, come il
collettivo femminista a Parigi nel maggio 1968, di cui lei stessa faceva parte.
Stilton è molto di là da venire. Mentre il capo indiano ha già dato l’esempio
metaforico necessario.
Tu sai che mia madre è
morta, lui.
Sì, mi dispiace molto…, io.
Eh… e ha lasciato una casa
in campagna piena di libri politici, femministi, di cui io e mio fratello non
ci facciamo niente, lui.
Ma li buttate via? Io,
orripilata.
Guarda, ne ho fatto qualche
scatolone. Ce li ho in macchina: scendiamo, scegliteli…, lui.
E c’è questo scatolone delle
meraviglie da cui scelgo 32 titoli, ancora ignara di QUANTO siano fondamentali.
Me lo chiarisce l’ineffabile Simonetta
De Fazi, che certe prime edizioni sono ormai introvabili, e quanto sia
fatale, meraviglioso, questo lascito. E ci ho passato l’estate, a leggerli e
spizzarli. Ce n’è parecchi sulla pazzia femminile…
Phyllis
Chestler, “Le donne e la pazzia”,
per esempio…
Leggi che ti rileggi, mi è
venuta questa idea:
E
se la pazzia fosse una risposta fisiologica alla condizione femminile?
E se la sofferenza psichica
fino a estreme conseguenze fosse il male minore che il genere femminile tende a
scegliere per garantire il sistema e lasciare tutto com’è?
E se la coscienza di quello
che si sarebbe potuto realizzare, ma in quanto donna è stato impossibile, fosse
peggio che non sapere cosa si sarebbe state in grado di fare? Meglio ignare.
Se tutte le scrittrici,
artiste, poetesse da metà ottocento a metà novecento, che sono state ricoverate
a forza, che sono morte in manicomio, che si sono suicidate; se, dicevo,
fossero un segno antropologico di nascita di una coscienza collettiva
femminile, e non fossero casi singoli, bensì un coro che parla della visione
possibile, ognuna con la sua arte? Perché l’arte è una traccia.
Noi potremmo avere traccia
della nascita e sofferenza della coscienza collettiva femminile tramite l’arte
che è sopravvissuta a loro stesse.
Emily
Dickinson
Alda
Merini
Antonia
Pozzi
Marina
Cvataieva
Alfonsina
Storni
Virginia
Woolf
Anne
Sexton
Sylvia
Plath
Zelda
Sayre-Fitzgerald
Amelia
Rosselli
West
Alexandra
Pizarnik
Margherita
Guidacci
Ingeborg
Bachman
Camille
Claudel
Sabrina
Spilrein
Perché non me ne faccio
capace. Non accetto di non avere una teoria, un’ipotesi, almeno, perché voglio
che la loro sofferenza abbia una lettura, una traduzione.
Erano, tante, colte, figlie
di persone preparate, o ricche o influenti. Mogli di uomini colti,
intellettuali, scrittori, poeti come loro.
Si sono confrontate con cosa?
Forse hanno visto una
realizzazione possibile, l’hanno creduta raggiungibile, e poi gli è stata
sottratta, sfilata via con bieche scuse (che sarebbe il titolo ideale
per qualsiasi lavoro su questo argomento)?
Forse gli è stata strappata
nel silenzio generale, nell’impunità inaccettabile. Come se fosse normale che
loro dovessero abbozzare, adattarsi, ubbidire.
Forse hanno visto che la
legge non le proteggeva, che il sistema era inesorabile, indifferente alla loro
testimonianza. Che una sola era la narrazione e tale doveva rimanere.
Forse è stata proprio
la consapevolezza data dalla loro educazione, dalla cultura, dalla lettura dei
segni sociali, a creare quel dis-turbo, discrepanza, dispiacere, distonia. E
allora si è vista la malattia. Sono malate, si è detto. Certo, con le giuste
sollecitazioni, chiunque si ammala, prima o poi! Ma non ci si è chiesto: cosa
gli è successo? Come mai si somigliano tanto, queste poetesse, intellettuali
nate dalla fine dell’800 alla fine del 900, morte suicide o comunque dichiaratamente
pazze e definite dalle loro stesse diagnosi invece che dalla loro arte? Ci si è
detti: si vede dalla poesia che sono matte. Si vede dalla disperazione, dai
sintomi strani che hanno: sono esaurite, ci si è detti. Questa definizione,
come tante altre generiche (schizofrenia, disturbo bipolare, depressione) e non
collegate ai motivi del ricovero o alla raccolta dati delle cartelle cliniche,
è quella che mi da più da pensare. Esaurimento nervoso: ma che vuol dire?
Quindi, mettiamo di tenere per buona la definizione ‘esaurimento nervoso’, come
si arriva a ricoveri di anni, a elettroshock, a situazioni coatte? È
un’etichetta come un’altra che non ha nulla a che vedere con la verità. E qual
è la verità?
Per me, è la
condizione.
È possibile che esista una
pazzia staminale, che qualcuno ci nasca, pazzo. Sì. Esiste.
Ma la maggior parte delle
malattie mentali ha un iter
ricostruibile, con la giusta pazienza. E dico: ma tu, incantonata da chi ami,
padre, marito, compagni di lotta, colleghi stimati, compagni di studio,
obbligata al silenzio, o al ritiro, o all’abbandono dell’arte, o semplicemente
ad occuparti tu di tutto nella quotidianità, non glieli caveresti gli occhi, al
predatore che ti costringe? Perché gli animali, anche le prede, lo fanno.
Attaccano, se incantonati. Ma noi no. Noi usciamo pazze.
E la pazzia diventa un
rifugio,
una scusa più forte di
quelle bieche di cui sopra,
uno scudo di
inintellegibilità che chiude fuori,
e chiude dentro;
la pazzia sospende la
guerra: non puoi sparare sull’ambulanza, ma la chiami per rinchiudermi;
e anche l’aggressività smette
di essere omicida.
La persona che impazzisce,
si sottrae. Anche. Non solo, ma anche.
Su ognuna faccio ipotesi. Di
ognuna sto cercando di ricostruire la logica, il movimento psichico.
Vorrei parlare a lungo di
quello che sto imparando, mentre leggo il lascito di Caterina Emili, cercando di unire i puntini della storia delle
altre che spiega il mio ritrarmi, evitare, temere, arroccarmi. Non ero dunque
una disadattata! Avevo delle ottime ragioni per sottrarmi, per
rivoltarmi.
E Caterina Emili arriva in
corner dopo la sua stessa morte a sancire la mia ragionevolezza dopo sei
decenni di ‘stranezza’.
To be continued, stay tuned!
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