UMAMI, DHARMA E BARBABIETOLE - Pietro Edoardo Mallegni -“Johatsu” e quella birra con D.o al pub dopo la vittoria del Granton Star
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Pietro Edoardo Mallegni |
Rientrati dalle ferie e già il capo
vi assilla con numerosi compiti? Ci sono più di 150 mail non lette da parte di clienti
pretenziosi e scontenti? L’edicola sotto
casa sembra non riuscire a reperire i libri per l’anno di scuola di vostro
figlio e ora vi tocca girare per tutte le librerie del territorio in cerca di
un miracolo?
Sembra che la vita, tranne che ad agosto, sia
un incubo e diciamolo le vacanze non sono state il massimo: la famiglia vicina
d’ombrellone un po’ troppo rumorosa, il cameriere stizzito al ristorante, la
guida turistica pigra, svogliata e quel panino salsiccia e peperoni preso per
disperazione che ha transitato più volte tra stomaco e bocca per almeno due
giorni. Il ripresentarsi di quel sapore
misto paprika e succhi gastrici aiuta a capire meglio a cosa servono le ferie
d’agosto. Servono a prenderci il lasso di tempo quanto più lungo possibile da
ciò che odiamo. Il lavoro, i vicini, le amicizie vincolate alla monotona
routine, le chiacchiere fuori da scuola con i genitori degli altri alunni. Ad
agosto tutto si smette. Ma
inconsciamente sappiamo che il nostro ecosistema sociale e lavorativo è il
frutto di tutta una serie di decisioni che abbiamo preso, pertanto la vera
vacanza non la si prende dagli altri, ma da noi stessi. Ed ecco che quindi il
vero desiderio non è andare in vacanza, ma sparire, evaporare, essere altro o
persino non essere. E come si fa senza morire?
Beh, come sempre, nella terra dove
sembra si compia il futuro delle cose, è stato creato anche questo genere di
pratica. Là, in Giappone “Johatsu” (tradotto
letteralmente “evaporazione”) è un servizio a pagamento ben diffuso. Immaginate
quanto possa essere bello: una mattina vi svegliate e vi rendete conto che
siete stanchi di tutto e tutti. Tirate su il telefono. Fate la vostra ricerca
su Google, trovate l’azienda con le migliori recensioni, pagate ed ecco che,
domani, non siete più voi. Nuovo nome, nuovi alloggi, alcune aziende si
preoccupano persino di ricollocarvi nel mondo del lavoro. Ovvio, se siete
stanchi dei debiti la cosa è un po’ più complessa, ma come ogni cosa nata e
cresciuta nel capitalismo, anche questa è corruttibile in base alla cifra
offerta. Le conseguenze possono essere drastiche, specie per amici e parenti
che dovranno fare i conti con il fatto che non siete più. Le informazioni
relative alla nuova identità rimangono riservate e pertanto si diviene
introvabili. Magari dopo anni, vostro cugino incontrandovi a Osaka griderà “Roberto,
sei tu?” e voi “No, io sono Carlo” (mi sono sentito di usare nomi italiani per
semplificare la questione). Una vera fortuna: vivere nel ventunesimo secolo,
grazie al capitalismo, alla sua prostrazione verso il denaro e al suo rendere
ogni mestiere, il mestiere più vecchio del mondo, ci dà la possibilità di
acquistare l’esperienza “Il fu Mattia Pascal” (o per lo meno una parte
di essa) a poche centinaia di euro. Tutto sparisce. Appunto, si evapora, e
improvvisamente voi non siete più voi, per chi vi conosce, per chi vi sta
vicino e costoro cessano di svolgere la loro funzione attoriale nello
spettacolo della vostra vita. Bene,
lavato il banco da lavoro della vostra esistenza, tutto può essere, tutto può
divenire; le strade e le possibilità di
fronte a voi si aprono; adesso potrete parlare con quell’accento un po’ inglese
che vi ha sempre affascinato, chiacchierare del Kent (anche se non ci siete mai
stati ) e dei suoi pomeriggi uggiosi profumati di tè e fiori di bergamotto,
investire nelle Krypto e pensare di averci capito qualcosa, proporvi ad una
cena come fine conoscitore della Nouvelle Cuisine e decantare i vostri apprezzamenti
per i fratelli Troisgròs, spacciarvi per
una spia sotto copertura al servizio e alle dipendenze dirette della corona
Svedese. But sorry my friend, per non essere se stessi bisogna anche saper
essere altro in maniera concreta, cioè al cameriere in livrea viene qualche
dubbio che siate solamente un ignorante, se gli chiedete una tartare ben
cotta, la signora di fronte a voi capirà che non siete una spia svedese data la vostra pancetta da birra
e snack a basso prezzo, un qualsiasi inglese sa benissimo che nel Kent
non cresce il bergamotto e investite tranquillamente in Krypto non sapendone
nulla a riguardo, non so se riuscirete a essere “meno voi stessi”, ma
sicuramente sarete meno ricchi di prima. Insomma, come trovai scritto una volta
nel bagno di un ristorante a cui sono molto affezionato “Noi non inventiamo
niente. Spostiamo solo cose” e quindi cambiare nome, città amici, non ci rende
meno perdenti o schifosi di prima, ci rende solo più appetibili, perché siamo
un nuovo piatto nell’esistenza del menù delle altre persone, ma gli
ingredienti, ahimè, sono sempre i soliti. Dobbiamo rivedere un po’ il tutto,
rivalutare nello specifico la questione “non essere più se stessi”; ma, miei cari lettori e lettrici, per farlo,
mi dispiace dobbiamo abbandonare la nazione del Sol Levante e dirigerci in
Scozia, per incontrare Boab, Dio
e Irvine Welsh al pub per una birra.
Piccola presentazione: il primo è un
personaggio inventato dal terzo, presentato nell’antologia di racconti “The
Acid House”, il secondo è quello che stamattina stavate “allegramente”
citando dopo aver sbattuto il mignolo contro l’angolo del comodino, il terzo
uno scrittore o meglio uno che capito che al buffet dell’esistenza aveva
esagerato un po’ e, quindi, ha deciso di raccontare e mettere per iscritto
buona parte di quanto gli è successo o di quanto è capitato alle persone a lui
vicine. Non ha studiato per scrivere. Da
buon scozzese beveva e credo beva ancora in maniera piuttosto abbondante. Buona
parte della sua giovinezza è stata consumata dall’eroina e da tutte le pratiche
legali ed illegali ad essa purtroppo connesse. Il suo libro più famoso? Quella
cosuccia di “Trainspotting” e,
per chi avesse visto solo il film, consiglio vivamente di approcciarsi anche
allo scritto originale, per capire meglio la storia, ma raccontata da ogni
personaggio; per capire che il vero protagonista è Spud e non Mark; per capire
meglio cosa siano stati gli anni ‘80 e ‘90, che, oltre il boom economico, hanno
rappresentato per quei giovani un lungo promontorio sul quale passeggiare prima
di cadere nel baratro assoluto. Ma torniamo al primo. A Boab. Un ragazzo
di ventitré anni che lavora per una ditta di traslochi, che vive con i suoi
genitori, fidanzato, membro della squadra di calcio amatoriale “Granton Star”. Insomma, una vita apparentemente normale. Semplice. Il problema è che
nonostante lui sia abbastanza sereno, il “Johatsu” vorrebbero applicarlo nei
suoi confronti tutte le persone che lo conoscono e che gli sono vicine; vorrebbero
che lui “evaporasse”. I genitori, in crisi matrimoniale dovuta alla monotonia
della loro vita sessuale, decidono di cacciarlo di casa per dare sfogo alle
loro fantasie erotiche a qualsiasi ora del giorno, ovviamente giustificandosi
che il padre a ventitré anni fosse già fuori di casa da un pezzo e con un
lavoro stabile (piccola riflessione: in Italia??? Possibile???), la ragazza,
desiderosa di più attenzioni, lo lascia; l’azienda di traslochi lo licenzia
senza una ragione concreta, ma per il semplice fatto di rientrare nel budget; nonostante
il “Granton Star” abbia vinto il capitano lo elimina dalla squadra, perché lo
ritiene responsabile delle difficoltà tecniche. Tutto in una singola giornata e
per sfogarsi, giustamente, distrugge una cabina del telefono, il che gli costa
immediatamente il fermo della polizia e una multa piuttosto salata. Da scozzese
decide di annegare le sue tristezze nella birra e, Welsh, sceglie che il suo
compagno di sbornia non può non essere che Dio (che giustamente beve Guinness),
che, invece di consolarlo e dargli una mano, anzi lo ammonisce e dice che non
ha mai visto un essere umano così smidollato e privo di istinto di reazione nei
confronti delle ingiustizie della vita. Per lui Boab è un insetto e quindi lo
trasforma nella mosca che è. La sua vendetta sarà quella di andarsi a posare
prima su qualche escremento poi sui cibi di tutti coloro che lo hanno umiliato.
Unico a riconoscerlo il capitano del “Granton Star” e chi meglio per
interpretare la parte dell’assassino, se non sua madre che lo colpisce
facendolo magicamente ritornare umano nel salotto di casa, fronte a lei e al
marito coinvolti in un amplesso. La morale?
Non penso che Welsh abbia mai scritto qualcosa con l’ipotesi di una
morale. Possiamo dirci qualcosa noi, ma tanto avrete capito dovevo volevo
arrivare; quello che siamo nel profondo non si cambia, la montagnetta di organi
e bolo che siamo, anche se la abbelliamo con titoli e nomi altisonanti, non
cambia, le vacanze spirituali in India non fanno di noi un guru, né lo yacht
parcheggiato al Forte ci rende Poseidone, né il non fare le vacanze e donare
tutto in beneficenza ci rende il Messia.
Quello che siamo nel profondo lo
esprimeremo sempre nella maniera più incontrovertibile del mondo, provando, sì,
a costruire bugie per dirci più belli o migliori di quanto non siamo, ma
trasudando e puzzando di verità in ogni cosa che facciamo. Perciò sfuggire,
evaporare, fingerci “Sir Gilderoy Allock” durante le ferie non ci serve e non
ci aiuta in nulla. Meglio fare come Boab, a una certa, riconciliarsi con la
propria dimensione di perdente e cercare di far mangiare i propri escrementi a
coloro che hanno ritenuto degno ca**rci in testa, in attesa
del colpo di frusta, inferto proprio
da coloro da cui meno ce lo
aspettavamo. Puntini. Puntini, puntini.
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