UGO FA COSE - Viola Bruno - SETTEMBRE / -1
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Ugo |
«La fata, presso la quale si ha diritto a un
desiderio, c’è per ognuno.
Solo pochi però riescono a ricordarsi il desiderio che hanno espresso;
così, nel corso della loro vita, solo pochi si accorgono che si è realizzato».[1]
(Walter Benjamin)
Io odio le vacanze estive.
Preferisco la scuola: lì ci sono più scherzi da inventare.
A settembre inizio subito: scuoto gli alberi in giardino, durante la
ricreazione.
Non quelli giganti — mica ci arrivo — solo quelli piccoli, innocenti,
che fanno finta di niente e poi “zac!” si ritrovano alleggeriti.
Le foglie verdi che cadono sono la mia discoteca: coriandoli inconsapevoli, una festa segreta senza invito.
Ma la mia vera passione è strappare i frutti piccolissimi, appena nati:
fanno “toc” quando cadono e io scoppio a ridere, li rincorro, li faccio
rotolare come biglie.
E intanto le mie tasche si gonfiano, piene come le gote di un criceto goloso.
Il verde è il mio colore preferito. L’unico.
Non voglio che diventi giallo, rosso, ruggine. O peggio: grigio.
Il tempo lo decido io: stop! Si ferma quando batto le mani.
Gli adulti mi guardano storto: «Ugo, non si fa! Ugo, bisogna
aspettare!». Ugo! Ugo! Ugo!
Io ai “bisogna” non credo. E nemmeno all’“aspettare”.
Per me le cose belle sono quelle che sbucano all’improvviso,
proprio quando nessuno se le aspetta.
Così, mentre loro parlano di stagioni, io invento la mia:
non più estate, non ancora autunno.
Un tempo segreto, una capriola del calendario.
Un capodanno che loro non sanno.
Ma in fondo, settembre è sempre un capodanno…
Insomma, io faccio l’autunno. A modo mio.
*
Così fa
Ugo.
Ad agosto
ha scelto l’assenza: nessuna immagine, nessuna parola. Ha strappato una pagina
al calendario, come chi a nascondino trattiene il fiato per non farsi scoprire.
Non voleva raccontare la storia dei castelli di sabbia — forse si vergognava,
forse lo farà alla fine, forse mai. Saltare agosto è stata la sua prima
marachella contro il tempo, una sfida all’attesa.
Il tempo degli adulti scorre su un binario segnato: ferie che si aspettano e si rimpiangono, compiti che slittano a settembre, scadenze che si rincorrono come vagoni. Ma Ugo non viaggia su quel treno. Il suo tempo è fatto di pause e silenzi, di balzi improvvisi, un tempo misterioso e inafferrabile, che «se nessuno me ne chiede, lo so bene; ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so»[2], avrebbe detto Sant’Agostino.
Il Calendario
all’incontrario è il suo campo di gioco: ogni mese Ugo sottrae invece
di aggiungere, scompiglia invece di ordinare, ci costringe a riconoscere che il
tempo non è proprietà privata, ma corrente che ci attraversa. Walter Benjamin lo aveva intuito: ai
bambini «è possibile qualcosa di cui
l’adulto è del tutto incapace: ricordare il nuovo»[3].
L’infanzia non ha ancora conosciuto la mercificazione del tempo: vive
nell’apertura, nella sorpresa, nella possibilità. Il bambino non “consuma” il
presente: lo custodisce come promessa, lo abita come esperienza aurorale,
capace di trattenere ciò che per l’adulto si trasforma subito in abitudine e
scarto. E Ugo, con la sua risata, ce lo ricorda ogni volta che disfa la nostra
agenda.
Dietro quella risata si nasconde uno specchio
che riflette una delle fragilità più profonde del mondo adulto: l’incapacità di
attendere. Vogliamo tutto subito — risultati immediati, risposte istantanee —
e, nell’impazienza, cogliamo frutti acerbi, incapaci di dolcezza.
Così, mentre accusiamo i bambini di “non saper aspettare”, siamo noi i primi a
sabotare il tempo naturale delle cose.
Ugo, scuotendo l’albero, ci mette davanti a
questo paradosso: anticipiamo, bruciamo, forziamo, e poi piangiamo il vuoto che
resta. Lui scuote l’albero e ride, perché non teme quel vuoto. Noi, invece, lo
riempiamo di “bisogna”.
Eppure
basterebbe ricordarsi di planare leggeri sugli eventi, senza volerli per forza
afferrare o trattenere. Calvino ci
aveva avvertiti: «Prendete la vita con
leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose
dall’alto»[4].
Così fa
Ugo. Senza saperlo, ci insegna che il tempo non è un fardello da portare, ma un
respiro che si dilata, un varco che si apre. Non lo trascina: lo inventa. Non
lo consuma: lo custodisce. Per lui il tempo è foglia che cade ridendo, promessa
che si rinnova, capriola che scombina il calendario. E nell’ombra che si
allunga dietro di lui – più grande di lui, più antica – sembra delinearsi il
profilo di chi tesse i giorni.
Ma a
settembre, almeno per un istante, è Ugo a fare l’autunno.[5]
[1] Walter Benjamin, Berliner Kindheit um
neunzehnhundert,
1932-1938
[2] Agostino, Le confessioni, XI,
14,17, Bologna, Zanichelli, 1968
[3] W. Benjamin, I «passages» di Parigi,
da Infanzia berlinese intorno al
Millenovecento, Torino: Einaudi, 2001
[4] Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, 1988, “Leggerezza”.
[5] Scusatemi, non mi
sono ancora presentata. Io sono la mamma di Ugo, la sua nota a piè di pagina:
lui fa l’autunno, io raccolgo le foglie.
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