Ero un po’ stupito, credo di aver fatto un cenno con la testa, o forse ci siamo
stretti la mano, non ricordo più; perché io Anna Segre la conoscevo, certo,
avevo anche letto delle cose, ma come anni fa a un quattordicenne, trovandolo
tra i testi scolastici, poteva capitare di conoscere già Dino Buzzati, salvo poi chiedersi se fosse uno scrittore dell’800 o
del 900 (e così centrando pienamente il bersaglio).
Mi aveva colpito, osservandola, la sua fisicità asciutta, la postura dimessa,
ma carica di un’energia che si
concentrava tutta nei piccoli occhi scuri, che mi fissavano: uno scricciolo, mi
ero detto, un passero.
La relazione dei poeti con il mondo degli uccelli è sempre stata feconda. In
una delle ultime poesie che ha scritto prima di morire, pubblicata da Maurizio Gregorini in una raccolta di
interviste e testi inediti, Dario Bellezza si vedeva così:
Amore, dolcezza
di note e di sonno
e il risveglio d’uomini
uccellino sullo stesso ramo
E potrei citare altri casi, a cominciare dallo scherzo di Elsa Morante a Sandro Penna
(Hallalì,hallalì!).
La seconda volta che ho visto Anna Segre è stata durante l’ultimo festival di poesia di Grosseto,
organizzato da David La Mantia, e
l’impressione fu analoga ma contraria.
Anna
ha letto dal palco le sue nuove poesie tratte dalla raccolta – in pubblicazione
in questi giorni, ancora per Interno poesia – Onora la figlia,
con una tale forza di trascinamento, che mi è sembrato quello scricciolo fosse
in realtà un’aquila o un condor, pronto a spalancare ali immense, afferrare con
gli artigli noi del pubblico e trascinarci lontano.
Nel frattempo, avevo iniziato a leggerla. Prima, come sempre, in rete, con un
po’ di disattenzione e confusione: una poesia fatta da un flusso di coscienza e
di parole, senza troppa preoccupazione per la forma – mi sembrava – e molta invece
al susseguirsi di immagini, analisi, stati mentali (normali o alterati) secondo
una tradizione americana, che va da Walt
Whitman ad Allen Ginsberg per
sfociare nelle bellissime, personali e politiche poesie di Adrienne Rich o in quelle più spiritate di Sharon Olds.
Ma quando mi sono messo a leggere
davvero i suoi libri, in particolare La distruzione dell’amore (Interno
Poesia, 2022) e A corpo vivo
(Marietti1820, 2023) mi sono trovato davanti una poetessa diversa.
Prima però devo confessare di essermi divertito a trovare, sparse tra le poesie,
molte metafore e immagini che di nuovo legano Anna al mondo degli animali e
soprattutto degli uccelli:
Doveva
essere volo
e forse ce l’ha fatta
perché cadiamo in picchiata,
mio passero
mia ala sinistra
mia creatura piumata sontuosa adorata,
troppo vicine al sole
E poi:
Il cuore è un passero
che mi frulla nel torace,
mentre la folla
dà per data la mia salvezza
In A corpo vivo, i riferimenti al volo e non volo di creature alate sono
tantissimi, in mezzo a una più generale tendenza a confondersi con una
variopinta fauna:
Vorrei che mi volessi
Tacchina Fapresto
vorrei baciarti
da gallina quale sono
baciarti a lungo
baciarti per tutta la notte
con le mie stupide tette oche…
E poi:
E tu
arrivi danzando
vestita di piume
che forse sai pure volare…
E:
Questa mia
lanugine
che non basta al volo
È stato un sollievo. Perché, nel frattempo, pensando che avrei voluto scrivere
un ritratto di Anna Segre, avevo iniziato a passare in rassegna tutte le
immagini mentali (legate a quadri, murales, canzoni, racconti) che ricordassi
sul mondo dei pennuti, degli uccelli, dei rapaci, al punto da arrivare a
immaginarmi che l’essenza del ritratto, alla fine, l’avrei trovata nascosta tra
le infinite strida di uccelli del brano Several Species of Small Furry Animals
Gathered Together in a Cave and Grooving with a Pict dei Pink Floyd,
dall’album Ummagamma, che poi è sempre solo la voce di Roger Waters a
emetterle, per tutti i cinque interminabili minuti dell’incisione.
Una poetessa completamente diversa, dicevo.
Ma fino a un certo punto: “medico, psicoterapeuta, anche ebrea, in più lesbica,
perfino mancina” (cito dalla biografia in quarta di copertina di La
distruzione dell’amore), Anna Segre sembra doppiare quasi fisicamente la
figura di Adrienne Rich, che non era medico e psicoterapeuta, ma autrice di
poesie che traboccano spirito psico-analitico. Il resto c’è tutto: solo, non so
se fosse mancina.
Uscendo dal gioco biografico, anche Anna Segre sembra calcare quello stesso terreno,
di una scrittura rigorosamente laica, ma che presuppone i testi sacri o la
sacralità del testo, in cui la parola e il numero fondano o rifondano ogni
volta il mondo, al punto da:
Scrivere.
come se
fosse
l’ultimo approdo possibile dell’anima,
come se la parola
sostituisse la persona…
Al punto che
qualcuno può aspettarti all’angolo di una frase; al punto che si può
andare:
Oltre la
regola quotidiana
Oltre l’igiene
Oltre la grammatica
senza punteggiatura
sfuggendo alla matematica
negando la geometria
cancellando la storia,
dritto al centro di Dio
Ed è a questo punto che la lotta col
linguaggio può farsi convulsa, come quella con l’angelo:
Naufrago da che parte è la riva dove finisce la
riga non c’è confine limite corpo che
contenga
trabocco disordine
sono un ginepraio indipanato
non c’è codice taci guardami guardami
ogni mia parola indica il limite
come se tracciassi una linea invalicabile
oltre la quale mi rivelerei.
È quel luogo in cui
si incrociano il folle, il profeta, il predicatore (ancora una volta:
l’analista) e il poeta – quindi la poeta – e tutti insieme rischiano di
formulare un messaggio politico.
Ma
per Adrienne Rich il messaggio politico diventa lo statuto e, in qualche modo, la
cornice, di ogni poesia (anche se poi scrive molto d’amore e di relazioni); Anna
Segre, trascinata dalla potenza sensuale e quasi fisica delle parole, si
sottrae invece a qualsiasi identificazione:
Non ti consentirò definizione,
scapperò dall’abbraccio
di aggettivi e slogan,
dicendoti tutto
senza nulla farti davvero
sapere
E da questa
fuga, da questo rifiuto di fondo, nasce una poeta molto più vaga, originaria e
inafferrabile, che a tratti esibisce ingenuità da poetessa greca:
Se tu
tornassi
sarebbe di nuovo
il caos gravido di pazzia,
un frastuono di silenzio
Oppure:
mi ronzano
sul palato
come api
le cose da dirti
e la mia bocca
è un’arnia
inviolabile.
A tratti
mostra la sapidità di un poeta latino:
Noi ci
amiamo,
a parte il fatto che ci odiamo
A volte
sembra di avere a che fare all’improvviso con Emily Dickinson (ma quanto Emily Dickinson, che seppe tenere testa
a quel clan di esaltati della sua famiglia, nascondeva una dimensione
politica!), la stessa apodittica ansia definitoria:
L’ingenuità è quel lusso
non dissimulabile, naturale
E:
la gioia
scintilla un secondo
nella travolgente iniquità del dolore,
giusto il tempo di saperla dissolta
L’intero libro A
corpo vivo ingaggia una lotta così ossessiva con l’oggetto d’amore da
scivolare continuamente in inciampi metafisici, come per i poeti inglesi del
600.
Quindi non una poeta sola scappa fuori nell’istintiva fuga dalla dimensione
politica ma una miriade di poeti, come una miriade sono le immagini che
proliferano nelle poesie, munite di acuminate punte ironiche o addirittura
sapienziali.
C’è anche
una capra:
l’intima, smisurata
attesa di bene
in piedi sulla parete verticale
poggiata a un nulla che sporge.
Oppure:
Sono io
stessa
all’oscuro del mio abisso
e,
se proverai a buttare una pietra,
non la sentirai arrivare
al fondo.
Eppure la
politica, il poeta politico, resta là, alle spalle della poeta dai mille volti,
in agguato. Si risveglia alla prima occasione.
Con un accenno, ancora a metà strada, risalendo la via della sapienza:
Sarà per
questo che
il vero opposto
dell’amore
è il potere?
Oppure, con maggiore
consapevolezza:
Una parte di me
il potere lo rigetta.
Lo schiaffo tra le mani
che non ti voglio dare,
la parola tagliente
che arriverebbe all’osso,
ma preferisco usare
per l’intarsio sul bastone
o per l’origami
con carta giapponese.
Irrompe in una poesia dedicata all’orgasmo o in un’altra, furente, di demolizione
della maternità e della figura della madre, quella avuta e quella che non si
vuole essere:
non sarò
io
ad abbandonare.
Non sarò
la tua risposta sbagliata,
la tua delusione più cocente,
il demone che ti porti dentro.
Non sarò io
il primo tradimento,
il coltello ficcato in gola
il fantasma che ti segue
in sogno,
l’ombra lunga delle giornate
fredde.
E
le due poesie che Anna Segre ha letto al festival della poesia di Grosseto –
così torniamo al nostro secondo incontro – quelle che mi avevano fatto
un’impressione così forte, tratte dal nuovo libro in pubblicazione, sono due
ritratti demistificanti della madre e soprattutto del padre:
Il mondo
era per mio padre
quello che mio padre
era per me.
La paura delle
squadracce,
l’ingiustizia della legge,
il potere perché può,
doversi guardare dai tutori,
non poter amare chi voleva,
la vittoria della mediocrità
nella sua accezione
peggiore,
il lenocinio della sua protezione,
l’impunità a dispetto
dell’evidenza.
Lo faceva
impazzire
questa balia,
questa debolezza gli levava
il sonno.
E quando dormiva
sognava dittatori.
E quando si svegliava
voleva invertire le parti.
Questo era il mondo per lui.
Questo era lui per me.
E
così, alla fine, non avrei il ritratto di poeta che cercavo: perché ne ho
trovate tante al posto di una.
Se non fosse per quell’immagine mentale, legata alla mia prima assurda
sensazione, di avere davanti uno scricciolo o un condor, quell’immagine di
uccelli su cui ho continuato a riflettere.
Perché alla fine l’ho trovata. È in un racconto di Bruno Schulz, lo scrittore
ebreo morto in Galizia durante la Seconda guerra mondiale, che trasfigurava il
mondo in visioni fantastiche, facendosi trascinare dalla sensualità e dalla
magia delle parole.
Il racconto, contenuto nella raccolta Le
botteghe color cannella (l’unica sua opera che abbiamo, purtroppo), si
intitola Gli uccelli.
Il padre del protagonista, la stessa incombente figura che poi si arruolerà nel
corpo dei pompieri e che conserva nel cassetto della sua stanza una magica
mappa murale in pergamena della città, nel racconto inizia ad allevare uccelli
in casa, incrociando specie provenienti da tutto il mondo. Ne finisce assediato
nella soffitta, che poi verrà disinfestata dalla domestica (Adela), armata di
scopa:
“Subito si levò una nube infernale di penne, ali e strida, in mezzo alla
quale Adela, simile a una Menade infuriante protetta dal mulinare del tirso,
danzava una danza di distruzione. Assieme al branco degli uccelli mio padre
tentava, in preda al panico, di sollevarsi in aria sbattendo le braccia. Poi, a
poco a poco, la nube alata si diradò, finché sul campo di battaglia non
rimasero che Adela, sfinita, ansimante, e mio padre con un’espressione afflitta
e vergognosa, pronto ad accettare ogni capitolazione.
Un istante più tardi mio padre scendeva gli scalini del suo dominio: uomo
spezzato, re in esilio, che aveva perduto il suo trono e il regno.”
______________________
Anna Segre è una poetessa, medico e psicoterapeuta.
Tra le sue opere più significative figurano “Monologhi di poi” (Manni Editore), “Lezioni di sesso per donne sentimentali” (Coniglio Editore), “Il fumetto fa bene. Letture come terapia” (Comicout), e le seguenti pubblicazioni con Elliot: “Judenrampe. Gli ultimi testimoni”, “Biografia di una vita in più di Fatina Sed”, “100 punti di ebraicità (secondo me)” e “100 punti di lesbicità (secondo me)”.
Il suo lavoro letterario è stato ampiamente riconosciuto e premiato. Ha ricevuto importanti riconoscimenti, tra cui il prestigioso Premio Camaiore nel 2022 per “La distruzione dell’amore” (InternoPoesia, 2022) e il Premio internazionale ‘Città del Galateo’ per la stessa opera. La sua ultima pubblicazione, “A corpo vivo”, è una raccolta di 84 poesie che esplorano temi di desiderio e amore
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