POESIA E ALTRE FORME - Massimo Maggiore - VALE LA PENA CONTINUARE A SCRIVERE? LA POSSIBILE SOLUZIONE DEL DECOSTRUTTIVISMO IN ARCHITETTURA
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Massimo Maggiore |
Questo mio
scritto sarà influenzato da un senso di disillusione che di recente mi ha colto
e dalle letture dell’estate appena trascorsa: “Wilhelm Meister” di Goethe e “Il
colpo di grazia” di Yourcenar
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Sarà uno scritto a ruota libera, uno stream of consciousness vecchio stile.
“La vita è tragica, la vita è stupida, però è bellissima essendo inutile” cantano i Baustelle nella canzone “La vita”, per me una delle più belle scritte in Italia nell’ultimo decennio almeno. Poi il testo di Bianconi prosegue con una illuminazione: “pensare che la vita è un sciocchezza aiuta a vivere”. Io non so se la vita sia una sciocchezza. Tendo comunque a pensare che occorrerebbe darle meno importanza individualistica. E invece siamo intrappolati in una gabbia che ci fa confondere il senso della vita, sommamente plurale e collettivo, con la vita singola di ciascuno di noi, ovvero con l’istinto di vivere, che ci induce nell’errore di attribuirci troppa importanza.
Wilhelm
Meister si dedicava anche alla poesia e compie un gesto che io stesso dovrei compiere,
mi viene da pensare spesso. Meister decide di abbandonare la scrittura di
versi, esercitando una critica feroce su se stesso. Questo autodafé è scatenato
– neanche a dirlo – da una delusione amorosa. Scrive in proposito Goethe che Wilhelm,
tormentato dal dolore per la rottura con l’amatissima Mariane:
Si inizia a scrivere per amore e si smette di scrivere per il venir meno dell’amore? Certo, si tratta di un motore potente e invadente di questa e altre manifestazioni dell’umano, che mette in gioco il proprio io (a proposito, come potrebbe l’Intelligenza Artificiale offrirci altro che simulacri di testo, senza avere la coscienza di aver amato, poter amare, aver vissuto insomma questa sciocca vita?). Diciamo che è una estremizzazione romantica che si può leggere in un romanzo scritto nel periodo (fine ‘700) in cui il grande romanzo europeo si manifestava nella sua forma più pura e per certi versi grandiosa (altra divagazione: il romanzo in Europa è essenzialmente un affare di francesi, tedeschi, inglesi e russi).
D’altronde maneggiare
le forme espressive a un certo punto per decostruirle interamente è un
esercizio sano per cercare di guardare alla propria vita con un gradiente di
maggiore distacco. Decostruzione che può arrivare fino al limite massimo di
tolleranza, prima del punto di rottura, del crollo dell’impalcatura formale.
Il
decostruttivismo in architettura fa ben capire come si possa giocare col punto
di rottura, corteggiare l’autodistruzione, sfidare i vincoli statici. Un
esempio di questa decostruzione si trova a Praga, nella Casa danzante di Frank
Gehry, uno dei massimi esponenti del decostruttivismo in architettura.
Quest’opera sfida con ogni evidenza le convenzioni ed è tanto più didascalica nel suo intento di rottura formale, perché innestata in un dialogo urbanistico col vecchio palazzo che si vede alla sua destra. Spinge chi guardi a farsi domande sull’architettura e la sua funzione e quindi sul concetto stesso di utilità o inutilità.
Traslando Gehry nella letteratura, immagino (ma non lo so sto solo immaginando appunto nulla sapendo a riguardo) che questa stramba forma possa essere germinata in Gehry da un momento di insoddisfazione per la capacità che i suoi progetti precedenti, magari più tradizionali, avevano di rappresentarlo ovvero di rappresentare il suo “io” in quell’istante. Poteva essere l’insoddisfazione di chi non senta più la propria voce in quella determinata espressione o, per dirla con Goethe, “nei suoi lavori non vedeva altro che la piatta imitazione di certe forme tradizionali”.
D’altronde come si desume dalla pagina Wikipedia sul decostruttivismo in architettura, i suoi esponenti hanno inteso distaccarsi dai tradizionali riferimenti alla geometria euclidea, ai piani e agli assi, rinunciando agli elementi costruttivi e decorativi normalmente considerati essenziali in quest’arte. Si tratta, quindi, di una sorta di “non architettura”, che si sviluppa e si ripiega su sé stessa, mettendo in risalto la forza plastica e la chiarezza dei suoi volumi.
Aggiungo che, guardando un edificio decostruttivista, si determina un tromp l’oeuil che
porta a credere che la forza di gravità non sia più in fondo un vincolo
insuperabile, ma altro non sia che un’idea d’abitudine, un inganno – esso sì –
determinato dalla limitatezza dell’esperienza. L’Ufa center di Dresda dello studio
viennese Coop Himmelb(l)au è un esempio del rapporto dialettico proprio con il
concetto stesso di gravità.
La vita
(torno ai Baustelle) d’altronde è stupida, perché deterministica. Lo è anche la
statica, che non lascia scampo rispetto al vincolo dell’attrazione
gravitazionale.
Nella canzone del gruppo toscano si avverte una nota di accettazione di una condizione esistenziale, che in Wilhelm Meister assume toni didattici. Si legge verso la fine del romanzo questa frase: “L’uomo non è felice finché le sue aspirazioni incondizionate non pongono un limite a se stesse”.
Sembra che il decostruttivismo sia invece un atto di rifiuto del limite. Le aspirazioni incondizionate vengono alimentate e assecondate. Il suo limite sta come dicevo nell’inganno, nel fatto che strutture interne invisibili, dislocazioni sapienti di spazi che fanno credere che un edificio non potrebbe stare in piedi, mentre invece è lì davanti al nostro sguardo, sollecitano la meraviglia, mentre celano la verità della forza di gravità che impone artifici tecnici, trabeazioni e fondamenta e rapporti di equilibrio tra forze contrastanti che conquistino l’indulgenza della spinta inesorabile verso il basso.
Andare fino
in fondo a se stessi è un esercizio pericoloso. La letteratura può consentirlo
senza infingimenti, senza inganni dell’occhio. M. Yourcenar nella prefazione al
suo breve romanzo "Il colpo di grazia" scrive una cosa molto bella a questo
riguardo:
Qui Yourcenar sembra darci un messaggio contrario rispetto a quello del decostruttivismo in architettura. La letteratura è un mezzo per assecondare le forze, anche quelle più potenti che ci trascinano al fondo del nostro essere, per cercare di rintracciare la materia oscura di cui siamo composti, quella che come nell’universo, sappiamo esserci, ma che non emana radiazioni, c’è e determina la rotazione della galassie, ma rimane invisibile.
E qual è la
modalità espressiva migliore per raggiungere questo obiettivo di esplorazione
del fondo? Sempre secondo Yourcenar, la letteratura è una finzione che si
manifesta meglio come tale quando si scrive in prima persona. Ancora Yourcenar:
Lo stesso pensava Proust del narratore della Recherche, tutta costruita in prima persona, tranne la parentesi di Un amore di Swann, ma guai a pensare che il "moi" della Recherche fosse lui stesso, Marcel. Proust d’altronde nel suo “Contre Sainte-Beuve”, che contiene in nuce i temi di estetica letteraria che poi verranno sviluppati nella Recherche, scrive: “Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi”.
Quindi la letteratura utilizza un’altra finzione, aiutare a decostruire l'Io attraverso il paradosso massimo di utilizzare l’io narrante o l’io lirico? La mia risposta a questo quesito è che penso sia così, ma mi chiedo se qui non si riproduca lo stesso inganno dell’occhio del decostruttivismo in architettura. Ossia se anche in letteratura non si determini l’utilizzo di artifizi che, dietro la separazione dell’io dichiarato nel testo rispetto a quello dell’autore, poi di fatto non nasconda intatto lo spettro di quest’ultimo. Torno al punto di partenza e qui dichiaro il pensiero che ogni tanto mi accompagna di smettere di scrivere versi, per liberarmi dal mio stesso spettro.
L’inquietudine perenne che anima l’essere umano (e me nella fattispecie) ci avvicina sempre al limite, ci fa desiderare la palingenesi che passa sempre dalla distruzione, ovvero dalla scomposizione o quantomeno dalla decostruzione. Esempio di questo procedimento in poesia a me è sempre parsa l’opera di Milo De Angelis, che come nessuno forse utilizza la decostruzione delle immagini e della lingua per creare nuove immagini ed espressioni, allo stesso tempo oscure ed eloquentissime. Vi lascio quindi proprio con un testo di De Angelis, tratto dalla silloge “Distante un padre” (uscita nel 1989, pochi mesi dopo la mostra a MoMa del 1988 che fece conoscere al mondo il decostruttivismo in architettura):
TRADUCENDO INVANO
Retrocesse il doppio impazzire
Indicando un superstite, ci chiamava
in equilibrio.
Più nostre sembravano le uova
sfiorate in un anno di digiuno. Sia
l’eccezione; sia intatto o definitivo.
Cara mano di borotalco e di taglio,
altri graffi affondano
e il suo vero canto nunziale si è
perso
in un turno di treni. Non hai
imitato la morte, era
quella vela che tenevi ferma.
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