POESIA ALL'OPERA– Stefania Giammillaro – “se tu non mi ami, io ti amo/se io ti amo, attento a te!” L’amore e le sue regole

 

Stefania Giammillaro

[…]

L'amour est l'enfant de Bohême,
Il n'a jamais, jamais connu de loi;
Si tu ne m'aimes pas, je t'aime;
Si je t'aime, prends garde à toi! (Prends garde à toi!)
Si tu ne m'aimes pas,
Si tu ne m'aimes pas, je t'aime; (Prends garde à toi!)
Mais si je t'aime, si je t'aime;
Prends garde à toi!

[…]

- L'amore è un piccolo boemo (Romanì),
Non ha mai, mai conosciuto legge,
se tu non mi ami, io ti amo
se io ti amo, attento a te! -



Scelto oggi per voi un estratto della celeberrima Habanera della Carmen, opéra-comique di Georges Bizet, articolata in quattro atti (o quadri) su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, tratta dalla omonima novella di Prosper Mérimée (1845).

Può considerarsi un vero e proprio manifesto sulla concezione di vita e d’amore della bella zingara protagonista, la quale dapprima ammalia il sergente Don José, che per proteggerla, viene incarcerato e degradato a soldato semplice, per poi fuggire con lei costretto a condurre una vita da fuorilegge e, in segno di riconoscenza, lei proprio lei poi lo tradirà, per unirsi al celebre torero Escamillo, affascinata dalle ricche profferte di quest’ultimo.

Una dichiarazione che scade in evidente contraddizione ossimorica, se si pone mente al fatto che Carmen esordisce precisando che l’amore “è un piccolo boemo” o, secondo altre traduzioni, “piccolo zingaro”, o ancora “un bambino da Boemia”, poiché (e sono concordi tutte le versioni) “non ha mai conosciuto legge”. Tuttavia, è proprio Carmen che detta una regola ben precisa e cristallina, che ha tutto il sapore di un monito, di un avvertimento: “Si tu ne m'aimes pas, je t'aime; (Prends garde à toi!)/Mais si je t'aime, si je t'aime;/Prends garde à toi!” – [se tu non mi ami, io ti amo/se io ti amo, attento a te! ]

La domanda, quindi, sorge spontanea: siamo davvero sicuri di accogliere di buon grado la natura irrazionale propria del sentimento amoroso, che in quanto oiseau rebelle (uccello ribelle) rifugge da tutte quelle leggi, crismi, rigidità, etichette che lo soffocherebbero, oppure siamo letteralmente spaventati dal non sapere, non prevedere, non poter controllare, che senza rendercene conto erigiamo paletti e definiamo confini?

La regola che pone Carmen si discosta sia dall’amore “erotico” fondato sul c.d. “do ut des”, quindi sulla reciprocità, sia dall’amore “agapico” che respira di gratuità piena, dove nulla è chiesto in cambio e, per questo, è spesso associato alla figura genitoriale o più ancora al Divino e che in un certo senso ricorda l’aforisma dannunziano: “io ho quel che ho donato perché nella vita ho amato”, che, a sua volta, altro non è che la traduzione del verso di RabirioHoc habeo quodcumque dedi”, ripreso da Seneca nel De beneficiis (VI, 3, 1). Ebbene, Carmen va oltre entrambi, negandoli entrambi: “se tu m’ami/io non t’amo, [ma] se io t’amo/ attento a te!” Si annulla sia la reciprocità sia la gratuità: l’amore diventa una spasmodica, ossequiosa riverenza piegata ai capricci di lei, la “donna” da tutti desiderata che, se vorrà, potrà ricambiare il partner con mere effusioni passionali. Lei è la zingara fuorilegge che vince sull’amore, sul denaro, la fama, ma non sulla felicità.

O meglio, non si sa se alla fine Carmen è veramente felice della sua scelta: l’opera si chiude con un alone di mistero, o meglio, è questa la sensazione trasmessa a chi scrive.

Del tutto opposta la concezione della filosofa Simone Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943) teorica dell’empatia, secondo cui l’amore è lo strumento (mistico) messo a disposizione per l’uomo affinché quest’ultimo possa avvicinarsi e unirsi infine al Divino: “Se mi si bendano gli occhi e mi si legano le mani sopra un bastone, quel bastone mi separa dalle cose, ma con quello io le esploro. Sento solo il bastone, ma percepisco solo il muro. La medesima cosa avviene alle creature con la facoltà di amare. L'amore sovrannaturale tocca solo le creature e va solo fino a Dio. Ama solo le creature (che cos'altro possiamo amare?) ma come intermediarie. Come tali, ama egualmente tutte le creature, compreso se stesso. Amare un estraneo come se stesso implica l'inverso: amar se stesso come un estraneo.” ( “Pensées sans ordre concernant l'amour de Dieu” – S. Weil).

L’amore torna, invece, calato nella sua carnalità terrena in Dopo di Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950), tratta dalla raccolta “Lavorare Stanca”, nella quale sembra riprendersi il tema aubade in accezione in certo senso vicina alla matrice provenzale – tradizionale, che evoca l’alba come addio sospirato dagli amanti dopo una notte di passione: "Ma domani nel cielo lavato dall'alba/la compagna uscirà per le strade, leggera/del suo passo. Potremo incontrarci, volendo". I protagonisti sono due innamorati che vivono il loro amore nonostante il fascismo, anzi forse "a causa del fascismo". Ne parla Tiziano Scarpa nella sua introduzione al volume "Cesare Pavese - Le Poesie" (Einaudi del 2020), il quale sostiene che "Dopo", scritta nel 1934, costituisca la prova (poetica) che "nonostante tutto le esperienze umane fondamentali sono indistruttibili".

Dopo

La collina è distesa e la pioggia l’impregna in silenzio.

 

Piove sopra le case: la breve finestra

s’è riempita di un verde più fresco e più nudo.

La compagna era stesa con me: la finestra

era vuota, nessuno guardava, eravamo ben nudi.

Il suo corpo segreto cammina a quest’ora per strada

col suo passo, ma il ritmo è più molle; la pioggia

scende come quel passo, leggera e spossata.

La compagna non vede la nuda collina

assopita dall’umidità: passa in strada

e la gente che l’urta non sa.

 

Verso sera

la collina è percorsa da brani di nebbia,

la finestra ne accoglie anche il fiato. La strada

a quest’ora è deserta; la sola collina

ha una vita remota nel corpo più cupo.

Giacevamo spossati nell’umidità

dei due corpi, ciascuno assopito sull’altro.

 

Una sera più dolce, di tiepido sole

e di freschi colori, la strada sarebbe una gioia.

E’ una gioia passare per strada, godendo

un ricordo del corpo, ma tutto diffuso d’intorno.

Nelle foglie dei viali, nel passo indolente di donne,

nelle voci di tutti, c’è un po’ della vita

che i due corpi han scordato ma è pure un miracolo.

E scoprire giù in fondo a una via la collina

tra le case, e guardarla e pensare che insieme

la compagna la guardi, dalla breve finestra.

 

Dentro il buio è affondata la nuda collina

e la pioggia bisbiglia. Non c’è la compagna

che ha portato con sé il corpo dolce e il sorriso.

Ma domani nel cielo lavato dall’alba

la compagna uscirà per le strade, leggera

del suo passo. Potremo incontrarci volendo.

 

(Cesare Pavese, 1934 da “Lavorare stanca [1936-1943]”, Einaudi “Le Poesie” – con Introduzione di Tiziano Scarpa, 2020)



Tra il trascendente platonico di Simone Weil e l’immanente aristotelico di Pavese, quasi a delineare il noto affresco di Raffello Sanzio “La scuola di Atene”; si colloca la irriverente unilateralità di Carmen che reca in sé e con sé il gusto amaro della delusione che depone le armi, che cede, che non crede più, come la triste rassegnazione che aleggia sui versi di Anna Andreevna Achmatova (1889-1966 - pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko)

La porta accostata,
il lieve ondeggio degli alberi di tiglio…
Sul tavolo, chissà dimenticati,
un frustino e un guanto.

L’alone giallo della lampada…
Sento un fruscio.
Perché sei andato via?
Io non capisco…

Domani sarà un mattino
di serenità.
La vita è splendida,
sii saggio, cuore.

Sei così stanco,
rallenta, batti piano…
Pensa, ho letto
che l’anima è immortale.

 

Si direbbe che per Carmen non valga la locuzione latina “in medio stat virtus”, precipitato fondamentale dell’Etica Nicomachea di Aristotele, per la semplice ragione che le regole dettate nella “Habanera” operano contro lei stessa, come contro chiunque le proclami, poiché rappresentano un ostacolo alla stessa possibilità di felicità. Forse bisognerebbe rispettare le premesse “l’amore non ha mai conosciuto legge” ed assecondare il flusso, e rischiare di cadere, affogare fino a precipitare, con la consapevolezza che ogni ferita è un tentativo per scoprire sempre più e meglio il posto riservato per noi in questa fase di passaggio che è la vita nel mondo, in questo mondo così furbo, stretto, “tetro”.


Cammini, a me somigliante,

gli occhi puntando in basso.

Io li ho abbassati – anche!

Passante, fermati!

 

Leggi – di ranuncoli

e di papaveri colto un mazzetto

– che io mi chiamavo Marina

e quanti anni avevo.

 

Non credere che qui sia – una tomba,

che io ti apparirò minacciando…

A me stessa troppo piaceva

ridere quando non si può!

 

E il sangue affluiva alla pelle,

e i miei riccioli s’arrotolavano…

Anch’io esistevo, passante!

Passante, fermati!

 

Strappa uno stelo selvatico per te

e una bacca – subito dopo.

Niente è più grosso e più dolce

d’una fragola di cimitero.

 

Solo non stare così tetro,

la testa chinata sul petto.

Con leggerezza pensami,

con leggerezza dimenticami.

 

Come t’investe il raggio di sole!

Sei tutto in un polverìo dorato…

E che almeno però non ti turbi

la mia voce di sottoterra.

 

Marina Ivanovna Cvetaeva, Koktebel, 3 maggio 1913

(Traduzione di Pietro Antonio Zveteremich - da “Marina Ivanovna Cvetaeva - Poesie”, Feltrinelli – I Classici, Milano, 2022)

 

 


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