IL DIARIO DI DAFNE - Ester Guglielmino – L’eterodiegesi del potere

 

Ester Guglielmino

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur.


[La Gallia è, nel complesso, divisa in tre regioni: una di queste la abitano i Belgi, un’altra gli Aquitani, la terza (la abitano) quei popoli che nella propria lingua si chiamano Celti e, nella nostra, Galli.]

 Gaio Giulio Cesare, Commentarii de bello Gallico, I,1


Lionel_Royer, Vercingetorix jette ses armes aux pieds de Jules César, olio su tela, 1899,

Musée Crozatier (Puy-en-Velay, Auvergne, Francia)


Chiunque abbia mai avuto a che fare con la lingua latina riconoscerà subito, in queste poche righe, uno degli incipit più famosi della sua letteratura. Letto - in più di duemila anni - da milioni di persone; tradotto con ammirevole rassegnazione da altrettanti milioni di studenti; sviscerato nel profondo da secoli e secoli di letture critiche, il De bello Gallico di Cesare resta uno dei capolavori della tradizione letteraria consegnataci da Roma, per la purezza della lingua, per l’accuratezza dello stile, per la sobrietà delle scelte argomentative; ma non solo, non possiamo certo tralasciare - specie in congiunture storiche particolari - quanto il primo dei Commentarii cesariani resti un capolavoro d’astuzia politica, un’apoteosi sopraffina di diplomazia, la meditata e mirabile giustificazione di un’ingiustificabile deliberazione: la volontà di portare a compimento - dietro le mentite spoglie di un’impresa doverosa - un grandioso progetto di potere personale;  la preordinata strage di un popolo come obolo necessario alla propria affermazione. Ma forse è il caso di fare un passo indietro, nel tentativo di spiegare come tutto questo poté avvenire e per quali vie poté trasformarsi in un monumento letterario di stile.

Giulio Cesare era nato, nel 100 (o 101) a.C., dalla prestigiosa gens Iulia, famiglia di nobilissime (financo divine!) origini ma - pare - parzialmente decaduta, tanto che l’uomo più celebre della storia romana venne partorito nella Suburra, un affollato e assai modesto quartiere popolare. Imparentato con Silla, per parte di madre, e con Mario, per parte di padre, il giovane Gaio Giulio decise presto di schierarsi con la fazione progressista dei populares, più aperta a esigenze di equità e rigenerazione sociale, rese urgenti dalla crescente forbice sociale che separava i ricchissimi latifondisti dal resto del popolo romano, scaduto dalla condizione originaria di prima forza produttiva e militare a quella di proletariato urbano di rango clientelare. Scampato per miracolo alle liste di proscrizione sillane[1], di fatto, solo dopo la morte del dittatore ottimate, Cesare poté intraprendere con successo il cursus honorum, diventando edile, pretore e massimo pontefice. Poi la sua fama politica venne in parte oscurata dalla torbida vicenda della congiura di Catilina, un colpo di stato ordito - nel 63 a. C. - dall’ala più intransigente e spregiudicata dei populares e al quale, con ogni probabilità, anche Cesare aveva partecipato, pur essendo riuscito alfine a uscirne illeso per fama e per vita. Eppure nei sospettosi e turbolenti anni che seguirono l’incresciosa vicenda - conclusasi con la morte di Catilina e l’esecuzione sommaria di tanti sospettati congiurati - si aprirono a Cesare nuove strade per inaspettate alleanze personali. I suoi disegni politici riuscirono, infatti, a intercettare le esigenze del più illustre romano del tempo.

Pompeo Magno aveva ricevuto tale soprannome per aver salvato il suo popolo da varie e complicate situazioni: aveva vinto la guerra contro i pirati cilici, che tormentavano l’economia mercantile; aveva sconfitto il re del Ponto Mitridate, avversario fiero e pericoloso; aveva approfittato della campagna militare sul Bosforo per inquadrare sotto il protettorato romano tutto il Mediterraneo orientale. A Pompeo, Cesare seppe vendere bene la sua preziosa alleanza contro l’ingratitudine miope del senato romano e il valente generale accettò di buon grado l’occasione, non comprendendo fino in fondo la pericolosità politica dell’uomo con cui ora aveva a che fare. A questo sodalizio - passato alla storia come primo triumvirato - prese parte anche Crasso, l’uomo più ricco di Roma, esponente di spicco d’una classe equestre via via più influente e potente. L’accordo, del 60 a.C., privato, prevedeva scambi di favore reciproci; fu così che Cesare divenne console per l’anno 59 a.C., soddisfacendo le richieste dei suoi due soci, e che, con la consueta lungimiranza, si fece attribuire per l’anno successivo il proconsolato dell’Illirico e delle Gallie Narbonense e Cisalpina[2]. Sapeva bene che per uguagliare la fama di Pompeo gli sarebbe servito un uguale prestigio militare, quindi progettò fin da subito l’impresa che avrebbe compensato le sue aspettative.

La Gallia Transalpina, corrispondente in buona sostanza all’attuale Francia e a parte della Germania, era un territorio assai vasto e certo non disabitato. I Galli erano un popolo fiero di nomadi e combattenti, si spostavano di continuo in grandi carovane che comprendevano anche donne, vecchi e bambini. Avevano un’organizzazione sociale strutturata, i druidi come guide politiche e religiose, un patrimonio culturale antico che affidavano alla trasmissione orale. Erano litigiosi, sempre in guerra tra loro, ma fieri, coraggiosi, profondamente orgogliosi. Con loro Cesare fu molto astuto: il proconsolato gli regalò perfetta la chiave di volta per fomentare rivalità interne, seminare discordie, costruire patti che li mettessero gli uni contro gli altri. Nell’arco di otto anni (dal 58 al 50 a.C.), tutta la Gallia[3] venne interamente conquistata, i Galli in gran parte trucidati, la loro cultura messa a tacere sotto l’egida d’una cultura formalmente superiore. Ancora oggi resta oggetto di discussione se quello perpetrato da Cesare contro i Galli (e parte dei Germani) possa essere considerato un genocidio, portato avanti con l’intenzione di annullare un’identità culturale per sostituirvi un popolo nuovo, epurato attraverso il filtro della romanizzazione. Forse il termine, per come lo possiamo intendere ora, non si adatta bene alle logiche militari antiche o forse, in ogni scorcio di storia, esistono principi umanitari universali a cui non si dovrebbe mai venire meno. La questione meriterebbe quantomeno un’hegeliana digressione sull’astuzia della ragione[4] ma a interessarci, in questa sede, non è tanto la conquista, considerata di fatto una parentesi luminosa della storia romana (ovviamente ben più oscura qualora si cambiasse appena appena la prospettiva), a interessarci è la capacità che Cesare ebbe di decantare tale massacro attraverso la sobrietà, classica e composta, della sua algida e oggettiva narrazione. Il De bello gallico nasce come un diario di bordo, pertiene infatti al genere dei Commentarii, appunti di guerra che costituivano una sorta di resoconto embrionale delle decisioni prese durante le campagne militari. Ma questo diario di guerra ebbe la peculiarità non trascurabile d’essere scritto da una personalità d’eccezione: quella dello stesso Cesare, che il massacro dei Galli lo aveva programmato, portato avanti, completato con sistematica determinazione per fini esclusivamente personali e che, presso contemporanei e posteri, doveva giustificare in maniera irreprensibile quest’empia decisione. Cesare non era solo un uomo politico, era pure un fine letterato, aveva scritto un trattato di linguistica, aveva studiato filosofia e retorica, era scaltrito nell’arte della comunicazione non meno di quanto lo fosse nell’arte della guerra. E infatti, da esperto della parola, decide di non parlare mai in prima persona, nominandosi non ricorre mai all’io, al me, al noi; lui si contempla da una specola lungimirante, distaccata, necessaria. Lui chiama sé stesso Cesare. Lui si dipinge come uno stratega impeccabile. Lui si autorappresenta nell’atto di prendere decisioni irrinunciabili. Lui sceglie sempre il male minore per preservare il bene di Roma o, per magistrale ironia, dei suoi malcapitati alleati. È così che prende forma, in maniera subdola e sotterranea, la narrazione falsa della palingenesi insita in ogni programma di civilizzazione. La cultura imperialista romana, salda e forte della sua scrittura, trova nella tradizione barbara orale il contraltare involuto su cui rifrangere la sua stessa luce. Insomma, la retorica tristemente nota del popolo superiore che salva dall’inciviltà quello culturalmente inferiore e che, se ne uccide a migliaia i figli, in fondo lo fa per il bene dei nipoti, per non destinarli a un futuro di deprivazione. Ed è nel VII libro - climax naturale della narrazione - che Cesare compie il suo passo più magistrale in questa direzione. È il 52 a.C. e Cesare ha già conquistato in pratica tutta la regione, ma i Galli, superando le consuete rivalità nel nome di un bene comune superiore, tentano un atto di resistenza estrema, sotto la guida di Vercingetorige, giovane re degli Arverni e unico ad aver dimostrato di saper tenere testa al grande stratega romano. Incalzati dall’esercito romano, i resistenti trovano rifugio nella città di Alesia, abitata dalla popolazione locale dei Mandubi. Non abbiamo cifre precise, eccetto quelle di parte riferiteci da Cesare, ma pare che i soli combattenti rinchiusi nella città fossero circa ottantamila, quasi il doppio rispetto alle forze in suo possesso. Per questo decide di evitare un assalto frontale. Cinge la città d’assedio, ai fianchi le scava profondi fossati, da parte a parte costruisce circonvallazioni che impediscano ogni contatto con l’esterno. Lì dentro prima o poi dovranno arrendersi o morire tutti, di inedia. Dopo cinquanta giorni l’obiettivo è pressoché raggiunto. Fuori s’aspetta la resa definitiva, ma dentro tra l’aristocrazia guerriera si leva una voce, schietta e tremenda. A questa voce il Cesare scrittore concede addirittura un discorso diretto, una rarità nell’opera (e nel genere) che privilegia sempre la narrazione indiretta. Critognato, nobile e valente guerriero, preso atto della situazione disperata, propone ai compagni un’unica terribile via d’uscita: uccidere i più deboli e indifesi, destinati a soccombere comunque; nutrirsi della loro carne per consentire alla civiltà dei Galli di continuare ad andare avanti con la sua lotta, con la sua storia.

 

3. Era costui un arverno d’illustre famiglia e tenuto in gran conto, che così parlò: “Nulla dirò della proposta di coloro i quali chiamano resa l’onta suprema della schiavitù; per me questi tali non dovrebbero essere considerati cittadini né ammessi nella loro assemblea. 4. Io vorrei avere a che fare solo con coloro che parteggiano per una sortita. Nella loro proposta, confortata dal consenso di voi tutti, si annida evidentemente il ricordo dell’antico valore; 5. ma è debolezza d’animo, non valore, l’incapacità a sopportare per poco l’indigenza. È più facile trovare gente disposta a uccidersi di propria mano che a sopportare il dolore con pazienza. 6. Eppure io approverei questa risoluzione, tanto è forte in me il senso della dignità, se vedessi che comporta soltanto la perdita della nostra vita. 7. Invece, nel prendere una decisione cerchiamo di aver riguardo per tutta la Gallia che abbiamo sollecitato ad accorrere in nostro aiuto. 8. Ebbene, quale pensate che sarebbe, dopo la strage, qui, in un luogo solo, di ottantamila uomini, lo spirito dei nostri parenti e consanguinei, costretti a battersi quasi sui cadaveri stessi? 9. Non private del vostro soccorso chi per salvarvi non ha tenuto conto del proprio rischio; non abbattete l’intera Gallia per stolta temerarietà o per debolezza d’animo, non condannatela a eterna schiavitù. 10. Ovvero, per il loro mancato arrivo nel giorno stabilito voi dubitate della fermezza della loro lealtà? Che mai? Credete che i Romani si logorino ogni giorno per piacere nella costruzione di sempre nuove fortificazioni? 11. Se non potete aver conferma dell’arrivo imminente dai messaggeri, poiché tutti gli accessi sono bloccati, sfruttate la testimonianza del nemico, che quella paura eccita a lavorare indefessamente giorno e notte. 12. Qual è dunque la mia proposta? Fare ciò che fecero i nostri avi nella guerra, nemmeno paragonabile a questa, dei Cimbri e dei Teutoni: ridotti nelle loro rocche e premuti da una carestia simile alla nostra, si tennero in vita coi cadaveri di quanti per età risultavano inservibili per la guerra, ma non si consegnarono al nemico.

Gaio Giulio Cesare, De bello gallico, VII, 77, 3-12, trad. C. Carena

 

Corre, lungo tutto l’episodio, una sotterranea ammirazione per quel coraggio fiero, spinto ben oltre le misure dell’umano, ma ancora più profondo si fa largo un obiettivo più subdolo e immediato, mostrare il vero volto del nemico: disumano, selvaggio, pericoloso, fermo allo stallo d’un percorso di sviluppo mai compiuto. Cesare, dicevamo, maneggia la penna con una maestria certo non inferiore a quella della lama e nel suo racconto chiaro, semplice, essenziale c’è tutto l’orrore che può giustificare il “suo” di orrore. E allora sì, si dicesse pure che quello della Gallia era stato un massacro, ma si vedesse altrettanto bene che esso non era stato comminato nel nome di un’ambizione personale, piuttosto nel solco d’un principio ben più alto e duraturo: spianare la strada verso la soppressione della più gretta barbarie. Il De bello gallico è un capolavoro di diplomazia, attraverso il suo stile cristallino e regolare, con la pacatezza di tono propria di chi detiene il controllo totale della storia, circonfuso da un contegno politically correct e distaccato, Cesare ci racconta l’efferatezza d’un massacro voluto che costò la vita a circa un milione di persone, annullando la cultura e la libertà di un popolo. Tutto questo ci viene narrato in forma neutra, senza alcuna apparente forzatura o macchinazione. A tal fine l’opera stessa ci viene presentata come un insieme di appunti, di annotazioni prese nel corso degli eventi e ancora in attesa di una vera e propria rielaborazione. La verità, invece, è che l’autore interviene di continuo sulla reale costruzione degli eventi, sposta episodi anticipandone alcuni e posticipandone altri, fa apparire tutte le sue scelte naturali e necessarie, traveste da guerra di alleanza e di difesa una campagna imperialista.

E c’è questo, di norma, dietro tutte le narrazioni che intercettano la frontiera ultima della crudeltà umana. Perché la realtà se non la tocchi con mano non esiste, perché la realtà nella maggior parte dei casi viene affidata alla verità della parola, perché la parola ultima è quasi sempre quella dei vincitori della storia. Fu genocidio quello dei Galli? Se lo fu, Cesare seppe trasformarlo nella narrazione composta e acclarata della propria gloria. E fu genocidio quello degli aborigeni australiani, forse uno dei più crudeli e dimenticati della storia? Quello degli indiani d’America, osannato per decenni dai fumetti e dai film che guardavamo compiaciuti al ritorno dalla scuola? E quello dei Catari ordinato dall’irreprensibile Chiesa cattolica? Fu genocidio quello del Ruanda, avvenuto solo pochi anni fa nel silenzio assordante dei colpi di machete? Fu genocidio quello perpetrato da Stalin ai danni del popolo ucraino? E quello turco contro il popolo greco e quello curdo e quello armeno? Fu genocidio quello perpetrato dai nazisti contro i Rom? Fu genocidio l’olocausto nero che deportò in schiavitù almeno dieci milioni di africani? E il Pol Pot in Cambogia, che portò alla morte tre milioni di persone in una terra che ne conteneva appena venti? Fu genocidio quello comminato dai Belgi del re Leopoldo contro gli indigeni del Congo? E quello compiuto dai tedeschi contro la Namibia in tempi non sospetti di nazismo? Possiamo davvero restare sorpresi se un termine consacrato dalla seconda guerra mondiale per individuare la più grande follia progettata contro un popolo (quello ebraico) ha in realtà un così ampio raggio di applicazione? Ancora una volta, come ai tempi di Cesare, il segreto sta nel virtuosismo strumentale con cui si usano le parole, sta nella narrazione più o meno attenta delle humanae historiae. E mai come oggi, ai fatti e alle parole, occorre prestare attenzione.



 

Bibliografia essenziale

Eva Cantarella – Giulio Guidorizzi, Civitas. L’universo dei Romani, Milano, Mondadori Education S.p.A, 2018

Gaio Giulio Cesare, Le guerre in Gallia-De bello gallico, a cura di C. Carena,  Milano, Mondadori, 1991

Santo Mazzarino, Dalla Monarchia allo Stato Repubblicano, Milano, Rizzoli, 1992



[1] Le liste di proscrizione furono degli elenchi promulgati da Silla all’indomani della sua vittoria nella prima guerra civile. Chi vi compariva poteva essere ucciso a vista, assicurando all’assassino l’acquisizione di ogni suo bene.

[2] La Gallia Cisalpina corrispondeva all’attuale Italia settentrionale, la Narbonense alla Francia meridionale, l’Illirico alla parte occidentale della penisola balcanica.

[3] Il territorio corrispondente agli attuali Francia, Belgio, Germania occidentale, Gran Bretagna meridionale.

[4] L’astuzia della ragione, secondo Hegel, consiste nel fatto che i grandi personaggi della storia, come Alessandro Magno, Cesare o Napoleone, credono di essere coloro i quali hanno determinato la storia. In realtà il processo a tappe della storia si serve dell’ambizione dei grandi personaggi per affermare il progresso dell’idea. Quindi il protagonista della storia diventa il passaggio dell’idea da un’epoca all’altra.

 


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