CRONACHE A MANAGUA - Davide Toffoli - Vincenzo Mascolo, IL MINIMO COMUNE VIAGGIATORE, Interno Poesia, 2024

 

Davide Toffoli

Questo ultimo lavoro in versi di Vincenzo Mascolo è un viaggio iniziatico, un canzoniere d’amore per la poesia, per le persone care, per i luoghi vissuti o attraversati. Si tratta di una preziosa ricerca sul senso stesso dell’esistenza, intrisa di riferimenti e citazioni di autori amati, in musica e in letteratura, che si trasforma in dialogo costante e dialettico con la parola.

Il tono può apparire spesso prosastico, ma si serve di una ricorrente cadenza endecasillabica.  Il suo scrivere poesia diventa quindi un modo per confondere di continuo la morte, proprio attaccandosi umanamente e metafisicamente alla vita. Isabella Bignozzi, analizzando il lavoro di Mascolo, lo inserisce sapientemente nella scia dei grandi metafisici come Plotino, Spinoza, Cusano, Simone Weil, tutti protesi verso un’origine indivisa. È ben visibile un connubio febbrile tra soggettività e rete invisibile dell’essere. Si propone la suggestione di una pluralità di voci per far uscire la propria voce, la propria “scrittura di latenza e custodia”.

Nella Prefazione, Claudio Damiani parla di “viaggio in verticale” nutrito da costanti riferimenti artistico-letterari, che non sono mai intellettualismi, ma evidentissimi atti d’amore, semi piantati nel terreno che tornano a germogliare e a portare vita. Le sue occasioni di poesia sono autori, opere letterarie, canzoni, musiche, quadri. “La poesia è trasformare ‹‹particelle infinitesime d’inchiostro›› in ‹‹sostanza incorruttibile››, come l’oro degli alchimisti: ‹‹sarò eterno, un solo istante, / il profumo inaspettato / di un giardino rifiorito››. Per il poeta-alchimista la sua ricerca è tutto, egli mette in essa tutte le sue forze: ‹‹E’ tutta la mia forza / tutto quello che so, che ho da dire / la poesia. / Altro non voglio, non posso, non conosco››”. Partire dalla letteratura è per Mascolo la “nigredo”, l’annullamento dell’Io, fase iniziale del processo alchemico, annerimento e decomposizione; e l’arte, con la sua potenza salvifica e conoscitiva, è un atto di fede e di amore.

Il libro si apre con una dedica “a Carla, da sempre amata compagna di viaggio” e, in esergo, una citazione da Le città invisibili di Italo Calvino. La prima sezione, Il cielo e le città, è subito il desiderio di un viaggio che guardi soprattutto verso l’alto: “Verso il cielo”, “fino al cielo”, “nel cielo che mi hai dato / al centro di me stesso”. I luoghi attraversati disegnano un dialogo costante con l’altro da sé (la Venezia di Marco Polo, la Milano di Buzzati, la Lisbona di Pessoa, la Praga di Kafka, la Barcellona di Gaudì, la Parigi di Rousseau, la Buenos Aires di Borges, la Londra di Eliot, la Nizza di Chatwin, la Marsiglia di Rimbaud, la Lugano di Calvino de Le città invisibili. Tra illusione e invisibilità, Mascolo cesella chiuse potenti che si incastonano nella mente del lettore: “E forse nemmeno l’ho perduta / forse Venezia non esiste / o forse sono io che non l’ho avuta” (Venezia); “sfiorando una a una le guglie di Milano / senza fare alcun rumore / senza mai lasciare tracce sul tuo cuore” (Milano); “È solo che trascorro le giornate / a osservare il cielo dal mio letto / sognando di potermi alzare in volo / lasciando nella stanza, / non so se morto o vivo, / il corpo mio da insetto” (Praga). Luoghi e persistenze degli autori che diventano corpo e, quindi, cielo, amore, vita (“Se fosse tutto qui il mistero? / Se fosse, il cielo, tutto in questo stare?”).

E c’è persino scambio dialogico col cielo stesso, come quando la manna cade come neve dal cielo di Buenos Aires, o quando a Nizza ci troviamo a “restituire cenere alla terra / per risalire lievi // far / si / fu / mo”. La felicità si cela nell’attimo, nell’istante che sa trasformarsi in poesia, nella parola capace di dare forma all’esistenza, creando suono e forma. È Rimbaud che, sulla prua del suo battello, afferma: “Tutto è dissolto ora. / Tutto è quiete, sogno. / Sono io quel mare, io sono il vento / che rigonfia le vele del battello. / Non era il Nulla che cercavo / ma il chiarore infinito del silenzio”, mentre poco più avanti (XI) un’eco sembra quasi rispondere: “Amo il rarefarsi della notte / e il risvegliarsi muto degli eventi, / amo il suono impercettibile del cosmo, / il separarsi occulto delle cose / in atomi e molecole, frammenti / della materia che si ricompone, / sostanza indivisibile del tempo”.

La seconda sezione, Smisurata ragnatela, con riferimento alla vasta rete ferroviaria, che peraltro ben si addice a chi si professa esplicitamente un “viaggiatore minimo”, è un’ode inaspettata al treno, come simbolo perfetto di ciò che riesce ad unire, ancora una volta, interiorità e luoghi (“e penso nel mio andare all’universo / come a un’immensa smisurata ragnatela / a un reticolo invisibile di fili / che lega tutto a sé”). Si passa con disinvoltura tra le citazioni da The dark side of the moon dei Pink Floyd, da La locomotiva di Guccini, da La tempesta di Shakespeare, per puntare dritti al cuore del mistero: quella poesia che tutto unisce e tiene insieme in un “brulicare oscuro di elementi primordiali”, ricomponendo gli opposti universali: “Andare verso l’Uno è il senso di ogni cosa / condurre all’unità tutto il duale / che ci compone e nel contempo ci separa / corpo e anima vita e morte bene e male / notte e giorno sole e luna terra e cielo”.

Degna di nota la figura dell’amico Gigi, neurochirurgo, una vera e propria parte di sé più razionale, una figura che sembra completare l’autore stesso. Una sorta di Giovanni Drogo asserragliato nella sua Fortezza Bastiani a scrutare “in lontananza i segni / dell’incedere nemico che minaccia / la difesa del suo credo razionale”.  Ma soprattutto la persona giusta con la quale condividere quel silenzio assordante che accompagna il nostro naufragio di uomini di fronte al mistero e al dolore. Chiude una citazione dal Prometeo incatenato di Eschilo: “Cercai la scaturigine segreta / del fuoco che si cela nel midollo / della canna, maestro d’ogni arte, / via che si apre”.

La terza e conclusiva sezione, Orphée, si ispira all’omonimo lavoro in musica del compositore Jóhann Jóhannsson. In questo caso il viaggio si svolge nel sottosuolo, nasce da una necessaria discesa agli inferi. La sezione si compone di 15 parti, come nell’opera del compositore islandese. Ritroviamo la “lira abile”, strumento capace di cantare “da secoli / le storie del principio / il Caos / l’Eterno / il Nulla / la Creazione / la nascita di Gea / che sposa Urano / l’espansione / nello spazio temporale”, anche se tutto è di passaggio e “ritorneranno in polvere / le corde / sfilacciate / della lira”. La parola cade in verticale e Orfeo-Mascolo si interroga con versi frananti sino al dispiegarsi più calmo del testo di De Gregori: “come / poteva / l’amore / trovare / riparo / nei miei / versi / come / potevo / dare / a lei / un riparo / se la polvere / dei libri / straripava / nella stanza / se l’io lirico / premeva / su ogni muro / soffocando / la matrice / della vita / quotidiana / se la radio / trasmetteva / di continuo / in modulazione / di frequenza / la stessa / canzone / di Francesco // e  tutte queste informazioni di Vincent / girano in tondo e non mi spiegano cos’è / che muore”. 

Il testo conclusivo, Inno orfico, è una sorprendente prosa senza freni e senza punteggiatura dove, ad affiancare la persistente ricerca di sé e della luce, trova ampio spazio una storia caotica, spesso inaccettabile e durissima da digerire, nerissima e devastante, che diventa un’immagine mobile di quella morte alla quale si tenta di sottrarsi e di resistere proprio grazie alla poesia. Ne scaturisce un tritacarne di parole e di emozioni, che suona come una dichiarazione di poetica, mentre “nemmeno può aiutarci la poesia l’amore sa eludere il linguaggio scivola dai versi ci incatena a questa stanza satura dell’ombra che percorre indisturbata il tempo della Storia che abbiamo attraversato via Fani le lettere di vetro via Caetani se fossimo figure di un romanzo nella quarta forse scriverebbero ‹‹la Storia fa da sfondo al viaggio di Orphée negli inferi di una quotidianità evocata da frammenti di memoria rimandi citazioni che si intrecciano tra loro suggerendo che il reale si coagula nella misteriosa congiunzione di micro e macrocosmo di spirito e materia››”.

Ma mentre Orfeo torna alla luce da solo, Vincenzo Mascolo riesce ad andare oltre sé stesso e a tornare quindi con l’amata a stupirsi per la luce: “usciremo insieme dalle gole essiccate dell’Averno”; perché “la morte è uno stato della mente. Come l’amore il Pimandro l’infinito il Mezzogiorno la crisi della borghesia il ’68 la lotta armata. La poesia”. Oltre l’ingorgo di passato presente futuro che blocca le esistenze calcificate nell’illusione del movimento in ciascuna delle nostre città invisibili.

Vincenzo Mascolo, IL MINIMO COMUNE VIAGGIATORE, Interno Poesia 2024



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