FRAGMENTA - Deborah Prestileo - Inluiarsi, Intuarsi e Inmiarsi. Per una morfologia che plasmi l'amore
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Deborah Prestileo |
Nel Paradiso, la lingua di Dante si solleva e si assottiglia in forme sempre più diafane e vibranti, come se assecondasse il movimento armonico dei cieli. Per la prima volta, la parola umana sperimenta una tensione verso l’alto che si traduce in povertà e impotenza linguistica. Ma l’ingegno dantesco, pur confessando apertamente l’insufficienza del suo stesso dire di fronte all’esperienza del divino, plasma la lingua come materia viva, forgiando neologismi che nascono da una necessità radicale: sciogliere il cappio intorno all’emisfero linguistico emerso ed elargire a quella stessa lingua limitata gradazioni e chiaroscuri fino ad allora indicibili, se non impensabili. Tre neologismi, in particolare, colpiscono per la loro audacia e profondità: s’inluia, m’intuassi e t’inmii, concentrati nei pochi versi di Par. IX, 73-81, durante l’incontro di Dante personaggio con l’anima beata di Folco da Marsiglia.
Tutti e tre i termini sono costruiti innestando sulla morfologia verbale i pronomi personali (lui, tu, me) e le forme del verbo riflessive, con l’aggiunta del prefisso in-, che indica interiorizzazione, penetrazione, fusione. La formazione segue un impianto morfosintattico coerente con la grammatica latina e volgare, ma con una libertà creativa straordinariamente dantesca.
“Inluiarsi” significa immergersi in Dio, fondersi con Lui. È un verbo che descrive un atto di conoscenza che supera la separazione tra soggetto e oggetto, perché diviene niente meno che fusione contemplativa: chi s’inluia si immerge in Lui fino a coincidere con la sua stessa essenza. In altre parole, Dante dà voce a una condizione spirituale altissima, quella in cui la volontà e l’intelletto dell’anima beata partecipano al divino. Che significa non più osservare Dio dall’esterno, ma vivere Dio dall’interno, in ogni fibra del proprio essere. È qui, in questo spazio che credo essenziale, che si scioglie ogni dualismo tra umano e divino, perché se è vero che l’amore trascende tutto bisognerà ammetterne anche l’immanenza in ogni scelta che si compie in nome di esso.
Quando Dante scrive “se io m’intuassi come tu t’inmii” (81), non si limita a coniare (altri) due neologismi, ma fa qualcosa di più radicale: riscrive la grammatica delle relazioni. Perché “intuarsi” e “inmiarsi” sono due verbi speculari che disegnano una mappa relazionale fondata sulla reciprocità e sull’asimmetria dell’incontro umano.
“Intuarsi” significa entrare nel tu, penetrare l’interiorità dell’altro. In questo verbo si cela una precisa tensione filosofica che sovverte la concezione classica della conoscenza intesa come atto oggettivante: conoscere non è esercitare un dominio sull’altro, ma attraversare la sua corporeità incarnata; non è osservare da fuori, ma partecipare da dentro. Chi s’intuia varca la soglia, assumendosi il rischio dell’attraversamento. È un contatto che immagino delicato e viscerale, in cui si intrecciano vulnerabilità e prossimità, e che richiede una certa disponibilità a lasciarsi toccare, perché entrare nell’altro significa inevitabilmente esporsi: non è possibile intuarsi senza disarmarsi.
Specularmente, “inmiarsi” descrive il movimento inverso, che accade quando una grazia empatica permette al tu di vedere dentro il me. È questa, la condizione propria delle anime beate. Folco da Marsiglia si inmia in Dante personaggio: entra in lui e conosce la sua curiosità, il suo intelletto, i suoi sbagli e il suo amore per Dio prima ancora che costui possa formulare anche solo una domanda. Tutto il verso vive di questa dissimmetria: l’umano tende verso il prossimo, ma non riesce a raggiungerlo del tutto. Non senza il divino – o il sacro – che è evidentemente necessario per l’incontro con l’altro.
La potenza di questi verbi non è solo strutturale e semantica, in quanto la fusione di pronome e verbo in un’unità dissolve i confini della soggettività, ma anche filosofica: in un solo verso Dante costruisce una teoria dell’empatia, della reciprocità e del limite. Certo, lo fa senza dichiararlo e senza argomentarlo, ma lo mostra in azione attraverso il linguaggio, con una densità concettuale che la filosofia avrebbe impiegato secoli a raggiungere e che forse fatica ancora a eguagliare. Come se non bastasse, questi verbi anticipano concetti straordinariamente moderni: il funzionamento dei neuroni specchio, l’embodied cognition e l’intercorporeità di Merleau-Ponty, in cui comprendere l’altro significa “sentirlo” attraverso la propria esperienza.
Non esiste un modo per sfuggire alla densità semantica di questi neologismi, talmente il bisogno di sentirsi parte di qualcuno è connaturato a quell’humus insito nella radice della parola homo. L’uomo è “colui che viene dalla terra”, creatura fragile e feconda, destinato a fiorire e a disfarsi nella stessa sostanza. È radicato nella terra, non onnipotente, non separato dal creato. È materia generata e generativa. L’uomo è contenuto nello spazio tra il prefisso, il pronome e il riflessivo. Ma penetrare nella coscienza di sé stessi, dell’altro e di Dio fino a sentirsi un tutt’uno è, oserei dire, ciò che non sappiamo fare più. In una società (orribilmente) liquida e che ci illude attraverso una libertà che è solo apparente, “inmiarsi”, “intuarsi” e “inluiarsi” sono verbi di straordinaria resistenza civile a ogni alienazione emotiva e sociale. A volte, disarmarci con un gesto lieve è tutto ciò di cui necessitiamo per risvegliarci dal cieco torpore interiore che ci attanaglia.
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