Il poeta, che ha avuto il suo momento di grande riconoscimento, se non di gloria, in Italia, ma forse è già un po’ dimenticato, è Pierluigi Cappello.
La poetessa e scrittrice che va a fargli visita è la sua amica Antonella Sbuelz. La poesia Tana e parole (poesie con un nome, ossia un titolo, se ne trovano di rado, ormai) è stata pubblicata nella raccolta La misura del vicino e del lontano, nel 2016, un anno prima della morte di Cappello. Forse un presentimento.
Ho conosciuto Antonella Sbuelz proprio in quell’anno, il 2016, al festival Cormons Libri, cui erano invitati scrittori e giornalisti. Mi colpì che perdesse più tempo a chiacchierare con me che con altre giornaliste e giornalisti, molto più noti, più impegnati e in genere più interessanti.
Siamo diventati amici, anche se abbiamo avuto poche occasioni di incontrarci, poi.
Lei è una scrittrice affermata, nelle librerie con molti romanzi. Scrive tantissimo, più di quanto io riesca a leggere, anche se tre dei suoi romanzi li ho letti: Greta Vidal, ambientato durante l’occupazione dannunziana di Fiume nel 1919; Mariam, una storia libica durante la Seconda guerra mondiale; Questa notte non torno, una bella avventura per ragazzi, tra l’Afghanistan e il Friuli.
Insegna a scuola e ne scrive molto sui social, con una passione civile e un amore per il mondo dei giovani, i loro problemi, le possibili soluzioni, che le invidio.
A me, però, interessa la poetessa, soprattutto la poetessa. Che, tra tutte queste attività, in mezzo agli incontri con i lettori o con i ragazzi, tra un romanzo e l’altro, rischia di scomparire.
Antonella Sbuelz ha avuto in dono tutto ciò che può desiderare una persona che insegna e scrive: una sfilza infinita di parole a disposizione, una vera fontana copiosa, che vanno sempre a disporsi nel modo più giusto; la sua capacità nei romanzi per ragazzi (dopo Questa notte non torno ha pubblicato Il mio nome è A(n)sia, che invece è stato letto da mia figlia) di appropriarsi degli slang giovanili, recitarli e declinarli, variandoli per genere ed età, è ipnotica, prima che istrionica; e poi lo stupore sempre intatto, la capacità di evocare e avere a cuore e affrontare ogni pagina con il necessario pudore…
Le mancano invece la crudeltà, la spietatezza e quell’idiozia di fondo, quella muta passività davanti al destino e al male, quell’occhio (uno su due) bianco e spento, che – almeno secondo me – servono a rendere davvero unici i romanzi.
Per la poesia il discorso è diverso. Si può fare poesia dal puro incanto, dall’innamoramento continuo, dalla passione per il mondo che si fa passione civile. Gli esempi non mancano: Il seme del piangere di Giorgio Caproni, tutta la poesia di Attilio Bertolucci o quella di Claudio Damiani.
Ho in mano due piccoli libri di poesie di Antonella Sbuelz: Transitoria (2011) e il già nominato La misura del vicino e del lontano (2016), entrambi per le edizioni Raffaelli. Dentro c’è una ragnatela di racconti, in gran parte familiari, legati a una terra di confine, tormentata dalla storia, dalla geopolitica e perfino dalla geologia, quale è il Friuli.
Assomigliano alla chioma e alle radici di un albero: raccolgono la luce in alto, si allungano nel buio, in basso, a cercare fonti segrete, rocce, argille, ostacoli da aggirare.
Dentro ci potete trovare lo scorrere di una narrazione potenzialmente senza fine: Il rogo della Paganini, che arde e schianta prore a sonni e nave (nel 1940); Giovanni, un baule/stava tutto in un baule:/tutto il niente che ti portavi via; Antonio, nonno di qualcuno, che partì, tanto tempo fa, per costruire case in Ungheria, a Budapest, né altro confine che lingue/ accenti a scorticare ogni pensiero da attraversare/ nel cammino e
solo a sera la musica gitana
dal bivacco di uomini e cavalli
è lingua nuova,
lingua di violino
lingua che sa le note delle crepe
e se non dà dolore dà follia
Rosa Maria, a cui piacevano i versi di D’annunzio, né so cosa andò storto, quella notte:/ c’era una guerra nuova nel cortile; Rita e il sapore delle sue palacinke; Carlo, nella foto che ti mostra alla partenza/ mia madre ha un grande fiocco; l’infanzia della poetessa:
io custodivo in tasca
i miei bottoni
per farli tintinnare nel silenzio
di quando mi sentivo troppo sola
Gli scudi qualche volta
sono d’osso:
gli scudi sono fatti anche così
I mesi passati in tendopoli dopo il terremoto del Friuli, era l’estate del settantasei./ il sisma insegnava parole con corpi dai suoni gentili./ Mercalli. Epicentro. Sussultorio./ Normalità si dà quando la notte/ i sogni sono sogni solo tuoi; un poeta cieco accompagnato a passeggio
tu vedevi coi tuoi quindici anni,
e dovevi vedere anche per lui.
E non potevi dire erba all’erba, nubi alle nubi,
primavera ai fiori.
Non potevi cibarlo di parole
rimasticate in troppe bocche altrui.
Lui conosceva i canti degli uccelli…
l’esodo da Fiume; la disfatta di Caporetto e poi una seconda Caporetto al femminile; la fisarmonica di un nonno, che intona Principessa del Missisppì e la grande epopea argentina che l’accompagna.
I protagonisti di queste poesie sono tutti insieme una famiglia allargata, agnatizia, che sente i confini, li sorpassa, li aggira, li subisce, parte, ritorna, raccatta musiche per strada, le riporta a casa.
Ma, alla fine, non sappiamo mai precisamente chi siano: i fili delle storie vengono presi, intrecciati e persi; i sentieri si interrompono. Sono pezzi di storie raccontate con la pacata (e folle) saggezza di una bambina di 8 anni, che ci tiene molto alla dignità di chiunque incontri, di qualsiasi cosa nomini. Funziona: avverti distintamente che il male c’è, si assiepa intorno, assedia quel mondo salvato dalle parole.
Vado a cercare nella mia libreria. Una sera scrissi un messaggio ad Antonella, che avevo riconosciuto un tono o ritmo come il suo, nelle poesie della portoghese Ana Luisa Amaral. Versi così:
Piano piano è entrata mia figlia.
L’aurora entrava come lei, ma non
così docile. I piedi scalzi,
con un rumore più piccolo del mio lapis,
e un sorriso ben più grande di quello dei miei versi…
Ma adesso posso fare di meglio. Dalla libreria estraggo un volume di poesie di Rita Dove, poetessa afroamericana (Pulitzer e poi U.S. Poet Laureate nel 1995):
Da quando avevano lasciato i monti del Tennessee
senza nulla di cui poter far sfoggio
se non il bell’aspetto e un mandolino,
i due Negri appoggiati
al parapetto di un bordello
erano inseparabili: Lem accompagnava
il falsetto argenteo di Thomas.
Prendo un libro di Moniza Alvi, poetessa pakistana di lingua inglese:
Dentro mia madre
sbirciavo da un oblò di vetro.
Il mondo fuori era caldo e scuro.
Tutti guardavano dalla mia parte -
Mio padre, mia nonna,
l’aiuto cuoco, la spazzina,
il torello con le scapole
sporgenti…
Cerco le poesie di Joy Harjo, nativa delle riserve indiane, di lingua inglese:
Questa città è fatta di pietra, di sangue, di pesce.
Monti Chutgatch a est
a ovest balene e foche.
Non è stato sempre così, perché I ghiacciai
che sono fantasmi di ghiaccio creano oceani, intagliano la terra
e qui plasmano questa città, col suono.
Nuotano a ritroso nel tempo
Esiste una poesia dalla fisionomia riconoscibile, al livello internazionale, prevalentemente in lingua inglese; discende dalla confessional poetry (la vera vincitrice, nel mondo, del grande slam tra gli stili del secondo novecento), ma si allarga dall’intimità del poeta a raccontare territori, regioni, intrecci di vite, traumi legati alla fragilità, porosità o rigidità dei confini. Potrebbe anche trovare un nome comune nel termine bioregionalismo, uno dei cui principali esponenti, il poeta statunitense (originariamente di marca beat/hippy) Gary Snider, ha sostenuto che ogni fazzoletto di terra dovrebbe aver un poeta capace di dargli voce.
Sto mettendo insieme cose disparate. Mi sto avventurando…
Volevo solo dire che questa poesia, di cui è facile riconoscere i contorni in ciò che è abbondantemente tradotto, venduto e letto in Italia, viene molto snobbata se scritta direttamente in italiano.
Come se non avessimo, nella nostra lingua, traumi da ricostruire meticolosamente; come se il Friuli, con le sue fragilità e le sue infinite storie di confine (in cui sono entrati perfino i cosacchi), non valesse una riserva indiana o un’identità scissa tra lo schiavismo e il sogno americano oppure tra il Pakistan e la Gran Bretagna.
O come se non ci fidassimo abbastanza di questa nostra lingua. Ma, di nuovo, è un discorso che porterebbe lontano.
Il compito dell’editoria dovrebbe essere, prima che vendere libri, quello di realizzare un ritratto attendibile degli autori pubblicati. Scattare una fotografia, possibilmente una bella foto. L’autore da solo non può (e i selfie, la moda dell’epoca, sono sempre orribili).
Nella fotografia di Antonella Sbuelz, rinuncerei volentieri a un paio di romanzi, in cambio di un bel volume unico di poesie, con dentro tutti i lontani parenti, i racconti ritrovati frugando nei cassetti, le vecchie strade percorse, le donne che affrontano la storia, gli esodi e il terremoto, i bauli sballottati tra Italia, Argentina, Balcani e Ungheria.
Un volume di quelli che trovi a lungo, se non sempre, nelle librerie, accompagnato da qualche riconoscimento istituzionale (no, non premi, quasi tutti brutti): poeta laureato, medaglia della presidenza…
Ma ci vorrebbero bravi fotografi e buoni lettori.
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