Poesia all’Opera – Stefania Giammillaro – “Perché, perché Signore? Perché me ne rimuneri così?” La scelta del dolore
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Stefania Giammillaro |
Vissi
d'arte, vissi d'amore,
non feci mai male ad anima viva!
Con man furtiva
quante miserie conobbi, aiutai.
Sempre con fe' sincera,
la mia preghiera
ai santi tabernacoli salì.
Sempre con fe' sincera
diedi fiori agli altar.
Nell'ora del dolore
perché, perché Signore,
perché me ne rimuneri così?
Diedi gioielli
della Madonna al manto,
e diedi il canto
agli astri, al ciel, che ne ridean più belli.
Nell'ora del dolore,
perché, perché Signore,
perché me ne rimuneri così?
Il “Vissi d’arte”, celeberrima aria della “Tosca”, opera completata nell’ottobre
del 1899 da Giacomo Puccini, su
libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, era il cavallo di battaglia
della zia Concettina, sorella di mia nonna paterna, cantante lirica per
passione. Quando nonna Gianna ci lasciò, nel settembre del 2008, ricordo ancora
che la cantai anch’io tra me e me tutto il tempo del funerale, sussurrandola
come una supplica di incomprensione, un’ammonizione al più disperato “perché”
senza risposta.
E il
“Vissi d’arte” non rappresenta altro che un “a parte”, che si innesta nell’incalzante intreccio melodrammatico
degli eventi, una parentesi intima benché ampia, gonfia, nella quale Tosca sfoga tutto il “perché” dell’ingiustizia
subìta dal Barone Scarpia che l’ha
appena ricattata, chiedendole di concedersi a lui in cambio della liberazione
del suo amato, il pittore Mario
Cavaradossi, condannato a morte.
Sembra
quasi potersi accostare a quel “perché” che urla Gesù crocifisso in punto di morte, o meglio, che urla Gesù a
testimonianza del Suo essersi reso “uomo” anche nella disperazione senza ragione,
rendendo perciò possibile il Suo ingresso nella morte: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Marco,
15:34 - Matteo, 27:46).
Il
parallelismo è azzardato senz’altro, ma in via intenzionale. Perché, di fronte
all’esempio emblematico di purezza perfetta, ci si chiede, come si chiede Tosca:
“Perché devo vivere un dolore che non ho scelto?” Perché, nonostante la mia
rettitudine morale, Tu, Dio, “me ne rimuneri così”? Perché “mi hai
abbandonato”, scegliendo per me?
Si
dice che il dolore fortifichi il carattere per consentire di affrontare meglio
la vita, ma resterebbe pur sempre un’imposizione dall’alto. Se io ho passato il
mio tempo a comportarmi in modo tale da evitare tutte le buche, i dissesti, le
frane incontrate lungo il mio cammino, perché devo comunque vivere la voragine?
Fino a che punto il dolore può dirsi “atto” di scelta consapevole?
Ancora,
Ovidio nella sua opera Amores scriveva: “Perfer et obdura! Dolor hic tibi proderit olim: saepe tulit lassis sucus amarus opem”. Ossia:
“Sopporta e resisti! Un giorno questo dolore ti sarà utile: spesso una medicina
amara porta giovamento al malato”. Monito che Ovidio riferiva alle pene amorose
e che poi è stato strumentalizzato e piegato per descrivere gli aspetti della
società del nostro secolo, votata a qualsiasi sacrificio pur di raggiungere a
tutti i costi un determinato obiettivo, tagliare un determinato traguardo.
Ma
come può un dolore non scelto essere utile? Perché deve essere la Via Crucis l’unica Via possibile per la “salvezza”?
Sperimentare
il dolore, si dice, inoltre, valga come cartina di tornasole per saggiare l’ontologica
consistenza di ciascun essere umano: chi non cambia, o cambia in peggio dopo
aver attraversato un periodo di profonda sofferenza, è come se non avesse
sfruttato al meglio l’opportunità offerta dal dolore, che, ricordiamoci, non è mai
stato invitato ad agire in tal senso.
Diverso
sarebbe, invece, il dolore per la perdita di una persona cara, soprattutto
quando si tratta della dipartita di un figlio. Lì è come se il dolore trovasse
la sua sede più autentica, più “onesta” perché giustificata dall’impossibilità
di controllare la propria sorte, prevedere la morte, che si fa più tragica quando
colui o colei, che hai messo al mondo, ti insegna a sopravvivere alla sua
scomparsa e quindi a riconoscere la possibilità di una vita oltre la morte non
nell’aldilà, ma nella realtà.
Basti
pensare a Giorno per giorno, la
poesia che Giuseppe Ungaretti dedicò
al figlio Antonietto drammaticamente
scomparso all’età di nove anni per un appendicite curata male, che è composta
di 17 strofe e della quale propongo qui un estratto:
1
“Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…”
E il volto già scomparso
ma gli occhi ancora vivi
dal guanciale volgeva alla finestra,
e riempivano passeri la stanza
verso le briciole dal babbo sparse
per distrarre il suo bimbo…
2
Ora potrò baciare solo in sogno
le fiduciose mani…
E discorro, lavoro,
sono appena mutato, temo, fumo…
Come si può ch’io regga a tanta notte? …
3
Mi porteranno gli anni
chissà quali altri orrori,
ma ti sentivo accanto,
m’avresti consolato…
4
Mai, non saprete mai come m’illumina
l’ombra che mi si pone a lato, timida,
quando non spero più…
5
Ora dov’è, dov’è l’ingenua voce
che in corsa risuonando per le stanze,
sollevava dai crucci un uomo stanco? …
La terra l’ha disfatta, la protegge
un passato di favola…
6
Ogni altra voce è un’eco che si spegne
ora che una mi chiama
dalle vette immortali…
7
In cielo cerco il tuo felice volto,
ed i miei occhi in me null’altro vedano
quando anch’essi vorrà chiudere Iddio…
8
E t’amo, t’amo, ed è continuo schianto!
…
[…]
16
Agli abbagli che squillano dai vetri
squadra un riflesso alla tovaglia
l’ombra,
tornano al lustro labile d’un orcio
gonfie ortensie dall’aiuola, un rondone
ebbro,
il grattacielo in vampe delle nuvole,
sull’albero, saltelli d’un bimbetto…
Inesauribile fragore di onde
si dà che giunga allora nella stanza
e alla freschezza inquieta d’una linea
azzurra, ogni parete si dilegua…
17
Fa dolce e forse qui vicino passi
dicendo: “Questo sole e tanto spazio
ti calmino. Nel puro vento udire
puoi il tempo camminare e la mia voce.
Ho in me raccolto a poco a poco e chiuso
Lo slancio muto della tua speranza.
Sono per te l’aurora e intatto giorno”.
“L’aurora e intatto giorno” faranno sì
che il Poeta “regga a tanta notte”,
che trovi un possibile “muto” ancoraggio di pace nella disperazione più
inconsolabile, come se quel dolore fosse "giusto".
Allora
il discrimen non è dato più dalla
volontarietà o meno del dolore, ma dalla sua giustizia, o meglio, dalla percezione di aver subìto una giusta
condanna, quasi una pena detentiva da scontare per approdare al proprio
riscatto personale.
"Ma davvero per uscire di prigione
bisogna conoscere il legno della porta,
la lega delle sbarre, stabilire l’esatta
gradazione del colore? A diventare
cosí grandi esperti, si corre il rischio
che poi ci si affezioni. Se vuoi uscire
davvero di prigione, esci subito,
magari con la voce, diventa una canzone"
(Patrizia Cavalli – da “L’io singolare proprio mio” – Poesie (1974 – 1994), Einaudi, 2024)
Patrizia Cavalli fornisce, insomma, delle istruzioni ben precise per uscire dalla prigione “dorata” che involontariamente (ebbene sì!) ci siamo costruiti intorno e ci indica la via d’uscita da percorrere, non attraverso la rettitudine morale perseguita da Tosca, o in ossequio ai dettami evangelici della Via Crucis, ma trasformando noi stessi, “magari con la voce, diventa(ndo) una canzone”.
E in
tempi non sospetti già Seneca scriveva
a Lucilio:
<<
(...) Si racconta che Socrate ad un tale
che si lamentava di non aver ricavato alcun vantaggio dai molti viaggi fatti ha
risposto: "non immeritatamente ti è avvenuto questo, poiché tu viaggiavi
in compagnia di te stesso". Come si troverebbero bene certe persone se
potessero allontanarsi da se stesse! Invece non ci riescono e continuano a
premersi, a stimolarsi, a turbarsi e atterrirsi a vicenda. Che giova
attraversare i mari e cambiare città ? Per sfuggire quelle cose che ti travagliano,
ciò che importa non è che tu sia altrove, ma che tu sia un altro.>>
(Seneca,
Lettere a Lucilio XVII- XVIII)
Mutando
ciò che c’è da mutare, dunque: Per
sfuggire quelle cose che ti travagliano, non importa soffermarsi sul “perché
del dolore”, ma importa fuggire da quell’ossessione che veste il dolore del
velo nero della punizione, come “ingiusta remunerazione”, invitando noi stessi
a diventare altro, anche senza andare
altrove.
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