ORDITI - Anna Rita Merico - su "Ombre" di Daniele Zanghi, Edizioni Nuova Cultura, 2024 - Recensione
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Anna Rita Merico |
Ombre, una silloge che si presenta ritmata in cinque sezioni: La migrazione, Negazione, Desolazione, Tesori, Condizioni. Un viaggio nelle viscere di universi creativi che ruotano intorno a origini primordiali, memorie cellulari, percezioni di un dopo rammemorante umanità perdute.
Dissipazione di sostanza e movimento ondivago di nebbia. Ombre immerse in luoghi urbani o percepite presso fiumi o, ancora, avvistate in foreste. Le Ombre respirano, gli animali procedono in vicinanza con le ombre. Per loro essenza, essi, possono muoversi tra immobilità lunghe e accennati respiri. Gli spazi dei versi di Daniele Zanghi si allineano tra notti e deserti, luoghi del nulla e dell’infinito, dell’estremo e del vuoto apparente.
Una migrazione, dolorosa, avviene.
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Daniele Zanghi, Ombre, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2024 |
A.R.M.: Come prendono forma queste ombre? C’è una trasparenza che le caratterizza, eppure si mostrano dal dentro di corpo e visione. Nelle tue ombre si sommano tutte le leggerezze e tutte le pesantezze dell’essere. In loro tutto è voce, in loro tutto e segno muto. Congerie di opposti, che consente loro di essere sempre in transito. Le fattezze e le sostanze di queste ombre parlano di corpi in trasmutazione. Corpi che conoscono lo stare in bilico su sponde esistenziali all’interno delle quali, non sempre, esistono parole in grado di dirle.
D.Z.: Scegliendo come protagoniste del mio lavoro la figura delle ombre, la mia intenzione è stata quella di dare voce al lato più scarno ed essenziale del linguaggio. Le ombre sono ciò che rimane a seguito di una regressione identitaria dove permangono solo cenni, sussurri, ammiccamenti attraverso cui, le ombre, non prendono direttamente parola. Esse testimoniano, invece, una volontà di abitare il mondo anche quando questo sembra essere stato privato di tutta la ricchezza che lo individua e lo fa brillare. In altre parole, ho voluto mostrare come si possa esprimere l’esistenza nel “grado zero della rappresentazione”, dove le ombre e l’ambiente circostante si fondono e si compenetrano, creando una scena unica in cui l’azione umana rientra al massimo come un segno, un’allusione che non modifica il paesaggio ma lo carica di un non-detto che si insinua e asseconda manifestazioni e ritmi della notte, dei deserti, di foreste, di spiagge.
A.R.M.: I passi indicano connessioni tra regno animale e regno del trascendente, lì dove ogni trasmutazione è possibile. A tratti, compare l’immagine delle macerie, quell’universo sbriciolato che dice di sostanza maciullata, sostanza che obbliga il nome a svanire, qualcosa che è al di sotto di ogni possibilità di rifondazione e dentro ogni desiderio di rinascita. Un paesaggio che sembra distopico, in realtà è luogo di cellule in vibrazione in cui l’assenza dei vivi racconta la sospensione dello sguardo, la desolazione della perdita. Inizialmente tutto si muove come all’interno di un’opera di Hopper, opera in cui unico soggetto è un assoluto monadico assorto in un dentro da investigare.
D.Z.: Vi sono certamente luoghi in cui il linguaggio fallisce per via di quell’autocensura che impedisce, a volte, soprattutto nelle esperienze artistiche di parlare chiaramente del fallimento stesso della comunicazione. Tuttavia, il desiderio delle ombre che popolano la raccolta è proprio quello, se non di parlare, almeno di agire secondo regole altre, “notturne”. Nella dimensione notturna primeggiano gesti come il camminare, l’offrire, il sorridere calmo di entità che si sanno destinate alla sparizione.
A.R.M.: Il movimento cercato è movimento d’infanzia perduta… Un concerto di ossa mosse al suono da un vento. La parola non prende corpo, è sgusciata fuori da sé lasciando lo spazio sommerso da antichi crateri. Le dimensioni oscillano grevi. E’ possibile smontare e rimontare tutto in un altrove. E’ un bimbo che gioca alla creazione.
D.Z.: Sono assolutamente d’accordo riguardo la natura ludica di questo processo di disindividualizzazione. Lo spazio poetico in cui si muovono le diverse creature del libro è uno spazio onirico, in cui i significati viaggiano come nell’inconscio, assumendo a volte la maschera inquietante del doppelgänger ma, più spesso, prendendo senso nella costruzione del quadro generale. Ho cercato, per quanto possibile, di rifuggire dall’asserzione di verità poetico-filosofiche, lasciando che fossero gli stessi paesaggi brulli e le figure scarne che li abitano a suscitare un senso di abbandono che non ritengo debba essere preso solo negativamente.
Nella stanza scura non sei più tu
ma un cumulo d’ombra più compatto
della notte, potrei urtare contro di esso
non capendo se prendo testa o piedi,
ora come ora è solo un ingombro,
una cosa che si è creata nell’abbandono
e ha cessato di essere intellegibile,
le parole sono state cacciate
da questa pesante presenza
che tuttavia si gonfia, espira,
emette suoni rauchi come a dire
qui non c’è più un uomo
ma solo un suo resto
tramutati in cosa informe
che non sa né vuole più nulla.
A.R.M.: Di pagina in pagina testi si gonfiano di sensi e assumono valore di punteggiatura capace di divenire sintesi di un intero dire che, nella silloge, trova modo di dipanarsi. Questo testo dice, con molta chiarezza, la sostanza di un’ombra. L’ombra ha corpo e dinamica di movimento.
D.Z.: Spesso le singole poesie si compongono di un unico, lungo periodo. Il motivo di questa scelta formale è quello di dare musicalità ai testi, di rendere in un unico grande respiro il ritmo ondivago dei movimenti delle ombre, fino a formare quasi una fiaba, da cui però, come accennavo, evito di trarre insegnamenti morali, cercando invece di restituire il modo di esistenza e di comunicazione di questi fantasmi dell’inconscio, che vivono di un’autentica vita propria, spesso relegata nell’oblio o nella negazione dalle varie urgenze della vita diurna.
A.R.M.: In alcuni versi il rimbombo è verso un oltretomba dantesco. Aleggia il buio nebbioso, quello dietro cui si perde ogni identità. Lo sguardo poetico inanella, verso dopo verso, una stasi che ha il sapore di urla che hanno cercato, a lungo, possibili calme. E’ un verso, quello di Zanghi, in questa silloge, che è scritto con parole capaci di emergere dalla carne, dalla lucidità, dall’intimo di un sé che ha conosciuto estraneità ed unicità, ad un tempo.
D.Z.: La maggior parte dei testi è stata scritta in uno stato di calma quasi assoluta. Non c’è stato bisogno di “battagliare” con le ombre, magari costringendole a dire qualcosa che l’io razionale avrebbe ritenuto più appropriato. Anche nelle poesie più nervose e per così dire esplicative il mio intervento cosciente è stato molto limitato. È piuttosto attraverso uno stato d’animo musicale che tutte queste figure notturne e anomale mi si sono presentate. A ciò ho aggiunto dettagli e descrizioni visivi, per dare al negativo quella consistenza che gli permette di soffermarsi anche solo il tempo di una poesia nel mondo dei vivi. Mondo dei vivi che, a mio parere, può guadagnare in profondità emotiva qualora consenta a se stesso di vedere e toccare ciò che ha perduto – senza lasciarsi trascinare nella catastrofe, ma rafforzando invece il proprio immaginario attraverso il conferimento di un diritto di residenza a quelli che in molte culture antiche erano considerati gli spiriti dei morti.
A.R.M.: Non vi è nulla di passivo in queste ombre. Tagliano realtà, mordono, si nutrono d’oscurità, incutono e tremano nella paura. È il regno del liminare, è il ciò che non è, ciò per cui non c’è parola emerge e pigia come ombra.
D.Z.: Sì, per riallacciarmi a quanto appena detto si potrebbe considerare le ombre alla stregua dei mani latini, che continuano a influenzare, seppure segretamente, la vita dei proprio cari dopo la morte. In termini contemporanei, le ombre non sono altro che il rovescio del linguaggio, una forma di parola che è costantemente presente nel suo uso quotidiano ma che emerge quando il linguaggio di tutti i giorni si inceppa o non trova più le parole. È da quella cesura, quel momentaneo sbigottimento, che la poesia può venire in soccorso per esprimere un dolore che non saprebbe come sfogarsi altrimenti. Credo che non tutte le nostre paure siano necessariamente nocive e distruttive; anzi, il linguaggio notturno può riparare alcune nostre ferite meglio della ricerca spasmodica di soluzioni ovvie, tangibili e immediate.
A.R.M.: La Natura fa da sfondo a questo viatico di forme indefinite, regno di Passaggi, passaggi identitari, bassorilievi e tuttitondo della vita. Ci sono versi che affondano in una dimensione visionaria in cui distruzione e distanza creano vibrazioni e suoni e ridondanze e piogge primordiali. Sembra un universo di assenze eppure tutto rimbomba in un pieno di segni e di versi che dipingono essenze trasmutate come in un quadro di Bosch, le tonalità mutano. Non vi è più uno sguardo esterno, tutto è in convivenza di schegge in tensione. Rimbombi pieni di un nulla in cerca di nulla, a morte succede vita, ancora, dai fondali di un desiderio urgente in cerca di sé.
D.Z.: Ho cercato di accantonare il più possibile l’io lirico così come le mie personali esperienze biografiche. Sì può leggere la raccolta come la descrizione di un mondo di prima della creazione o successivo alla catastrofe. L’umano diventa parte del paesaggio in cui si muove, e a sua volta il paesaggio ha una valenza fortemente simbolica, così che il vero soggetto della raccolta che ho cercato di far parlare è la scena in sé, una scena ovviamente mentale. L’assenza di consistenza delle singole immagini è voluta, ogni immagine ha il ruolo di assumere su di sé l’immagine precedente e di transitare essa stessa verso un nuovo scenario. Riconosco l’influenza pittorica fondamentale in questi testi del pittore polacco Zdzisław Beksiński. In Beksiński si trovano scenari apocalittici che ha prima vista possono inquietare o addirittura repellere, eppure i suoi umani “cancellati” o mutati non sono per me delle aberrazioni e anzi, come nel quadro Senza titolo AC75 (qui, al termine del testo) mi piace scorgervi una capacità di resistenza e anche una forma di amore derivante da un abbandono che rafforza i sentimenti più profondi e puri degli esseri umani.
Troppe immagini che sono troppe parole.
Ma nell’ombra tu mi sfiori, espiri appena con la bocca
e una campanula bianca spunta.
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