LE MONOGRAFIE DI FINESTRE - CINQUE FINESTRE SULLA POESIA - Cettina Caliò (a cura di D. Bellomusto, V. Bruno, S. Giammillaro, D. La Mantia, M. Valenti)
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Cettina Caliò |
Il quarto appuntamento del nostro progetto di redazione "Cinque Finestre sulla poesia", oggi vede come protagonista Cettina Caliò. I cinque redattori del direttivo di Finestre hanno selezionato e commentato ognuno un testo dell'autrice siciliana, esprimendo le proprie suggestioni e impressioni, seppure in nome del comune sentire poetico.
Buona poesia!
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Ora il mondo è condizionale
nello schiamazzo
del futuro remoto
è essenziale
imparare il peso dalle formiche
e andare orfani
dall’altro lato del vento
tenere forte
tutti i segni che fanno l’anima
una mappa da leggere
alla luce di noi
(da Di tu in noi, La nave di Teseo, 2021)
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Cettina Caliò si muove in un tempo che è sul punto di realizzarsi, come fosse una perifrastica attiva, e non si arrende, nello schiamazzo/del futuro remoto, alla confusione del mondo, occorre tenere forte e mai perdere di vista la luce di noi.
Ci sono mani che scrivono recuperando nel segno grafico la saggezza ancestrale di chi per primo ha scoperto la magia del seminare e raccogliere e, soprattutto, del coltivare. Le mani di Cettina Caliò nascondono l’antica sapienza del farsi carico della vita che ha fame e chiede pane e quotidiano amore per andare avanti - è essenziale/imparare il peso dalle formiche.
Con versi liberi e lontani dalla retorica, Caliò ci accompagna nel cuore di un desiderio e attraverso questo lento andare scopriamo che il desiderio si realizza accogliendo il dolore dell’essere. Cettina raccoglie con minuziosa attenzione tutti i segni che fanno anima per non perdere la rotta e, verso dopo verso, ci dimostra che l’amore è una mappa da leggere alla luce di noi.
L’amore non è amore se non evolve di tu in noi.
Doris Bellomusto
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Per fratture e per crolli
(da L’estremo forte degli occhi, La Nave di Teseo, 2024.)
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Certi versi si aprono nel petto come una fenditura lieve, come una crepa nell’intonaco che lascia passare luce e vertigine insieme.
Per fratture e per crolli: non “malgrado”, ma “per”.
La frattura non è l’ostacolo, ma il motore; il crollo non è la fine, ma la soglia.
E allora: si va a precipizio.
Il verso isolato cade sulla pagina, come chi perde appigli e si consegna al vuoto.
Non c’è resistenza, solo un lasciarsi andare - o forse una resa necessaria, un tentativo estremo di liberazione.
Il destino non è ampio, ma costretto: di cieli stretti, e l’aria stessa è magrezza del fiato.
Una condizione rarefatta, prossima all’asfissia, in cui perfino il respiro è un gesto di resistenza affannata e affamata.
Poi, con gesto preciso, si staglia un avverbio come da un bisturi: minuziosamente.
Parola che pare fuori posto in mezzo al disastro, e che invece è il nucleo spiazzante del testo.
Perché anche il crollo, anche la solitudine, anche il precipizio possono essere minuziosi, curati, quasi rituali. Qui non c’è solo perdita, c’è intenzione. Non solo disfatta, ma tensione poetica.
Infine, l’essenziale: si va/ da soli/ per desiderio di lontananza
Il soggetto - quel si, che è un noi impersonale e solitario - riaffiora dalle acque dell’Acheronte con una volontà lucida. Si va: non più travolti, ma guidati da un desiderio.
La lontananza non è fuga, non è abbandono: è trazione, è magnete. È attrazione precisa, forse una salvezza.
Qui si compie un rovesciamento sottile: la frattura diventa via; il crollo, scelta; la solitudine, respiro.
Cettina Caliò ci consegna una poesia dell’essenziale e del profondo. Un testo breve ma abissale, che cammina sul filo sottile della disgregazione e della volontà, del cedimento e dell’intenzione.
In pochi versi disegna l’invisibile geometria delle anime che, nella fatica del vivere, imparano a camminare sul vuoto con grazia minuziosa. E in quel “desiderio di lontananza” risuona la voce di chi, pur tremando, ha deciso di andare.
Sono quasi a disagio nel sentirmi a mio agio indossando la pelle di Cettina.
Come stessi provando di nascosto gli abiti nel suo armadio: potrei quasi confondermi nello specchio, se la sua voce non risuonasse così intonata, ben oltre il mio tacito gracchiare.
Perciò sono qui, maschera, ad accompagnare vuoti al concerto, ché questo suo canto arriva esattamente là dove vuole: dove trova la sua forma.
A precipizio.
Viola Bruno
[1] Dante Alighieri, Inferno, Canto III, vv 1-3
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Ha il profilo sconsolato
questo giorno di camini spenti
forse è la maglia infeltrita
della salute indossata al contrario
o lo strepito della pioggia sui tetti
forse è la beffa del sonno trascorso
in cui mai si trova il ritorno
nell’inganno di strade
sconosciute fino al lenzuolo
o soltanto l’amarezza fredda
della fronte sul vetro
a vegliare la pena dei muri
(da L’estremo forte degli occhi – La Nave di Teseo, 2024)
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Leggo questi versi e prende forma nitida l’immagine della mano sulla fronte ad ancorare il sussulto del vomito, circoscrivere l’angolo retto del gomito su cui poggiare la disperazione, o meglio, “il profilo sconsolato” di un “giorno di camini spenti”. Il dramma non è più precipitare, ma la stasi della linea continua dell'elettrocardiogramma che non percepisce battito, che non percepisce vita. La potenza sublime e puntuale dei versi della Caliò sta nel magnetismo colto nel più semplice, abituale, quotidiano gesto umano, o umano atteggiamento, andatura, posa: l’umano ammalia nei suoi cedimenti e sfocature. Diventa palpabile il trascinarsi del passo nel buio di ogni depressione, dove anche la maglia della salute non ottempera al proprio dovere perché “infeltrita” ed anche se “indossata al contrario” non è segno che si sta percorrendo la strada giusta, come insegna una credenza popolare siciliana, ma che forse si attende un ospite (secondo altra interpretazione) non particolarmente gradito, ma che irrompe impetuoso come il dolore più profondo che silenzia il grido. Shh… né fa più rumore “lo strepito della pioggia sui tetti”; né il sonno consola, ché non conduce al “ritorno della quiete”, ma “all’inganno delle strade”. Una poesia figurativa, quella della Caliò, capace di intrecciare, con il sapiente uso di un lessico misurato e preciso, il susseguirsi di diapositive, realizzando un cortometraggio di sensazioni, suoni senza il necessario ricorso ad onomatopee che rendano tutto il senso del vuoto. Ricorda in un certo senso la scelta lessicale della Merini, mai troppo aulica né maestosa, ma, appunto, precisa nell’indicare l’esattezza definitoria di un predicato verbale o sostantivo, pochi aggettivi in realtà, affinché sia robusto il contenitore e solo quello, per poter accogliere tutto il vortice semantico consegnato dal lettore. Stratagemma che conferisce universalità nel tempo e nello spazio al singolo verso.
Cosa resta, dunque, se non “vegliare la pena dei muri”? Con la stessa fronte - che a parere di chi scrive rappresenta qui “l’estremo forte degli occhi”, come il titolo della silloge (La Nave di Teseo, 2024) da cui la poesia in commento è tratta - poggiata stavolta sul vetro, che rende fredda l’amarezza in perfetta sinestesia, ma, che con la sua trasparenza, accede all’oltre di quell’ “atomo opaco del male” che è il mondo nel suo reale.
Da sponda a sponda in cento parole
Si passa a guado, da sponda a sponda, la vita. E sempre annichilisce, quando incidentalmente ti guardi da fuori, dentro questo ripetuto andare e tornare, anonimi fra anonimi in un insistito fluire di passi perduti nella deriva della corrente dove si va storditi come per luoghi che mai si fermano mai chiudono, quasi ogni cosa avesse nel volto contingenza di stazione, aeroporto, ospedale, così folgorante nella fragilità. Senza contezza, si va, voltandosi appena, come per luoghi che poi di colpo si fanno destinazione ultima di pietra in un sempre che diventa per sempre per uno schiocco di dita del caso.
(da L'estremo forte degli occhi, La Nave di Teseo, 2024).
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"Da sponda a sponda in cento parole" di Cettina Caliò è un breve testo, una prosa lirica, contenuta ne "L'estremo forte degli occhi", edita da La Nave di Teseo nel 2024.
Un testo che diviene una piccola allegoria del vivere. "... ripetuto andare e tornare, anonimi fra anonimi in un insistito fluire di passi perduti nella deriva della corrente dove si va storditi come per luoghi che mai si fermano mai chiudono, quasi ognicosa avesse nel volto contingenza di stazione, aeroporto, ospedale, così folgorante nella fragilità". Una folgorante piccolezza di gesti esili e già perduti nell'atto stesso di esistere, uno stato di spaesamento attonito simile ai sonnambuli ed agli automi sbarbariani e poi montaliani, un viaggiare caproniano, senza attese, verso la inevitabile destinazione finale come nel passo ".. va, voltandosi appena, come per luoghi che poi di colpo si fanno destinazione ultima di pietra…". Su tutto, sorveglia la spietata presenza metafisica del Caso, depauperata da ogni funzione salvifica, simile all'immagine della Natura leopardiana ne La ginestra o nel Dialogo con l'islandese.
"Uno schiocco di dita del caso" richiama, infatti, inesorabilmente, quel passo del recanatese nel suo ultimo canto: "dura nutrice, ov’ei men teme,/con lieve moto in un momento annulla/in parte, e può con moti/poco men lievi ancor subitamente/annichilare in tutto." Un segnale della congruenza con il poeta romantico, che ritorna proprio nell'uso della Caliò di "annichilisce", qui nel primo verso del testo.
Un testo che è un vero saggio di figure retoriche. Predominano le figure della ripetizione, forse con l'intento di dare il senso di un inutile riaccadere, di un infinito "andare e tornare", non a caso anch'esso tropo della ripetizione, un omoteleuto. Rilevanti, per l'analisi, in tal senso, "Di sponda in sponda", epanadioplotico, fonicamente quasi una epizeusi, così come " anonimi fra anonimi". Anaforico è poi l'iterarsi di "… si va ... si va…" Un bisticcio, di stampo paranomastico, è poi l'enallage "in un sempre che diventa per sempre" con l'avverbio che si trasforma in sostantivo.
In ultimo, un cenno sul titolo, che sottolinea la lunghezza del testo, appunto cento parole. Nel caso di un titolo, si tratta di un gioco di parole che crea un legame tra il titolo stesso e il contenuto dell'opera. Una paranomasia, particolare, simile ad un bisticcio logico. Una metafigura, insomma, un alludere "da fuori al dentro".
David La Mantia
La tazzina posata sul tavolo
il cigolio della porta d’ingresso
anche oggi
non ha memoria
il gesto
passa in un fruscio
sul tormento fermo
dei rami
è perdita
il bisogno di restare
dove l’attesa è assorta e la parola
solo una traccia di matita
i passi sulle scale
il sacchetto della spesa
anche oggi
le mani occupate
a reggere la frattura del vuoto
(da L’estremo forte degli occhi, La nave di Teseo, 2024)
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Poesia elegante, raffinata, quella di Cettina Caliò, in cui il labor limae, che si intuisce essere dietro ogni verso, restituisce di certo una formazione classica, più che solo un richiamo ad essa. E ciò sia nella costruzione metrica e retorica del verso, in cui la poeta impiega sovente le figure della tradizione, - penso all’anastrofe, ad esempio, rinvenuta molto di frequente durante la lettura delle liriche che compongono L’estremo forte degli occhi (La nave di Teseo, 2024), tanto da farmela recepire quasi come una vera e propria cifra stilistica dell’autrice, o al verso misurato e senza sbavature - sia nell’eco dei nostri grandi di fine Ottocento e inizio Novecento – la brevità essenziale di Ungaretti o il Montale delle cose piccole e importantissime- e indietro fino all’influsso eracliteo del πάντα ῥεῖ, «e passa / passa tutto» (pag. 70). Sembrerebbe, quindi, una poesia in linea con una tradizione, senza tante sorprese; bella, ma senza nulla aggiungere al tanto già scritto. Salvo poi sorprendere, e rendersi così unica e riconoscibile, in quel riportare il tutto all’interno di una realtà semplice, quasi anodina, in cui oggetti ben conosciuti da tutti (la tazzina posata sul tavolo) e presentati nella loro autenticità quasi dimessa (il cigolio della porta d’ingresso), assurgono a emblemi di resistenza, di rappresentazione di una essenzialità espressiva che diviene mezzo per indagare e dare lustro a ciò che tutti viviamo ogni giorno. Il tutto, nella assenza totale di punteggiatura.
È una poesia corale, nel senso di descrizione emotiva attraverso immagini e oggetti chiaramente riconosciuti e riconoscibili dalla collettività, e, attraverso questi oggetti e queste immagini, la poeta catanese giunge a tradurre in poesia cose di uso comune, dove l’attesa è assorta e la parola / solo una traccia di matita e in cui parole ordinarie, anche il sacchetto della spesa, conquistano lustro e dignità.
Ogni cosa è poi sempre vissuta in un tempo che non ha memoria e la sensazione che si percepisce è di grande sconforto, di vuoto, di attesa di qualcosa che non si sa, forse, neanche cosa sia, né se la frattura del vuoto giungerà, un giorno a risanarsi, come solo i giapponesi, con la loro arte del kintsugi, hanno insegnato a fare.
Melania Valenti
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