INTERMITTENZE - Alba Gnazi - Patchwork

 

Alba Gnazi


La piccola madre faceva coperte patchwork.

Sceglieva i pezzi uno a uno, similari per grandezza, diversi per trama e colore.

I ritagli venivano scartati, oppure accantonati per una futura composizione.

I pezzi selezionati venivano assemblati e cuciti con la macchina a pedale, tu-tun-tu-tun ragliava la macchina, dopo uno o due giri di ruota.

La testa seguiva la narrazione meccanica dei ferri e dei fili, che non era, non solo, un lavoro di sartoria.

Era una danza tribale, antica, operosa.

Era un vocìo di occhiali sovrapposti, di stoffe, dita, mugugni, sospiri, cui facevano da contrappunto sonore imprecazioni: alla macchina, al tessuto, a un azzardo pensato, oppure all'ago, agli occhi muffi, a un dio rammendato tra le pieghe, sotto a ipotesi di fuga.

Quante guerre scucite da una forbice lesta, quanti punti a zig zag assestati sugli orli di una realtà brutale, di una sorte malversa.

Finiscono in un armadio, le coperte patchwork della piccola madre; sopravvivono a traslochi, cambi di scena, sogni interrotti e alibi consumati; resistono a ritorni senza abbandono, a partenze leggere, a sottrazioni di tempo e nome.

Le frange bianche sfiorano il pavimento ai lati del letto, non arrivano a coprire i piedi. Corte, vetuste, un po' sciancate qui, tirate da altre pieghe lì. Perfette in ogni slabbro.

Se le si mette su, un moto di allegria coglie dal fondo, dispiega un brivido e una scossa, mutua dal tempo una carezza.

È come ritrovare un sapore, un sentore, un tepore che si credeva non esistesse più: e invece era solo riposto, solo dimenticato nei giorni che il bianco

fruga gli occhi, il bianco smangiato da polvere e sole; fruga il collo degli aironi, i netti cordoli della luce; sa d'aratro inghiottito dai solchi, dello stupito sconquasso di zolle e greti, e mosche e giugno ocra; strina umori sorpassati dagli aeroplani e umori che col vento l'orizzonte dove sta; posa refoli e urti brevi di zanzare e aquiloni, posa tutto e trama il senso di dirsi qui, tra sciami di parole ammutinate in un silenzio - gratta l'aria, il bianco, ustiona il corvo; sorvola il baricentro di un mondo minuscolo che nessuno muove, nessuno tocca, intanto che fuori, da qualche parte

si è rotto uno specchio: in ogni frammento è fissato uno sguardo che si incontra - si fugge - si esplora; antico annoiato sguardo investito da lamine di luce, sguardo cresciuto in un altro, tramite cui si ha la certezza di esistere. Sguardo in prima persona, agentivo e cocente, Madre sguardo che coltiva. Percepire lo specchio dietro lo sguardo, l'atonia infissa al tempo, un essere vecchio nelle intenzioni che del tempo fa le veci: ecco, frana il sussurro, fuori da uno sguardo si è nulli - fuori da uno specchio Dorian non vive -, ma di là dall'umore uno spartito di sole articola luci da cento albe partorite: mille piccoli bagliori privi di riflesso, innumeri multipli di un intero che contiene ogni corpo, scandisce ogni nome, raduna grani di stelle sparpagliati in cieli patchwork e

sei vivo, dice,

                      sei vivo,

                                  dunque

                                               vivi.


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