IL DIARIO DI DAFNE - Ester Guglielmino - Per favore, non calpestate le parole!
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Ester Guglielmino |
Il complesso architettonico, progettato da Fra Alberto Maria di San Giovanni Battista - come mi conferma il professore
Paolo Nifosì, noto e apprezzato
storico dell’arte nonché, per fortuna personale, mio ex docente - è una delle
testimonianze più belle della cultura tardobarocca iblea e il convento è frutto
di un lungo restauro, iniziato già negli anni Ottanta, e di un altrettanto
lungo ripensamento degli spazi in chiave attuale.
Complesso architettonico del Carmine (Chiesa e
Convento) su piazza Busacca, Scicli
Il chiostro ci accoglie maestoso e sonnolento, nel caldo assolato di un maggio che s’è fatto agosto già prima del tempo. Non uccidere è un’installazione imponente, che certo non passa inosservata: un’architettura scenografica di ben ventuno arcate in cedro del Libano (alte più di otto metri!) progettata dall’architetto Mario Botta e al cui interno Emilio Isgrò ripropone, incisi in rosso sangue su undici coppie di tavole in pietra, i Dieci comandamenti biblici, da lui idealmente posti a fondamento morale della società e sul cui testo è voluto intervenire con la pratica della “cancellatura”, cifra caratteristica della sua opera da quasi sessant’anni, lasciando in evidenza solo il quinto comandamento - Non uccidere, appunto.
Non uccidere, istallazione su progetto di Mario Botta
e Emilio Isgrò
Incuriosita e impreparata - quanto può esserlo una madre che all’ultimo
momento si ritrova ad accompagnare una figlia prossima all’esame di licenza
media, con una tesina in cui si parla di evoluzione del linguaggio e, in
particolare, di Emilio Isgrò - mi inoltro su per la scalinata che conduce ai
locali interni del Museo. Un nugolo di formiche di varia grandezza e postura ci
accompagnano a ogni gradino, si inerpicano sulle pareti, fuoriescono dagli
angoli più impensati. Al botteghino, un ragazzo sorridente e compìto ci passa
un ridotto e un intero. Andiamo.
Conoscevo Isgrò, in verità più come poeta che come artista, avevo sentito
parlare delle sue “cancellature” ma non mi ero mai trovata a diretto contatto
con la sua opera figurativa. Ora la mostra mi conferma quanto i due aspetti
siano strettamente intersecati. Emilio Isgrò - nato a Barcellona Pozzo di Gotto
(Messina) il 6 ottobre del 1937 ma purtroppo, secondo un refrain consueto,
residente a Milano dal 1956 - è noto, sin dagli anni Sessanta, per il
linguaggio artistico della "cancellatura".
La sua è un’arte pittorica costruita attorno al valore della parola e
saldamente connessa alla sua vocazione poetica originaria (tant’è che esordisce
proprio come poeta, con Fiere del Sud, nel 1956,). Infatti - come si
legge in un’intervista rilasciata a La Lettura del “Corriere della
Sera” - secondo Isgrò:
“L’artista deve essere completo. La grande
tradizione dell’artista complesso nasce con il Rinascimento italiano, viene
rinnovata dal Futurismo e smantellata da una concezione dell’arte troppo legata
al contingente che frantuma di nuovo la figura dell’artista condannandolo a
dipingere bei quadri e basta, relegandolo alla moda del momento.”
Ed è a questo artista completo e complesso, in grado di abbracciare e
restituire in modo equilibrato il senso del cambiamento del mondo, che egli
delega il ruolo importantissimo di preservare il valore verbale, di “mettere ordine” nell’uso delle parole.
È il 1964 quando la Pop Art fa
il suo debutto alla trentaduesima Biennale di Venezia. Tra i visitatori c’è
anche un Isgrò giovane che dalla mostra viene catapultato in una dimensione
distopica imprevista. È in questa occasione, infatti, che al non ancora
trentenne poeta/artista si rivela la forza dirompente dell’immagine, a cospetto
della quale l’era della parola sembra di colpo finita. Ed è nella medesima
occasione che egli comprende quanto l’esperienza visiva fosse diventata per il
fruitore un formidabile surrogato della cultura tradizionale, quanto il fumetto
e il cinema avessero contribuito, negli Stati Uniti, ad alfabetizzare la
popolazione non istruita. Una prospettiva che gli si prefigura subito
pericolosa e ambigua, nella misura in cui brandisce come un’arma il potere di
determinare la morte delle parole. E, pur non vivendo ancora in una prospettiva
alla stregua odierna globalizzata, Isgrò percepisce nettamente il rischio (ora
diventato realtà) che ciò possa accadere anche in Europa. Nasce in questi anni,
quindi, dall’urgenza di preservare la sacralità del dire, la sua pratica della
“cancellatura” ossia la creazione di espedienti visivi e soluzioni artistiche
che evidenzino la rilevanza della parola e che, nel contempo, la proteggano, ne
custodiscano il senso. Quindi il modus operandi del cancellare,
contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è mai inteso come un atto di
distruzione ma, al contrario, come gesto amorevole di “protezione”. Per questa
strada Isgrò è riuscito col tempo a creare un suo codice comunicativo nuovo,
che stabilisce un’immediata complicità con lo spettatore, cooptandolo all’interno
di una struttura condivisa di pensiero.
In questa mostra, però, il linguaggio della cancellatura chiama in causa anche un altro significante fortemente simbolico: l’immagine della formica, che col suo valore denotativo diventa elemento centrale e dialogante di sistema.
Emilio Isgrò, Non schiacciatemi per favore
La formica, come afferma Isgrò nella già citata intervista, vuole essere simbolo fortemente rappresentativo dell’operosità di questa terra, di questa Sicilia che non è solo l’isola bella in cui trascorrere l’estate ma anche la madre avara che chiede sempre a chi resta un surplus di lavoro e di fatica. Perché la Sicilia che si vende facilmente sui cartelloni, che brilla nelle terrazze assolate degli hotel pubblicizzati in rete, che si rinfresca nei meriggi afosi con bevande alla mandorla e granite prelibate è una Sicilia che non esiste, se non come costruzione pubblicitaria che compensa tante ombre con un eccesso folgorante di luce. Una Sicilia, insomma, dove da sempre si lavora e si lavora duramente, dove da sempre si parla poco (o male, forse) per quell’amara rassegnazione - ricevuta in dono dalla storia - di non riuscire mai abbastanza a fare sentire la propria ragione. E quindi, in un mondo in cui tutti gli uomini sono più o meno ridotti alla stregua di formiche, di insetti minuscoli che rischiano di “essere schiacciati” da forze che non possono più essere controllate, forse è proprio questa terra che diventa emblema della necessità impellente di difendere la dignità e il senso profondo della parola.
Emilio Isgrò, Giare di Empedocle, Gorgia e
Archimede
Percorro in silenzio i corridoi. Le cancellature di Isgrò disegnano
geometrie armoniose lungo le cartine geografiche del Mediterraneo e sotto puoi
indovinarci le avventure di Ulisse,
le rotte commerciali dei Fenici; sotto puoi quasi intravedere il profilo greco
degli ecisti che conducono colonie intrepide di uomini in cerca di migliori
condizioni e poi ancora le percorrenze romane, bizantine e ottomane. Tutto
questo riposa sotto un tratto costante e omogeneo, che regolarizza quasi e dà
equilibrio agli infiniti ghiribizzi della storia. Ecco che la formica e la
cancellatura entrano in correlazione, ecco che instaurano un legame di
reciproca cura nella misura in cui il colore diventa tentativo di preservare
l’operosità umana e l’operosità umana affida la sua memoria al risalto
cromatico della parola. Perché senza parola non c’è storia né memoria e nel
mondo di oggi, in cui la memoria diventa sempre più labile e la storia
un’entità sempre più opinabile, la parola diventa sempre più povera, meno
sfumata, più sbiadita in ogni suo significato. Con una vertigine, purtroppo più
ideale che reale, Isgrò consegna all’arte e agli artisti la speranza estrema di
porre argine a questo processo di decomposizione di senso. Nell’impossibilità
materiale di ribellarci a forze politiche ed economiche che non possiamo più
gestire, possiamo, attraverso l’arte, lasciare un solco fertile di sviluppi
sull’impressione e sulla memoria altrui.
Carrube d’oro dalla mostra L’opera delle formiche
Quasi alla fine della visita, ci addentriamo in un corridoio ricoperto da
carrube, il bene più prezioso di questa parte quasi dimenticata della Sicilia,
certo più aspra e dura e isolata di quella fertile dei fichi d’India e degli
aranceti. Insolitamente, le troviamo rivestite d’oro a ricordarci che qui i
loro semi vantano una storia preziosa e millenaria. In pochi lo sanno ma i semi
di carrubo vengono chiamati “carati”, dal nome greco delle carrube (kerátion)
da cui deriva il ben noto termine “carato”, unità di misura dei metalli
preziosi. È un uso storico legato alla loro sorprendente uniformità di peso:
ogni seme, infatti, pesa esattamente un quinto di grammo e, nei tempi più
antichi, veniva considerato il contrappeso ideale per oro e altri oggetti di
valore. Un contrasto questo, tra la povertà del frutto e la preziosità del suo
impiego, che ancora oggi sembra ammiccare ironicamente alle ineguaglianze e
alle contraddizioni del presente. E come avviene nelle ore più calde tra i
carrubeti della Sicilia Sud-orientale, anche tra queste carrube vestite
magicamente d’oro sembra sentirlo riecheggiare il canto delle cicale,
antagoniste ciarliere delle formiche per tradizione. Ma forse si tratta solo di
un pregiudizio sciocco, in fondo, perché è grazie al loro canto che le formiche
trovano la forza di continuare a lavorare e di non scordare, nonostante la
fatica, la bellezza dell’estate.
***
P.S. Quella stessa bellezza inafferrabile che, appena qualche stanza più
accanto, aleggia tra le infinite variazioni cromatiche di Piero Guccione, che
qui al MACC è l’altro - e forse più naturale - ospite d’eccezione. La
Ricerca Infinita - un’antologica di una cinquantina di opere tra oli,
pastelli e opere grafiche relativi a vari periodi creativi del grande pittore -
sta qui a ricordarci - anche nel nome - quanto Guccione rielaborasse per mesi e
a volte per anni una singola immagine, quanto si spingesse oltre nel catturare
l’essenza reale di quest’angolo di mondo che aveva deciso di rappresentare,
quanto riuscisse sempre a intuirne un’infinita ed eterna estensione; perché
nell’arte figurativa come nell’arte della parola la sfumatura non è mai solo
mezzo ma obiettivo d’ogni ricerca e suo stesso senso.
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