QUADROPHENIA - Khan Klynski - Quello che non ti ho detto mai non è un mai

 

Khan Klynski

Potremmo trovare le parole giuste per stappare la calotta polare al silenzioso assenso. Chi non abbia mai desiderato trovare poche parole che conducessero il pressante senso di inutilità delle mani verso un fare pulito, un faro che potesse dare almeno un buon esempio sotto un'unica volta, omesso lo scempio oltre il creato malamente edulcorato, il fallimento.

Sono gli anni migliori che se ne vanno oltre confine, aldilà del sale, con i buoni propositi e le somme lanciate chissà dove. Il bambino incazzato se ne vuole andare, la bambina nella morfina non è altrimenti.


Il mondo come Sacra Sindrome dell'Orfano, l'Untore.


Un pianeta quadrato non muore più tondo ma tonto, onta sull'onda d'un mare blu profondo, colato e rigirato meglio di un cine horror al suo oblio iracondo, oracolo come feticcio sconfitto alla sinestetica del fondo.

Mi chiedo da giorni ogni giorno alla fine del mio mondo, dopo aver letto di vari Vani tentativi variegati, di quanto ci si sforzi di mutare e modellare e transumare e piroettare per cambiare l'asse delle nostre coordinate compaesane, una pura formalità, trasformazione che ci disegni palese mente uguali. Tra campanilismo, onanismo e suggestione chi creda ancora alla voce del padrone non ha ancora fatto i conti con il suo Orco.


Restare è verbo dello sforzo come passare è verbo dell'indifferenza.


Costa così tanto, come una Costa Discordia, il naufragio di un solo punto fermo di noi. Come si possa soltanto palesare un'idea di ribellione, un punto di rottura per una presa di coscienza e non di opposizione che illumini, non illuda, in una rottura di questa diga assuefatta alla noia chiamata Coscienza. Avere più spina e dorsale, scegliersi non come Bora ma Madrigale, Scirocco nella forma, estatica parentesi dall'eterea disfida di oblio e caos.

Sono nei polsi, i tuoi polsi che sono i nostri ponti ed attraverso questi spunti punti che ci hanno avvicinato al prossimo specchio, le Anime di chi nel suo riflesso crei quel seno di appartenenza da cui succhiare nuova linfa per non colare, quanto esista ancora qualcosa di buono su cui puntare (non il dito) alla Costante.


Costante come nuova Ragione, nessuna nuova religione, un bacio alla giostra dei martiri.


Un bene comune, vivaddio, non porta sullo scudo nessuna bandiera e nessun colore. Ciò che annienta la buona fede di questa moltitudine per singole isole combinate come comunità è soltanto il potere, non la comunione.

Ma il potere è buona cosa solo se ci tende all'uguaglianza (non rimanere uguali), se permette al disegno capitale di bruciare via la mezza stagione piegata al monossido dell'essere umano, disumano sgomento delle essere Noi...


"intorno a noi, in mezzo a noi

In molti casi siamo noi a far promesse

Senza mantenerle mai se non per calcolo

Il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile

La posta in gioco è massima, 

l'imperativo è vincere

E non far partecipare nessun altro

Nella logica del gioco la sola regola 

è esser scaltro

Niente scrupoli o rispetto 

verso i propri simili

Perché gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili

Sono tanti, arroganti coi più deboli, 

zerbini coi potenti

Sono replicanti, sono tutti identici, guardali

Stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere

Come lucertole s'arrampicano, e se poi perdon la coda la ricomprano

Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno

Spendono, spandono e sono quel che hanno



[Brano e fotogramma, Frankie hi-nrg mc 1997 da “La morte dei Miracoli”]



Non proprio tutti Noi che...siamo sempre stati dalla parte sbagliata dello sfondo. E questa parte colonialista, freddissima pedina isterica, ci rende la pari opportunità di guardare l'Inferno alla giusta distanza. E l'altra parte di Noi che c'è assente, derubata, derubricata, mistica fazenda di terra bruciata sognare il nostro balcone, l'altra parte della barricata. E c'è chi guarda con orrore l'abominio di un dio irrisolto e assenteista; e c'è chi gioca ai pirati con gli escrementi da un canale di scolo filtrato da una televisione borderline, a pagamento, a patimento, a sfinimento del firmamento. Fermate il treno per favore...


Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo!



[Fight Club, primo romanzo dell’autore statunitense Chuck Palahniuk, 1996 e fotogramma versione cinematografica di David Fincher 1999]



In questo preciso memento muore come muore da sempre, nella sua impalpabile fragilità, la memoria del disastro storico. Si tocca con gli occhi, ma non con mano il tracollo dell'età, Innocenza, dei figli di quel dio minorato, morti come morto e sepolto è il nostro porto disposto all'omertà davanti all'ennesimo genocidio quotidiano.

Muoiono questi piccoli figli indifesi e non esiste un dito abbastanza ingombrante, aldilà del nostro vergognoso silenzio, entro il quale nasconderci all'altro, alla cruda rivelazione dello specchio. Non ci sono abbastanza mine antiuomo e nessuna terra per un popolo solo e quell'urlo nell'ultimo urto della morale accampata per arie da farci poi ammettere nel tempio quel "io cero", cadavere dalle mille buone intenzioni colato su se stesso.


Chi potrà avere mai un po' di pietà per chi non ha capito come fermare e trasformare questo torso planetario risoluto ma mai risolto, irrisorto alla sua croce?!


Sento solo una poetica in cose che voi umani non potreste nemmeno immaginarvi. Ho visto alle porte di Tannhäuser il Cuore dentro gli occhi di Pasquale, il sorriso condiviso di Federica, i singhiozzi colorati di Mariateresa, la barba Natale del Prof, il fiume porporino di Gisella, il nido sulla testa di Laura Valentina, i passi di danza di Stefania, l'aria fresca ed avvolgente di Ernesto, la breccia nel muro berlinese di Melania, l'elettricità nei polsi di Zeudi, il moto da luogo microfonato in Vincenzo, le domande per l'eremo di Patrizia, il compromesso della Luce al passaggio di Viola, l'arco scagliato con tutte le frecce da Anna, Salvatore e Ramona con l'amore d'un fare soldato romantico, i fuochi di Saverio, il favoloso modo di Doris, I tentativi di gusto per Pie, il mio Golem trasformarsi da precipizio in gradino e tanto, altro che mi dica sopravvissuto, alla forca di ciò che immaginavo D'uomo...



[Blade Runner, monologo finale, Ridley Scott, 1982]



L'ultima parola, il martello di Dio.


Potremmo abbandonare l'etichetta che crea distanza per mettere e permettere alle mani di stringere altre mani per fermare le mani armate, le mani insanguinate sporche di sangue, per smettere di vedere mani, piccole mani inanimate, serrate in mani di madri disperate orfane nella fame e nella sconfitta di tutto ciò che pensavamo Paradiso.


Quanto dolore può trattenere un corpo solo?


Se fossi un comico direi che è tutto uno scherzo, soltanto uno stupido scherzo.

Artaud direbbe che ho scritto una schifezza (quando mai non è mai) eppure con il suo fare lapidario seppur romantico, riporterebbe questo malsano tentativo al mio non sopportarmi più da tendermi una mano allo spasimo. Una mano tesa al mio nemico, una mano tesa all'amico ritrovato, una mano tesa nell'altra per abbracciare il sacrificio e una mano tesa sulla tua spalla per evitarci il peggio.

Non che una parola possa cambiare questo Mordor, questa stagione diversa, che la poetica nella sua paritetica eccezione estetica crei qualcosa, una chimera di sudditanza al dolce, che pile di alberi abbattuti da fiumi di inchiostro sotto i canali di scolo da Babilonia rendano un sesso di verso al nostro Fato, né il silenzio né il baccano dove il linguaggio si fa malattia della mente e sacrificio del corpo contundente, un melanoma inanimato.


Solo l'unione di un unico miraggio, nella carne e nel sangue, per togliere un ANCÒRA e mettere un BASTA, sarebbe un buon vagito anche se siamo appena nati, sprigionati dai gas di scarico. Forse non fosse, forse non è poi così tardi, forse poco o niente, potremmo convertire in un miracolo, fermare il traffico, scendere per le strade entro le piazze e smettere di lodare il panico, suonare l'unico organo che non fa sconti a nessuno, remare in direzione ostinata e contraria, cambiare l'aria rancida, sfilare dalle dita l'arma bianca, scoprire al cielo grigio piombo la sua salma, formare un corpo di moltitudini con un solo nome, sfilare la frusta ad un piccolo padrone, crescere un fiore con tutti i nomi di Dio, dare qualcosa di più della genuflessione, una Primavera del fare, almeno un piccolo gesto, un incesto rispetto al Teatro delle Atrocità, un raggio di Sole prima del mai e poi mai, di darsi per spacciati, qualcosa di buono prima della estrema unzione, qualsiasi cosa senza il bisogno di abboccare all'amo, prima dello schianto avere coraggio, il coraggio di darsi, di dirsi - ti Amo! -



[fine dell'età, fine dell'Innocenza]



Commenti

  1. Spremere le parole per raccoglierne il succo più segreto. Magico.
    Nadia Chiaverini

    RispondiElimina

Posta un commento

Post più popolari