MUDDICHI – Stefania Giammillaro - "Cu lassa a strada vecchia ca nova, sapi chiddu ca lassa, ma nun sapi chiddu ca trova": alla gioia per il dolore.

 

Stefania Giammillaro


Bentrovati, cari e care, a questo nuovo appuntamento di Muddichi! Il proverbio scelto stavolta è: “cu lassa a strada vecchia ca nova, sapi chiddu ca lassa, ma nun sapi chiddu ca trova”, tradotto: “chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quello che lascia, ma non sa quello che trova”.

E senza troppi giri di parole si inizia subito con un aneddoto.

Maggio 2006, III liceo classico, ossia ultimo anno di liceo, ultimo mese di scuola prima della maturità, stanchezza, ansia e caldo a mille. I professori non spiegavano più, le ore di scuola erano prevalentemente impiegate a farci ripassare l’intero programma dell’anno; così la professoressa di Storia dell’Arte, mitica Giosina, che era già di suo un’opera d’arte vivente e coloratissima, chiamò alla cattedra l’altrettanto mitico Fabrizio, chiedendogli: “Su Fabrizio, parlami di Canova!”

E Fabrizio rispose: “Professoressa, professoressa, iò ri Canova ci sacciu sulu riri che me nonna ricia sempre che “cu lassa a strada vecchia Ca-nova, sapi chiddu ca lassa, ma non sai chiddu ca trova”!

(Professoressa, professoressa io di Canova le posso solo dire che mia nonna diceva sempre che “chi lascia la strada vecchia Ca-nova, sa quello che lascia, ma non sa quello che trova”)

Insomma, si scatenò il delirio in quella classe tra risate fragorose e standing ovation realizzata sollevando i banchi delle ultime fila.

Fabrizio compare ancora negli annali della mitologia della Scuola Paritaria – Liceo Classico S. Giovanni Bosco, Via Brescia n. 5, e sebbene oggi abbia dato la stura al contributo della serie “Muddichi”, quell’anno si diplomò anche lui come tutti, ma non con le onorificenze e/o medaglie al valore che a primo acchito gli sarebbero spettate di diritto. Perché mai? Giustamente vi domanderete.

Non di certo perché quell’ironia fu fuori luogo, anzi, Fabrizio è stato a dir poco geniale oltre che persona eccezionale. Ma forse perché fu costretto per ragioni terminologiche, a dar sfoggio della sua saggezza popolare, con, senz’altro, uno dei più noti proverbi della tradizione siciliana, che, tuttavia, cela in sé un retrogusto amaro, accede ad un chiaroscuro che poco convince piuttosto che affascinare.

Volendo dirlo alla Lucio Battisti: “Troppo spesso la saggezza è solamente la prudenza più stagnante”, e questa velata critica potrebbe, ahimé, fare proprio al caso nostro.

Un monito, insomma, più che un incoraggiamento, che sembra quasi voler tarpare le ali, mettere a tacere gli slanci.

Un proverbio che potrebbe pericolosamente attecchire, assecondandolo, nell’atteggiamento di chi resta confinato all’interno della c.d. comfort zone dolorosa e ha difficoltà a sganciarsene perché, avendo come alternativa il vuoto e l’ignoto, quantomeno quel dolore lo conosce a tal punto che gli è addirittura caro: “[…] sapi chiddu ca lassa, ma nun sapi chiddu ca trova”.

Perché ancorarsi al male? Perché voler stagnare all’interno di una “comfort zone” che di comfort non ha proprio nulla, se non l’averci addomesticato ed addestrato a quella sofferenza? Perché piegarsi su se stessi per rimanere stretti ed immobili su quel punto fisso di tragedia, invece che per darsi la spinta e spiccare più in alto il volo?


Sandro Penna



Sandro Penna scriveva del dolore, quale rito di passaggio, al fine di recuperare la gioia nel suo valore e nel suo senso:

 

La vita… è ricordarsi di un risveglio

triste in un treno all’alba: aver veduto

fuori la luce incerta: aver sentito

nel corpo rotto la malinconia

vergine e aspra dell’aria pungente.

 

Ma ricordarsi la liberazione

improvvisa è più dolce: a me vicino

un marinaio giovane: l’azzurro

e il bianco della sua divisa, e fuori

un mare tutto fresco di colore.”

 

(da "Poesie 1927-1938", Milano, Garzanti 1987)

 

Anche per Massimiliano Bardotti il dolore è la prima fase di un percorso diretto alla gioia, ma per realizzare la transizione che conduce alla luce, occorre dapprima empatizzare, fare proprio il buio altrui per assorbirne anche la gioia ed essere in grado di accorgersi, infine, del “filo d’erba” ed averne cura

 

Quando il dolore degli altri si insinuerà nelle nostre vertebre.

Quando ogni violenza compiuta, da chiunque verso chiunque,

ci rivolterà lo stomaco.

Quando sentiremo nelle ginocchia ogni tortura consumata

nella storia, e saranno consumate le nostra ginocchia

 

Quando la gioia degli altri sarà la nostra unica fonte di gioia.

 

Quando su un treno, un ragazzo straniero, sporco e

maleducato ai nostri occhi, sorriderà a cuore aperto, e il

nostro cuore sarà inondato da una felicità senza tempo.

 

Quando voleremo con la farfalla e strisceremo con la lumaca,

seminando la bava.

 

Quando la sofferenza di una bestia feroce ci sarà insostenibile,

tanto da volerla per noi, per sua salvezza.

Quando ci importerà di un filo d’erba e ne avremo cura.

 

(da “A noi basti la gioia di cantare”, PeQuod, 2025)


"A noi basti la gioia di cantare", M. Bardotti, PeQuod, 2025


 

Ritorna, noterete, la metafora del treno, nonostante il generoso gap di anni tra i due autori, perché è immagine che non conosce remore né tempo, non lo conta, lo attraversa e basta e conferma che nulla ci appartiene veramente … neanche il dolore.

Quel dolore “esatto” che scotta nel sangue.

 

- qualcuno Diavolo mi ami –

 

lo andava squarciagolando

all’acqua del Velino

 

quando si pulì le geografie di rimmel

calate sulle gote, accortasi di me

 

tranquilla, le faccio

ce l’abbiamo dentro tutti quel grido

sei del clan

 

         tu almeno il fegato ce l’hai di bestemmiarlo

vuoi le stelle ti scottino nel sangue vivaddio.

 

(Carlo Giacobbi, “Anche quando è malora”, Arcipelago Itaca, 2023)

 

"Anche quando è malora", C. Giacobbi, Arcipelago Itaca, 2023


Ma se nulla tratteniamo, ché tutto scorre, nulla possediamo, nemmeno il dolore che ci riconosce tutti “simili” dentro quel grido, allora possiamo riscattare anche il proverbio in parola e conferirgli un altro significato, forse quello più prossimo alla sua verità ontologica, intravedervi il coraggio di chi non sa, lì dove l’avvertenza del non sapere “cosa si trova”, da ancoraggio al male conosciuto e abbracciato, si trasforma nella consapevolezza che tutto sfugge alla nostra sfera di controllo, essendo noi per primi entità in continuo divenire.

Entità che, scrivendo, si esercitano ad amare, non tanto se stessi, quanto quel male dello stare al mondo utile per reciprocamente “intuarsi”[1] come esseri umani.

«Dei due, poetare e studiare, trovo maggior e più costante conforto nel secondo. Non dimentico però che mi piace studiare in vista sempre del poetare. Ma in fondo il poetare è una ferita sempre aperta, donde si sfoga la buona salute del corpo

(Cesare Pavese, 29 dicembre 1935, Il Mestiere di Vivere, Diario 1935 – 1950, Einaudi, 2020)


Cesare Pavese


 



[1] Dante Alighieri ne “La Divina Commedia”, in particolare, nel IX canto del Paradiso, utilizza l’espressione “s’io m’intuassi, come tu t’inmii”, che può essere interpretata come un invito a una comprensione profonda e reciproca tra le anime.


Commenti

  1. Cara Stefania,
    non mi esprimo tanto sulla questione del dolore, ma
    ad una riflessione sul proverbio, cui aggiungerei un mio pensiero.
    Ché forse si tratta di un proverbio a due vie: una raccomandazione utile, forse, per una persona tendenzialmente giovane e incline a disperdersi, ma non a una persona in età matura, o comunque abituata a farsi bloccare dalla paura.
    Lo spiego forse meglio in un paio di poesie "Ancora due" e "Doveri" , che stanno in quel libro che da poco hai anche tu.
    (riporto qui una delle due)

    Doveri
    Doveri, ristrettezze, difficoltà
    hanno consigliato di desiderare poco di stare nel sicuro
    poche aspettative, poco dolore. Niente più viaggio chissà dove
    ma una maglietta.
    Cose piccole. Nessuna delusione. Salvi. Poi si muore.

    Leila Falà

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