LE MONOGRAFIE DI FINESTRE - CINQUE FINESTRE SULLA POESIA - Massimiliano Bardotti (a cura di D. Bellomusto, V. Bruno, S. Giammillaro, D. La Mantia, M. Valenti)

 


Terzo appuntamento del nostro progetto di redazione"Cinque Finestre sulla poesia", una presentazione di cinque testi dello stesso autore/autrice commentati da cinque redattori del nostro blog. Oggi presentiamo i  testi di Massimiliano Bardotti commentati dai cinque redattori del direttivo di Finestre. Buona poesia! 

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Chi canta in me quando canto?

Di chi è la voce che conforta?

Di chi quella che salva?

Quando il santo la mano posa sulla piaga 

cosa la risana?

Di chi ti innamori davvero

quando ti innamori?

 Chi muove il vento verso l’orizzonte?

Chi ha velato di mistero il firmamento?

Chi ha rivelato i nomi delle cose?

Da dove viene la luce dell’inverno?

Chi ne ha stimato la durata?

 Dove posa lo sguardo la rondine 

quando inizia la migrazione?

 Il cuore che ci batte dentro al petto

chi lo muove?

Il respiro da che tempo è modulato?

Chi ha sognato per la prima volta?

Chi per primo ha pianto?

Dove sono ora quelle lacrime?

Chi le ha conservate?

(da A noi basti la gioia di cantare, PeQuod edizioni, 2025)

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Le domande sono chiavi, aprono al mistero e allo stupore. È una poesia che si apre alla meraviglia, quella di Bardotti, nasconde l'incanto infantile e la saggezza millenaria di civiltà antichissime che hanno creato il mondo a poco a poco. 

Ogni verso stilla innocenza, come se la poesia servisse a denudare la realtà, a  disvelarla. Si cerca l'origine delle cose umane e animali, il senso ultimo dell'essere creatura tra creature. 

Ogni domanda porta in dono l'attenzione minuta alle cose minute; ogni mancata risposta insegna l'arte della consapevole gratitudine verso il mistero da cui tutto ha origine. 

La poesia non risponde, chiede e resta aperta, come fosse mare. 

Bardotti conosce l’arte senza tempo della maieutica, chiede, chiede, chiede in un climax ascendente, aperto alla commozione crescente per questo eterno mistero dell’essere 

Chi per primo ha pianto?/ Dove sono ora quelle lacrime?/Chi le ha conservate?

Io le ho ritrovate tra questi versi e commossa ringrazio il Poeta. 

Doris Bellomusto


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"C'è un silenzio che ha tutte le ragioni
e pochi che gli avranno dato ascolto.
Il canto dei pianeti, la lontana risacca.
C'è un sempre che non teme mutamenti.
Qui felicità ha fatto il nido."


(da La terra e la radice, puntoacapo Editrice, 2021)


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Nel cuore del silenzio, il nido della felicità


Ci sono poesie che non chiedono di essere interpretate, ma abitate. 

Poesie che si ascoltano come si ascolta il vento nei rami o il battito lento di una terra che sa ancora respirare, con la stessa reverenza che si riserva a una sorgente nascosta nel bosco. Massimiliano Bardotti, nella sua raccolta La terra e la radice, ci consegna un verso che non pretende di spiegare, ma di farci tacere. E in quel tacere, ascoltare ciò che davvero conta.

Questo breve componimento è un inno all’essenziale invisibile, a quella dimensione profonda che vive sotto il frastuono del mondo. “C’è un silenzio che ha tutte le ragioni”: ecco una dichiarazione ontologica, etica, persino politica. Il silenzio, in un tempo che idolatra il rumore e la dichiarazione continua, diventa qui portavoce di una verità altra, indiscutibile e dolce come una resa. Un silenzio assoluto, gravido di senso, che porta con sé il peso della verità.

Ma pochi gli daranno ascolto. E questa è la tragedia sommessa del nostro tempo: aver smarrito la via dell’ascolto, la capacità di rivolgere lo sguardo all’indietro e all'interno, là dove “il canto dei pianeti” e “la lontana risacca” — immagini cosmiche e ancestrali — ci parlano senza voce, eppure con precisione assoluta.

È il dolore sommesso della marginalità del profondo, del non detto che resta ai bordi, ignorato da chi teme la vertigine dell’interiorità.

C’è una musica nascosta che vibra nelle pieghe del mondo — e Bardotti, fedele a una poetica dell’invisibile e dell’essenziale, ci ricorda che questa musica esiste, anche quando non ci degniamo di ascoltarla. Il cosmo e l’oceano — due estremi — si uniscono in un’unica eco: non siamo soli, solo disattenti.

E poi la svolta: "C’è un sempre che non teme mutamenti." Un verso che scioglie ogni angoscia: esiste una quiete oltre la precarietà, una permanenza che non è rigida, ma viva, come la linfa in una radice profonda. In questo “sempre” si apre una breccia, e dentro quella breccia, l’approdo: "Qui felicità ha fatto il nido."

Non è un traguardo, né un clamore. È una delicatezza che si posa, che si lascia trovare da chi si ferma davvero.

La felicità, per Bardotti, non è conquista né possesso. È dimora, è presenza che si posa dove il silenzio è stato accolto, è ricerca di un altrove che non è fuga, ma ritorno.

È radice che cresce là dove l’umano ha smesso di urlare e ha ricominciato a custodire.

In questi cinque versi risiede un gesto poetico autentico: l’arte di togliere, fino a far emergere l’essenziale. Questa poesia è un soffio che resta. Una preghiera laica scritta a matita a margine di una giornata distratta. Un invito radicale a essere, nonostante tutto, casa per ciò che fugge. Silenzio, ascolto, eternità e nido: parole che, nel lessico poetico di Bardotti, risuonano come accordi sacri di un'armonia originaria.


Viola Bruno

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Non ancora, morte, non ancora.

Attendi che possa cantare

attendi il mio canto traboccare

e finché non sarà solo amore

lasciami stare.


Poi vieni, nel momento più alto d’incanto

quando ogni sillaba dal canto d’amore che siamo

starà vibrando il Suo Nome soltanto.


(da “A noi basti la gioia di cantare”, PeQuod, 2025).



*


Dal percorso di ascesi spirituale rintracciabile ne “La disciplina della nebbia” (PeQuod, 2022), con “A noi basti la gioia di cantare” (PeQuod, 2025) si approda alla soglia della consapevolezza, senza nascondere uno sguardo di lode e gratitudine al Cielo. Già condensato nel titolo il filo conduttore della nuova silloge di Massimiliano Bardotti: “a noi basti” sembra correlato alla dimensione della finitezza umana, così come “la gioia di cantare” racchiude la possibilità, o meglio, la presa di coscienza della possibilità di un riscatto e della libertà, solo se ci si affida nel volo ad ali più grandi e misericordiose.

Uno sguardo al Cielo senza perdere la dimensione dell’umano, insomma, come si evince, a sommesso avviso di chi scrive, in questi versi di rara bellezza ed intensità.

La tensione del canto, già insita nella radice etimologica del termine danza che secondo alcune teorie deriverebbe dal sanscrito tan “tendere”/“tensione” – appunto - che risulta qui presente dinanzi, rectius, financo dentro la morte: la tensione all’Altissimo che appartiene all’uomo persino e più ancora nella morte.

Al riguardo, la stessa Franca Alaimo ha scritto: “Bardotti ama la vita e le sue manifestazioni di Amore e Bellezza, e però sa che farlo non deve e non può escludere la dimensione della morte”.

Tensione del canto anche nella morte, quindi, riprodotta in questi versi grazie all’impiego già in incipit dell’epanalessi “non ancora, morte, non ancora” e dell’anafora immediatamente successiva “Attendi che possa cantare/attendi il mio canto traboccare”, entrambe figure retoriche del suono, corroborate rispettivamente dal vocativo centrale “morte” nonché dal climax ascendente cantare/traboccare, funzionale anch’esso a tracciare una curva con pendenza positiva.

La morte è attesa al culmine della gioia, quando la pienezza è tale che non si potrà più contenere. Si accede ad una nuova prospettiva sulla morte, si suggerisce un nuovo sguardo sull’uomo: il poeta dice che la morte non deve intendersi più o solo come la “fine” della vita, ma la si può scorgere anche in cima, all’acme della vita stessa, lì dov’è “solo amore”, il “momento più alto d’incanto”, dove noi tutti sillabe di un unico immenso coro vibreremo all’unisono “nel Suo Nome soltanto”.

Il ricorso alla rima alternata nella seconda strofa suggerisce ancora il richiamo ad una cadenza canora, quasi un ritornello che “salva” la morte dal buio e più avvicina all’apoteosi francescana del maestoso Cantico delle Creature, dove per la prima volta un “Uomo” tra i più “poveri” chiama “sorella” anche la morte.

Stefania Giammillaro

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Benedico il piatto di ceci e la minestra di pane

l’acqua bollente che cuoce le verdure.

Il prato benedico e la foresta

l’oceano e il corso d’acqua.


Il piccolo pezzo di mondo che vedo dalla mia finestra.

(da La disciplina della nebbia, PeQuod, Collana Portosepolto, 2022)


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C'è poco da dire. Massimiliano Bardotti è questo che leggete qui, che palpate nelle sue parole. È cosi limpido da risultare il vero erede, oggi, del pensiero e dello stile di padre Davide Maria Turoldo. Una consonanza formidabile nel suo amare smisuratamente il piccolo ed il quotidiano, una scelta di semplicità gemellata al rispetto di una natura immensa ("... e la foresta/ l’oceano e il corso d’acqua" che richiama nei toni e talora nelle parole il turoldiano "Tempo è di unire le voci,/di fonderle insieme/e lasciare che la grazia canti/e ci salvi la Bellezza./Come un tempo cantavano le foreste",.. i fiumi.. i deserti, le campagne").

La sfida alla nebbia del pensiero e della speranza, al sentirsi esiliati ed abbandonati, evocata nel titolo, è in questa ricerca di gioia e di luce, quasi francescana (tanto che "l'acqua bollente", e non fresca, come tradizione, sembra alludere a dolore e sofferenza, al pericolo dell'ustione, ma diviene, invece, simbolo del lavoro umano, del far fronte alle difficoltà, di una vita in purezza, quasi ascetica, che rifiuta programmaticamente la carne e la morte degli animali). Bollente e piccolo sono gli unici aggettivi qualificativi del testo, che è fatto di cose, di appartenenze (non casualmente la poesia si nutre di sostantivi, ben quattordici, quasi tutti rilevabili in accumulazioni polisindotiche o per asindeto, più o meno lunghe, tipiche del salmodiare). Anche i verbi sono limitatissimi, solo tre (benedico, cuoce, vedo), ma il primo si ripete due volte, la prima volta in apertura, proprio a sottolineare l'accettazione del destino offerto da Dio all'uomo, la gioia di quest'ultimo di essere nel Mondo e non fuori, grazie all'appartenenza alla comunità del Creato. "Benedico" è collegato in epanadiplosi e crea un efficace chiasmo almeno sintattico, complicato da una paranomasia all'interno (benedico il piatto... il prato benedico).

Sul piano retorico, oltre a sottolineare l'uso necessario del sermo familiaris, di un lessico, cioè, volutamente essenziale e quotidiano, risulta evidente l'omoteleuto minestra-finestra, un omoteleuto circolare perché posto nell'incipit e nell'explicit della poesia. Altrettanto significativo è l'uso dell'anastrofe, che si trasforma in iperbato ("il prato benedico e la foresta/l'oceano il corso d'acqua"). L'intento è creare solennità, trasformare la poesia in preghiera. Perché non c'è una vera differenza su questo in Bardotti. Fino al finale ellittico, in cui il poeta "benedice" persino la piccolezza che lo circonda, che contempla dalla finestra. Un vero protrettico questo testo, un Elogio del vivere quotidiano degli umili, del rispetto di sé e dell'altro, che sia prossimo o Natura. La risposta, insomma, fa capire il poeta, è dentro di noi, nell'essere parte del progetto divino. Nell'accettare e nell'accettarsi. Nel partecipare, semplicemente, al progetto di Dio. Nell'essere espressione di quella Radice e quella Sorgente primigenia. Nell'essere bellezza e gioia e luce.

David La Mantia

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C’è un taglio di luce preciso

che mi sorprende ogni inverno

quando febbraio conosce il suo esito.

 

Lo vedo nascere all’orizzonte, straniero.

Poi, come una musica, si allarga e si espande.

Viene a prendermi dove sono, mi riconosce.

E mi parla.

 

Mi dice dell’ora in cui mio nonno

con la febbre alta,

mi chiese di scendere fuori a giocare

perché quel giorno non trovavo amici.

 

Mi dice di quando un amico sincero

non voleva aiutarmi

a scendere da un alto muretto,

per insegnarmi a saltare fuori

dalle mie paure.

 

Mi dice del tempo trascorso a guardare il mare.

Mi dice del primo treno che ho preso da solo.

 

Si sospende così il tempo

come non ci fossero più cose accadute

e cose sperate, solo un presente

in cui tutto è avvenuto per sempre.


E per sempre canta: “ora”.


(da “A noi basti la gioia di cantare”, Pequod, 2025, prefazione di Guidalberto Bormolini)

 

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In questa lirica, estratta da “A noi basti la gioia di cantare”, ultima silloge di Massimiliano Bardotti, pubblicata a inizio 2025 da Pequod con prefazione di Guidalberto Bormolini, l’avvio con “un taglio di luce preciso”, che annuncia l’arrivo della Primavera, è metafora e manifesto iniziale di parte della poetica dell’autore. È la luce della stagione che sta per chiudere il freddo inverno, che illumina, che riscalda, che annuncia la ri-nascita della Natura e di tutti gli elementi che la compongono; e, al tempo stesso, è la luce che “come una musica, si allarga e si espande” parlando al poeta, aprendogli l’orizzonte della comprensione, di quando coloro che riteneva fossero amici, tali non si rivelano, come quando “un amico sincero/non voleva aiutarmi/a scendere da un alto muretto”. È allora naturale rinvenire in quella luce la Luce divina, che tutto comprende ed avvolge, che spiega e rivela, anche ciò che fa male.

È questa la cifra che diviene chiave interpretativa della sua poesia, quel suo tendere al divino, esortando l’essere umano ad accorgersi, ad esercitare l’attenzione alle piccole cose, a vivere ogni elemento come unica fonte di conoscenza e sapienza. È una continua tensione al ritorno alla vita semplice, di colui che gode nel “guardare il mare”, che, nel turbine dei giorni, si lascia condurre per mano dalla spiritualità, dal “tempo sospeso”, quasi non vi fosse più una umana scansione temporale, ma ogni tempo divenisse un Tutto, “in cui tutto è avvenuto per sempre”.

Anche il lessico, così limpido, così nitido nel farsi condurre dalla tradizione, e l’uso ribadito delle figure retoriche della ripetizione, dell’anafora (Mi dice...Mi dice...Mi dice) tra tanta nuova poesia sperimentale, o tra la molta ricerca linguistica, che si fa spesso ermetica, appare già come una sorta di scelta rivoluzionaria, che miscela assunto, lessico e stile in un unicum carico di vitalità espressiva. Ne risulta un andamento musicale, dal ritmo lento e sospeso, quasi un canto, così come accompagnate dalla musica erano le prime liriche della storia.

In tutto questo gli affetti veri, qui espressi dalla figura del nonno, che febbricitante non manca di essergli di consiglio e guida, sono il cardine su cui costruire il nostro nuovo Io, per avviare, appunto, quella rivoluzione spirituale che Bardotti intravede come unica risorsa per uscire dal buio che ci circonda. È, quindi, un invito a godere di ciò che si ha, a farsi bastare la gioia di cantare, a ritrovarla, quella gioia, nella certezza di una Vita che vada oltre il qui ed ora, ma che nel qui ed ora si riconosca per costruire l’Altrove.

Melania Valenti

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Massimiliano Bardotti (1976) è nato e vive a Castelfiorentino.
Poeta, è presidente dell’associazione culturale Sguardo e Sogno, fondata da Paola Lucarini.
Pubblica tra gli altri: Il Dio che ho incontrato (2017, Edizioni Nerbini), Diario segreto di un uomo qualunque, appunti spirituali (2019, Tau Edizioni), La terra e la radice (2021, Puntoacapo Ed), La disciplina della nebbia (2022, peQuod Ed collana Portosepolto) vincitore del Premio Camposampiero e finalista al Premio Poesia Onesta.
A maggio 2024 esce “Il privilegio dei vivi, conversazioni sulla morte e sul morire” edito da Eretica Ed. Libro-intervista curato dal regista e scrittore Adamo Antonacci. A febbraio 2025 esce “A noi basti la gioia di cantare”, peQuod Ed. Ad aprile 2025, al San Leonardo al Palco di Prato, gli viene conferito il “Premio Montale Fuori di Casa”, per la sezione “Poesia e Anima”.
Affianca Luca Pizzolitto, che ne è fondatore, nella direzione della collana poetica Portosepolto (peQuod Ed).
Dal 2022 cura, insieme al poeta Valerio Grutt, la Scuola Annuale di Poesia (La parola, l’ispirazione, la voce) ideata da Valentina Lingria (presidente de La scuola di Editoria).




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